« Tutta la vita come liturgia »
Estratto del Bollettino dell’AIM • 2023 - No 125
Riepilogo
Editoriale
Dom J.-P. Longeat, osb, Presidente dell’AIM
Prospettive
Liturgia monastica: Il grande «oggi» di Dio
Dom J.-P. Longeat, osb
Grandi Figure della Vita Monastica
Le Saux-Abhishiktananda, un sacerdozio nello Spirito
P. Yann Vagneux, MEP
Arte e liturgia
Sul filo della storia, «Maria ha serbato queste cose nel suo cuore»
Dom Ruberval Monteiro, osb
Notizie
Viaggio in Terra Santa, aprile-maggio 2023
Dom J.-P. Longeat, osb
Editoriale
Questo numero del Bollettino dell’AIM avrebbe voluto mettere a punto una riflessione sintetica sulla pratica della liturgia nei monasteri dei nostri giorni: le cose ormai scontate, le questioni e le proposte. Non siamo riusciti a raggiungere questo scopo che avrebbe richiesto un di più di preparazione e di contatti con diversi monasteri dei diversi continenti per avere una foto della situazione attuale.
In ogni modo questo numero è interamente dedicato alla liturgia in maniera più generale e spirituale. Siamo contenti di poter contare sul contributo di tre benedettini brasiliani due dei quali sono professori al Pontificio Istituto Liturgico di Sant’Anselmo.
Abbiamo anche voluto onorare la personalità di padre Henri Le Saux in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte, con un contributo di padre Yann Vagneux delle Missioni Estere di Parigi (MEP). Questo studio è stato già pubblicato nella rivista «Vie consacrée», ma valeva la pena riprenderlo.
Infine, personalmente, condivido qualcosa del mio viaggio in Israele per incontrare le diverse comunità della famiglia benedettina in Terra Santa.
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Articoli
La pace sia con voi! (Lc 24, 35-48)
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Articolo non tradotto. Visualizzazione in inglese, francese o altra lingua.
Liturgia monastica: Il grande «oggi» di Dio
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Prospettive
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Liturgia monastica: Il grande «oggi» di Dio
Le riflessioni proposte in questo articolo vorrebbero essere come un invito a scegliere di vivere il giorno che ci è dato come il più importante e vero di tutti i giorni. Oggi, come ogni giorno, tutto avviene in virtù della potenza e della verità degli esseri e delle cose e solo nella misura in cui siamo disposti ad accoglierli. Come si sa, la liturgia valorizza questo «hodie». Si tratta dell’oggi che ci fa entrare nel giorno senza fine di Dio.
Mi accingo a scrivere queste righe pensando a tutti coloro che, anche oggi, come ogni giorno, a partire dal momento della creazione della nostra umanità, hanno sete di essere, di vivere, di comprendere, di condividere, di amare, di esistere intensamente come parte di un’umanità che grida la sua sete e il suo desiderio senza conoscerne abbastanza l’oggetto e il modo.
Innanzitutto, ci chiediamo in che cosa consista l’ascolto quotidiano: «Oggi se ascoltate la mia voce»; di seguito a questa domanda ci poniamo quella che riguarda il nutrimento quotidiano: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» per volgerci, infine, verso il Giorno di Dio, il giorno che sta aldilà di tutti i giorni: il giorno promesso e tanto desiderato.
«Oggi se ascoltate la voce del Signore, non indurite il vostro cuore» (Sal 94)
Questo versetto del Salterio viene citato proprio all’inizio della regola di san Benedetto:
«Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l’incitamento della Scrittura che esclama: “È ora di scuotersi dal sonno!” e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio: “Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!” e ancora: “Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!”. E che dice? “Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte”» (Prol. 8-13).
Il Salmo 94 è – o era – cantato ogni giorno all’inizio delle Vigilie nella liturgia benedettina: è il salmo invitatorio per eccellenza, il salmo che invita alla preghiera con tutti i suoi elementi diversi.
Prima di tutto troviamo un invito più generale alla lode: «Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia». Subito dopo il ringraziamento: «Perché grande Dio è il Signore, grande re sopra tutti gli dèi. Nella sua mano sono gli abissi della terra sono sue le vette dei monti. Suo è il mare, è lui che l’ha fatto; le sue mani hanno plasmato la terra». Prima di essere riconosciuto come Creatore di tutte le cose, il Signore viene confessato come il Dio unico, il Dio grande al di sopra di tutte le grandezze e di tutte le altezze. Per questo egli può tenere nella sua mano tutti gli elementi della creazione, dalle profondità della terra alla cima delle montagne e per tutta l’estensione dei mari e dei continenti.
Di seguito troviamo una preghiera di ringraziamento per l’opera di salvezza in relazione diretta con il cammino nel deserto e le meraviglie ivi compiute dalla mano del Signore. Questa preghiera è accompagnata da un invito al pentimento come garanzia di un autentico rendimento di grazie: «Entrate, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce… Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere». Questo ringraziamento per l’esperienza della redenzione e questo invito al pentimento si ricongiungono in una nuova confessione di fede: «È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce…».
Infine, il salmo si conclude con una evocazione delle promesse fatte da Dio all’uomo di poter condividere la sua vita e partecipare al suo riposo eterno nel sabato degli ultimi tempi, a condizione che il suo cuore non si smarrisca evocando, ancora una volta, il peccato di Israele nel deserto: «Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”. Perciò ho giurato nella mia ira: “Non entreranno nel luogo del mio riposo”».
Al centro del salmo, nel suo insieme, troviamo il versetto citato da san Benedetto: «Se ascoltate oggi la sua voce, non indurite il vostro cuore». Nel salmo troviamo dunque la dimensione della memoria, quella della promessa e l’evocazione dell’attualità quotidiana che dà senso alle due dimensioni. È questa una delle chiavi della spiritualità cristiana. San Benedetto, fedele alla tradizione monastica, si rivela un commentatore particolarmente affidabile.
Di cosa si tratta? Bisogna vivere ogni giorno da svegli. Ogni mattino e ogni istante della giornata sono un appello lanciato dalla voce di Dio. Questa chiamata non può essere percepita se non da quanti si rendono attenti. Si tratta di coloro che aprono gli occhi e le orecchie del cuore per vedere e per ascoltare: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor 2,9 citata in RB 4,77). Ciò che ci può rendere infelici in questa vita è di chiuderci nell’illusione che viene dai sensi esteriori. Se vedo soltanto con i miei occhi di carne e ascolto soltanto con le orecchie del mio corpo, non ho ancora visto e ascoltato nulla che possa dare il gusto della vita vera.
Ogni giorno, momento dopo momento, attraverso gli esseri e le cose create, ci viene donata la totalità dell’esistenza. Ma, spesso, siamo addormentati e non facciamo altro che sognare. È urgente, sempre più urgente, svegliarsi, alzarsi e continuamente risuscitare per mettersi in ascolto: «Oggi se ascoltate la sua voce non indurite il vostro cuore». Siamo di fronte a uno degli elementi essenziali del Vangelo. Per poter ascoltare bisogna che il cuore sia toccato dalla grazia, che sia convertito, circonciso. In proposito bisogna leggere il discorso della Montagna di san Matteo. Sin dal primo versetto del Prologo, san Benedetto ci invita: «Ascolta, piega l’orecchio del tuo cuore» (Prol. 1).
Commentando il versetto del Salmo 94 citato sopra, la Lettera agli Ebrei attualizza, in modo assai forte, la nostra relazione alla Parola di Dio che l’uomo riceve per metterla in pratica e così poter, un giorno, gustare il riposo di Dio: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto» (Eb 4,12-13). La nostra vita è orientata in questa prospettiva dell’oggi della Parola che si radica nelle nostre vite umane, affinché possiamo dire con Cristo: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21)?
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11; Lc 11,3)
Non basta piegare l’orecchio del proprio cuore e non indurirlo per poter ascoltare l’invito del Signore attraverso la Parola di ogni giorno, bisogna anche accettare ciò che il Signore prevede per noi nel quotidiano, secondo la sua volontà.
È utile a questo punto fare riferimento all’esperienza di Israele nel deserto. Il Signore provvede gratuitamente alla fame del suo popolo mandando, durante la notte «uno strato di rugiada intorno all’accampamento». Questo strato di rugiada, una volta evaporato al mattino, faceva affiorare sulla superficie del deserto una cosa fine e granulosa: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo. Ecco cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne”». Mosè ordinò loro: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Cosicché «ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva» (cf. Es 16,13-21). Il nutrimento quotidiano della manna discesa dal cielo, ecco un elemento fondamentale della spiritualità dell’oggi proposta da Dio al suo popolo.
Il Vangelo secondo Matteo offre un bel commento circa questo dono venuto dal cielo: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete […]. Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate, invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccupa di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,25-34).
Bisogna prendere questo testo alla lettera? No, non è sufficiente, bisogna interpretarlo. Rimane comunque indispensabile saper vivere questo abbandono giorno dopo giorno in una fiducia che bisogna rinnovare continuamente. È chiaro che la nostra ricerca è raramente quella del regno di Dio prima di tutto e questo è un problema. Se come gli Israeliti nel deserto vogliamo fare delle riserve di manna e cerchiamo di immagazzinare il dono di Dio non accettando di ricevere ogni giorno quei doni che sono strettamente necessari, non saremo in grado di compiere la vita di Dio in questo mondo.
Il discorso sul pane di vita illustra il compimento del segno della manna. Il Cristo ci rivela che è lui stesso il Pane di vita: «I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,49-51).
Il nostro unico e vero nutrimento quotidiano è Cristo, il quale si dona perché il mondo abbia la vita. Lo riceviamo nella parola ruminata e nella preghiera, nel pane dell’eucaristia e degli altri sacramenti come pure nella comunione fraterna.
In tal modo l’invocazione «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» non si può capire veramente che in questa relazione con il Cristo donato che è nuova ogni giorno. Per questo possiamo cercare il Regno e la sua giustizia e accontentarci del nutrimento quotidiano.
L’intera vita di Cristo è vissuta in questo modo e san Luca ce lo riporta a suo modo: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (4,21); subito dopo la guarigione del paralitico, i testimoni esclamano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose» (5,26). E ancora: «Ecco, io scaccio demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (13,32-33). E ancora: «Zaccheo, scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua. […] Oggi per questa casa è venuta la salvezza» (19,5.9).
Possiamo dunque interrogarci sul nostro nutrimento quotidiano. Riceviamo veramente innanzitutto il Cristo per compiere la volontà che è in Dio, o siamo invece preoccupati di un’accumulazione assolutamente superflua che ci porteremo nella tomba? La nostra vita si pone sotto il segno primario dell’eucaristia con tutte le sue dimensioni spirituale, personale, comunitaria e sociale, o si tratta, invece, di qualcos’altro sostanzialmente vano? Accettare di ricevere il nutrimento quotidiano di Cristo, significa accettare di rivedere le nostre priorità per vivere gioiosamente alla sequela di Gesù che sale a Gerusalemme per compiervi il suo esodo.
San Benedetto prescrive all’abate di ricordarsi questo insegnamento del Vangelo «perché non adduca la scusa di un’eventuale insufficienza di mezzi» tanto che «si ricordi che sta scritto: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in più”» (RB 2,35).
Il giorno del Signore
L’oggi reale della vita dei credenti è, in verità, l’oggi di Dio che si dispiega su tutta la storia e ben oltre la storia. Per il Signore, infatti, «mille anni sono come un giorno solo» (Sal 89) ed «è meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 83,11). L’oggi di Dio di cui stiamo parlando è quello della sua venuta continua. Il Signore non smette di venire, visita la sua creazione rivolgendole la parola e incarnandosi fino a promettere la sua venuta gloriosa quando Cristo sarà tutto in tutti.
Così la Rivelazione biblica è attraversata dall’annuncio di quest’oggi di Dio che si manifesta continuamente nella vita degli uomini: «E fu sera e fu mattina, primo giorno» (Gen 1); «Questo è stato fatto dal Signore» e ancora «Questo è il giorno che ha fatto il Signore» (Sal 117). I profeti continuano a dire: «In quel giorno…». Questa espressione profetica non va intesa necessariamente come una proiezione verso il futuro, ma è un annuncio del giorno di oggi nel quale ciascuno è chiamato a scegliere tra la vita e la morte (cf. Deuteronomio). Il Vangelo di san Luca si apre proprio con questo annuncio della Buona Novella: «Oggi è nato per voi un Salvatore» (Lc 2,11) e si conclude con una promessa: «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc 23,43).
In ogni modo ciò che esprime al meglio questo grande giorno di Dio, è l’oggi della celebrazione liturgica. Nella liturgia latina, hodie risuona come una speranza inaudita lungo tutto l’anno.
Il più celebre hodie è quello di Natale: «Hodie Christus natus est…» – «Oggi Cristo è nato, è apparso il Salvatore; oggi sulla terra cantano gli angeli, si allietano gli arcangeli; oggi esultano i giusti acclamando: Gloria a Dio nell’alto dei cieli» (antifona del Magnificat per i Secondi Vespri di Natale). Questa antifona viene preparata nell’Ufficio della Vigilia di Natale con l’annuncio dell’oggi della rivelazione: «Oggi, voi saprete che il Signore sta per venire e, al mattino, vedrete la sua gloria».
A questa antifona del Natale si può accostare quella dell’Epifania: «Hodie celesti sponso» – «Oggi la Chiesa lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa» (antifona al Benedictus delle Lodi dell’Epifania). L’antifona del Magnificat dei Secondi Vespri riprende questo tema: «Oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza».
Nello stesso spirito, l’antifona del Magnificat dei Secondi Vespri di Pentecoste illustra il mistero che si compie in questo giorno: «Oggi la Pentecoste è compiuta, oggi lo Spirito appare come fuoco ai discepoli; con doni e carismi li manda in tutta la terra per la testimonianza del Vangelo: chi crederà e sarà battezzato sarà salvo». È evidente che tra queste due feste si staglia la domenica di Pasqua e il tempo pasquale in cui risuona il «Questo è il giorno che ha fatto il Signore» tratto dal Salmo 117,24 che è il salmo pasquale per eccellenza: «Ecco il giorno che ha fatto il Signore, esultiamo e rallegriamoci». È questo il Giorno dei giorni: il vero oggi della vita divina. Inoltre, qualche antifona mariana recente (8 dicembre e 11 febbraio) ha ripreso questo tema come pure la liturgia benedettina lo ha applicato a san Benedetto, santa Scolastica e san Mauro.
La domenica è il grande Giorno del Signore. È, al contempo, il primo giorno della creazione come pure il giorno della redenzione nella risurrezione di Cristo e l’ottavo giorno, giorno oltre i giorni del tempo, in cui Dio trasfigura tutte le cose nel giorno della sua venuta. Il sacramentale della domenica è veramente di grande importanza come espressione della vita di Cristo. Bisogna sviluppare in ognuna delle nostre vite una spiritualità di questo quotidiano che è l’oggi di Dio. È il giorno della nascita, il giorno degli inizi e del nuovo inizio, è il giorno della risurrezione come pure il giorno dell’eternità, il giorno in cui si eclissano le apparenze per fare spazio alla realtà, il giorno del discernimento che è un altro nome per indicare il giudizio.
Cantando i misteri nell’oggi della storia, la liturgia permette loro di realizzarsi nel tempo in modo simbolico. I fedeli diventano così contemporanei dei misteri celebrati i quali si sono realizzati in un momento preciso del tempo, ma restano sempre attuali. È questo il senso del memoriale cristiano.
Un vecchio monaco del nostro monastero, morto qualche anno fa, ha vissuto l’ultima parte della sua vita nella convinzione che ogni mattina fosse domenica. Essendo aiuto-sagrestano preparava ogni giorno tutto il necessario per la liturgia della domenica. Certo, questo anziano monaco aveva perso un po’ la testa, a meno che, in realtà, fossimo noi ad averla persa mentre lui, nel suo candore, l’avesse ritrovata dopo una settantina d’anni di vita monastica.
Un monaco del deserto, nel IV secolo, si ripeteva ogni mattina: «Oggi ricomincio». Auguriamoci che questo incessante ricominciare continui ad abitare la nostra vita. In tal modo, secondo quanto dice Gregorio di Nissa, ci muoveremo «da inizio in inizio per degli inizi che non avranno mai fine». In questo modo arriveremo al giorno senza tramonto che Dio ci offre già nel simbolo.
Conclusione
Non basta certo presentare dei princìpi teorici, bisogna pure arrivare alle conseguenze concrete.
Ascolteremo veramente l’appello che risuona alle nostre orecchie da parte di Dio? Avremo un cuore sufficientemente ricettivo per entrare nell’oggi della Parola? Chiediamoci se frequentiamo veramente la Parola divina in un modo o nell’altro (letture bibliche o spirituali, preghiera, meditazione, ruminazione, lectio divina). Il nostro oggi è quello di un farsi presente di Dio in noi e attorno a noi che continuamente va alla ricerca, in modo sempre inatteso, per chiamare il suo operaio tra la moltitudine?
Saremo in grado di fare della nostra vita un quotidiano cammino fatto insieme? In che modo possiamo condividere il Pane di Dio tra fratelli e sorelle? Come ricevere la manna che è il vero Pane di Dio? Quando si sa bene che la metà degli abitanti del nostro pianeta muore di fame viene giustamente da chiedersi dove è andata a finire la preghiera: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»? È forse impossibile diventare veramente discepoli mentre affrontiamo la traversata del deserto di questo mondo?
Alla fine, possiamo chiederci come la nostra vita rende testimonianza del Giorno che sta al di là dei nostri giorni? Siamo capaci di relativizzare i beni immediati per rimettere la nostra vita nelle mani di Dio nel coraggio di un infaticabile lavoro, senza mai essere preoccupati di far valere noi stessi? Il giorno di Dio è sempre un giorno di giudizio in cui veniamo messi a nudo per essere veramente ciò che dobbiamo essere: delle semplici creature, dei semplici servitori che sanno di essere figli di Dio per l’eternità. Là si trova il nostro tesoro nella consapevolezza che «là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).
«Ecco il giorno che ha fatto il Signore,
rallegriamoci ed esultiamo in esso».
(Sal 117,24)
Santa Macrina, "Tutta la sua vita come liturgia"
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Articolo non tradotto. Visualizzazione in francese, inglese o altra lingua.
L'attuazione della riforma della Liturgia monastica delle Ore nella congregazione benedettina in Brasile
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Articolo non tradotto. Vedere in francese, inglese o tedesco.
Le Saux-Abhishiktananda, un sacerdozio nello Spirito
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Grandi Figure della Vita Monastica
Padre Yann Vagneux
Missions Étrangères de Paris (MEP),
prete a Benares (India)
Le Saux-Abhishiktananda, un sacerdozio nello Spirito
In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di fr. Henri Le Saux, pubblichiamo un articolo di padre Yann Vagneux, già apparso in un numero della rivista Vies Consacrées ma che rimane più che mai attuale1.
Il 21 dicembre 1971, trentaseiesimo anniversario della sua ordinazione, Henri Le Saux (1910-1973), meglio conosciuto in India come Swami Abhishiktananda, scriveva nel suo diario: «Consacrato per un “ministero”. Ma un ministero che vada oltre le sue cosiddette manifestazioni ecclesiali. Ministero al servizio del mistero, rivelazione del Mistero. Rivelazione agli uomini del loro personale mistero (sic) e anche del mistero totale, del mistero in sé. Il monaco scompare, passa nel mistero. Il prete svela questo mistero. Ma chi può davvero rivelarlo senza perdersi in esso?». Queste righe riassumono mirabilmente il sacerdozio del monaco cristiano che più di vent’anni prima aveva lasciato la sua lontana Bretagna per recarsi sulla sponda indiana dove il suo ministero sacerdotale si svolse soprattutto in ambito induista. Naturalmente il sacerdozio di Abhishiktananda, come la sua vita, non può essere facilmente trasposto. Tuttavia, per quanto unico e ardente sia stato, il suo sacerdozio non ha perso nulla della sua forza di ispirazione, soprattutto per chi, come lui, desidera incontrare profondamente il cuore dell’India per trasmetterle la novità del Cristo.
Quaerere Deum
Nel 1921 Henri Le Saux entrò nel seminario minore di Château-giron all’età di undici anni. Cinque anni dopo, continuò la sua formazione presso il seminario maggiore di Rennes per prepararsi a diventare prete diocesano. Tuttavia, in seguito alla morte di un suo amico che voleva farsi monaco, si sentì chiamato a riprendere questa giovane vocazione incompiuta ed entrò nell’abbazia benedettina di Kergonan nel 1929. Pochi mesi prima di entrare in postulandato, confidò al maestro dei novizi le ragioni di questa nuova chiamata: «Ciò che mi ha attratto fin dall’inizio, quel che ancora mi guida, è la speranza di trovare Dio più vicino che in nessun altro luogo. Ho un’anima molto ambiziosa. È del tutto ammissibile, non è vero, quando si tratta di cercare Dio, e spero di non rimanere deluso». In questa confidenza, tutta piena di giovanile entusiasmo, sentiamo riecheggiare le parole che san Benedetto aveva posto al cuore della sua Regola come scopo della vita monastica: «Quaerere Deum», «Cercare Dio» e «Nihil amori Christi praeponere», «Non anteporre nulla all’amore di Cristo». Nella sua bellissima conferenza del 2008 al Collège des Bernardins, Papa Benedetto XVI spiegò cosa fosse questo «quaerere Deum» dei monaci benedettini:
«Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. […] Dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo».
Ci sembra quasi di leggere le parole del giovane monaco di Kergonan che pronunciò i suoi voti perpetui nella festa dell’Ascensione, il 30 maggio 1935. Alla fine di quell’anno, il 21 dicembre, fu ordinato prete proprio nel giorno in cui la Chiesa latina celebrava allora la festa di san Tommaso, apostolo delle Indie.
È importante sottolineare qui che il sacerdozio di Abhishikt-ananda venne vissuto innanzitutto nell’ambito monastico benedettino, di cui conserverà l’impronta indelebile fino alla fine della sua vita. Il suo sacerdozio rientrava a pieno titolo nella ricerca del «quaerere Deum» di cui anche Benedetto XVI ha detto:
«Quaerere Deum: poiché [i monaci] erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini».
La vita del monaco cristiano è infatti strutturata dalla lectio divina delle Scritture. Queste trovano un’eco molto particolare nella liturgia con i sette uffici quotidiani in coro. Il canto gregoriano, di cui Henri Le Saux era appassionato per via del suo ufficio di cerimoniere, è interamente costruito su passi biblici – soprattutto i salmi – amplificati da un canto di commovente sobrietà. Abhishiktananda ne conservò la nostalgia fino alla fine della sua vita e pianse quando, in India, degli amici gli canticchiarono il «Dominus dixit», l’introito della messa di mezzanotte che non aveva più sentito da decenni... A Kergonan, Henri Le Saux era anche bibliotecario, cioè responsabile di uno dei luoghi centrali della vita monastica. Nel contatto quotidiano con i libri, coltivava una grande vicinanza con i Padri della Chiesa che, nei primi secoli, svilupparono un approccio contemplativo unico al mistero rivelato in Cristo. Ma è soprattutto nell’atmosfera di silenzio, così impressionante a Kergonan, che Henri Le Saux visse il «quaerere Deum». Tale era la sua vocazione di monaco di cui scriverà molti anni dopo: «Il solitario è nella Chiesa il ministro del Silenzio di Dio».
I diciannove anni che Abhishiktananda trascorse nella sua abbazia benedettina furono basilari a vario titolo, ma soprattutto per vivere il suo sacerdozio in India, in una cultura così marcata dalla figura del monaco, sia esso indù, giainista, buddista o cristiano:
«Il monaco è l’uomo dell’eschaton. È colui che testimonia che il tempo viene dall’eternità e va verso l’eternità. Che testimonia dell’advaita, della non-dualità dell’essere, nel susseguirsi dei tempi e la molteplicità delle forme religiose».
Il sacerdozio di Melchisedech
Henri Le Saux arrivò nel sud dell’India nel 1948 e raggiunse, vicino a Trichy, Jules Monchanin (1895-1957) che viveva lì da più di dieci anni. Insieme fondarono l’ashram Shantivanam nel 1950, non lontano da Kulitalai, e presero i nuovi nomi di sannyasi cristiani. Monchanin scelse Paramarubyananda in onore dello Spirito Santo e Le Saux, Abhishikteshwananda in riferimento a Cristo, l’Unto (abhishikta) del Padre. Attraverso il loro umile ashram, volevano che la Chiesa dell’India, già allora ricchissima all’epoca di istituti scolastici e medici, potesse rendere visibile anche la sua forma contemplativa, come Maria ai piedi del Signore mentre sua sorella Marta era intenta al servizio della tavola. Per loro era essenziale che l’induismo potesse scoprire la lunga tradizione contemplativa e monastica del cristianesimo. Pensavano che questo ashram potesse divenire luogo di scambio in cui i cristiani avrebbero ricevuto quel che lo Spirito Santo aveva posto nel cuore dell’India.
Qualche anno dopo, mentre scriveva Una messa alle sorgenti del Gange, resoconto del suo pellegrinaggio a Gangotri, Abhishikt-ananda riportava queste parole di Raimon Panikkar, suo compagno di viaggio:
«Il nostro ruolo come cristiani dell’India è quello di attingere ai tesori lasciati in eredità dai nostri rishi, dai nostri veggenti, dai nostri saggi, scrutare le Scritture, attingere alle fonti più pure e primordiali della loro esperienza per trasmetterne gli incomparabili segreti alla Chiesa».
In questo libro scriveva ancora:
«L’India e le sue Scritture fanno parte dell’immenso Testamento cosmico che ha preceduto l’allean-za del Sinai e quella che Dio ha concluso con Abramo […]. È come se dentro questo Testamento, questa alleanza originaria, lo Spirito preparasse la pienezza dei tempi, la venuta del Verbo incarnato attraverso tutti i popoli, tutti i luoghi, tutti i tempi dell’Universo».
Parlando di «testamento cosmico», Abhishiktananda collocava la ricerca indù nel piano di salvezza ben prima della Rivelazione cristiana. Una prospettiva teologica così ampia era necessaria per spiegare tutto ciò che sperimentò nella sua scoperta dell’India. In modo singolare, egli scoprì questo misterioso «testamento cosmico» negli incontri con i sannyasi che incrociò sulle strade o nelle grotte di Arunachala. Lo contemplava ancora nei sacerdoti bramini che officiavano nei grandi templi del Paese Tamil e tra i suoi vicini di Uttarkashi, nell’Himalaya, dove acquistò un terreno nel marzo 1961 per fondarvi un piccolo eremo. Abhishiktananda rimase veramente toccato da questa complicità sacerdotale che sperimentò con i pandit indù. Descriveva così quelle messe speciali che celebrava in latino nel loro quartiere:
«Ti ho parlato, credo, di queste prime messe celebrate nel villaggio himalayano di Gyansu. Anche se l’avevo celebrata il più presto possibile, il sadhu che viveva nella stanza di sotto era già alzato. Stava già cantando la Gita o ripeteva i suoi mantra, scandendoli con dei sonori OM. Mormoravo sottovoce il Dominus vobiscum della liturgia. Era il namah shivaya – Gloria a Shiva – che mi venne in mente in risposta. L’Hari Om si alternava al mio Kyrie e il Bhagavan rispondeva al mio Sursum corda. Nel tempio di Shiva, di fronte, la campana suonava e accompagnava i riti che mio fratello Melchisedech il bramino celebrava con tutta la sua pietà. Ho immaginato che il nostro Padre Celeste osservasse con particolare gioia a questa liturgia letteralmente cosmica e universale».
Nella sua riflessione sull’India e sul testamento cosmico spicca una figura in particolare: quella di Melchisedech, il misterioso sacerdote pagano che andò incontro ad Abramo per benedirlo (Gen 14,18-20). Abhishiktananda, come Panikkar, non ha esitato a vedere i sacerdoti indù come lontani fratelli del sommo sacerdote cosmico:
«Vedi qui questi sacerdoti del tempio della Madre Gange, quelli di Kedar, quelli di Badri, quelli di tutti i santuari della montagna e della pianura? Non sono forse i fratelli del biblico Melchisedech, di colui che benedisse Abramo e di cui il sacerdote di rito romano rievoca ogni giorno la memoria nel momento più sacro della liturgia? Melchisedech è in verità il tipo di sacerdote del Testamento cosmico. Cristo ha voluto essere sacerdote secondo il suo ordine, non secondo l’ordine di Aronne, sacerdote dell’alleanza d’Israele, e in lui anch’io lo sono».
Ancor di più, Melchisedech è stato sempre considerato dai Padri della Chiesa come la prefigurazione di Cristo stesso. Soprattutto la Lettera agli Ebrei mostra come il sacerdozio di Cristo non discenda dal sacerdozio cultuale di Aronne e dai sacerdoti del tempio di Gerusalemme ma, nella sua insuperabile novità, si lega al sacerdozio di Melchisedech secondo il versetto del Salmo 109: «Gesù divenne sommo sacerdote per l’eternità secondo l’ordine di Melchisedech» (Eb 6,20; cf. Sal 109,4).
Collegando in questo modo i sacerdoti indù con la figura misteriosa di Melchisedech e con quella di Cristo stesso e ricordando la menzione nel Canone romano della messa dell’«oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote» Abhishiktananda stesso scopriva la dimensione cosmica del suo sacerdozio e anche la chiamata a raccogliere nel sacrificio della messa «tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si realizza in Cristo». Numerose testimonianze illustrano questa doppia scoperta. Così scrisse a un amico dal suo eremo in Uttarkashi:
«Nel soppalco allestito nella mia capanna, ogni mattina offro la messa, seduto come un prete bramino, con riti di offerta di acqua, incenso e fuoco. Leggo il Vangelo in sanscrito. […] Perché qui, come mai prima nella Chiesa, Cristo si manifesta come sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech».
Soprattutto, abbiamo il magnifico resoconto della messa che Abhishiktananda celebrò con Raimon Panikkar a Gangotri il 6 giugno 1964 in Una messa alle sorgenti del Gange. Quale altra cattedrale se non quella dell’origine del fiume sacro nell’Himalaya potrebbe essere più propizia per vivere il sacerdozio di Melchisedech? «In verità, ci sono pochi luoghi al mondo dove l’Eucaristia è più attesa e più misticamente preparata dallo Spirito che qui, alle sorgenti del Gange». È qui infatti che l’offertorio della loro messa silenziosa poteva davvero unirsi alla ricerca millenaria dell’induismo che voleva associare, con il pane e il vino, la propria offerta a quella che Gesù aveva fatto della sua vita:
«Il pane e il vino che offrirò nella mia messa qui a Gangotri saranno la richiesta rivolta a Dio da tutti quei pellegrini alle sacre sorgenti dell’Himalaya, da tutti quei sacerdoti, da tutti quei rinuncianti, da quelli di oggi, di ieri e di domani, perché l’Eucaristia trascende il tempo».
Il guru
Per venticinque anni, dal suo arrivo nel 1948 fino alla sua morte nel 1973, l’India trasformò profondamente la visione che Abhishikt-ananda aveva del suo ministero presbiterale. Il suo nuovo popolo lo ha portato ad approfondire la dimensione monastica del suo sacerdozio, in particolare nel «quaerere Deum» – la ricerca di Dio che scoprì con tanto ardore in molti monaci indù – e anche il ministero del silenzio di cui fu testimone anche in alcuni silenziosi eremi (muni) nascosti nel cuore dell’Himalaya. La sua vita quotidiana con gli indù lo portò ad approfondire la sua percezione del sacerdozio e lo espanse a dimensioni insospettate attraverso nuove esperienze, come scrisse nelle sue confidenze del 1971:
«Consacrato per un “ministero”. Ma un ministero che vada oltre le sue cosiddette manifestazioni ecclesiali. Ministero al servizio del mistero, rivelazione del Mistero. Rivelazione agli uomini del loro personale mistero e anche del mistero totale, del mistero in sé».
Quest’ultima frase mostra anche che un’altra figura della tradizione indiana è stata decisiva per la rinnovata percezione del suo sacerdozio: la figura del guru, del maestro spirituale.
Pochi mesi dopo il suo arrivo in India, Henri Le Saux ebbe la grazia di incontrare a Tiruvannamalai nel gennaio 1949, Sri Ramana Maharshi (1879-1950) il cui primo darshan gli lasciò ricordi indelebili:
«In questo Saggio di Arunachala e di questo tempo, era l’Unico Saggio dell’eterna India che mi appariva, era il lignaggio mai ininterrotto dei suoi saggi, dei suoi rinuncianti, dei suoi veggenti, era come l’anima stessa dell’India che penetrava nelle parti più intime della mia anima ed entrava in misteriosa comunione con essa. Era una chiamata che tutto squarciava, che tutto spaccava, che spalancava un abisso...».
Nell’incontro che ebbe prima con Ramana e poi, nel dicembre 1955, con Swami Gnanananda, Abhishiktananda scoprì chiaramente che al centro del sacerdozio non c’è solo un mistero di mediazione liturgica tra terra e cielo ma anche un mistero di trasmissione dello Spirito di cui il guru è la figura carismatica. Questo aspetto essenziale del sacerdozio gli si palesava sempre più, come testimonia il suo testo del 1966: «Il sacerdote che l’India aspetta, che il mondo aspetta».
Ogni prete cattolico dovrebbe rileggere questo testo che ancora oggi non è affatto invecchiato. Fin dalle prime righe, Abhishikt-ananda esprime l’essenza della sua visione:
«Nel contesto indiano il prete cristiano non può che essere un guru. […] Per un indù, il guru non è un predicatore che si limita a ripetere a chiunque lo ascolti ciò che ha imparato dai maestri o letto nei suoi manuali. È un uomo che parla per esperienza. Il guru è colui che impartisce l’insegnamento della salvezza; e non è solo nel profondo del cuore che si ascolta il mistero della sapienza, che sgorga l’esperienza della salvezza?».
Con l’impressione ancora viva del suo incontro con Ramana, Abhishiktananda scriveva rivolgendosi a un cristiano:
«Il guru o maestro spirituale è l’unico che un giorno ha incontrato nel profondo della sua anima il Dio “vero e vivente” di cui la Bibbia parla in ogni pagina, e da allora e per tutta la vita sarà segnato dal fuoco di questo incontro […]. Il guru è colui che, avendo scoperto nel profondo del suo cuore la scintilla dell’essere – non un’astrazione, ma l’IO SONO che si è manifestato sull’Oreb – non può più fare a meno di riconoscerla d’ora in poi ovunque, all’esterno come all’interno di ogni creatura, di ogni uomo, nel più intimo di tutto ciò che è, di ogni evento, di ogni movimento del cosmo che il tempo misura».
Sia in contesto indù che in contesto cristiano, tale esperienza è data dalla grazia dell’unico guru, il jagadguru: Dio che risiede nel profondo del cuore. Tuttavia, la luce di questo guru unico è come rifratta in altre luci che sono altrettanti aiuti sul cammino dell’esperienza spirituale. È il caso, ad esempio, di quelle che la tradizione indiana chiama gurugrantha: le sacre Scritture. Abhishiktananda osservò inoltre riguardo al prete: «Senza dubbio i libri lo avranno aiutato nella sua ricerca della Realtà – specialmente i libri che la sua Tradizione gli ha lasciato in eredità, e che gli comunicano, per quanto possibile, l’esperienza di coloro che prima di lui hanno avuto accesso al mistero interiore». Soprattutto, l’unico guru si manifesta nel darshan dei saggi il cui insegnamento avviene nella profondità del silenzio:
«Senza dubbio sarà stato aiutato dai maestri, perché solo dagli altri si riceve l’insegnamento della salvezza. […] Questo insegnamento, infatti, non è solo comunicazione, è comunione, si direbbe in linguaggio cristiano. Ma è proprio qui che sta il grande segreto. Il ruolo del Maestro non è quello di trasmettere nozioni. È soprattutto quello di risvegliare il discepolo. È aprire l’occhio interiore, quello che ci guarda dentro e vi riconosce il mistero. È aprire la mente del discepolo allo spirito che lo abita, a questo Spirito che sonda e scruta le profondità di Dio. Le parole pronunciate dal guru passano senza dubbio dalla parola all’orecchio dall’esterno, come tutto il discorso umano, che si diffonde necessariamente attraverso l’aria circostante. Ma, ancor più veramente, la parola del guru si trasmette direttamente da cuore a cuore, attraverso questo mezzo unificante che è lo Spirito, la comunione di tutti con la Parola eterna. Ed è per questo che in India il silenzio è considerato l’ambiente privilegiato per l’insegnamento della saggezza».
È ovvio che in questo testo del 1966 Abhishiktananda consegnava un ideale altissimo del sacerdozio, ma per lui era la misura stessa dell’India perché «il sacerdote che l’India aspetta, che il mondo aspetta» è anche «il sacerdote che l’India sente, che il mondo sente». Non sorprende che, da giovane vescovo di Benares, Patrick D’Souza (1928-2014) abbia cercato di convincere Abhishiktananda a raggiungerlo sulle rive del Gange per aiutarlo a fondare un “seminario pilota” che formasse preti capaci di essere ascoltati dai loro fratelli indù. Soprattutto, questo ideale del prete come maestro spirituale è stato vissuto in modo molto commovente da Abhishiktananda alla fine della sua vita insieme ai suoi discepoli: due bramini indù, Lalit Sharma e Ramesh Srivastava, suor Thérèse, una carmelitana francese di Lisieux che si unì a lui in India e Marc Chaduc. Nel 1972 confida in una lettera a un amico: «Sarò ad Haridwar con Thérèse; i dieci giorni successivi con Ramesh il giovane indù che legge il Vangelo e che mi ha fatto scoprire per esperienza inspiegabile cos’è il guru per il discepolo. Ciò va ben oltre la direzione spirituale e persino la paternità naturale o addirittura spirituale».
L’avventura più bruciante di Abhishiktananda come guru è stata vissuta con Marc Chaduc, seminarista francese arrivato in India nel 1971. Marc è stato colui che ha raccolto più di chiunque altro l’eredità spirituale del suo maestro. Il 30 giugno 1973, durante un diksha ecumenico nel Gange a Rishikesh, fu introdotto nel lignaggio dei sannyasi indù da Swami Chidananda della Divine Life Society e nella tradizione dei monaci cristiani da Henri Le Saux. Misteriosamente, questa data del 30 giugno 1973 era il giorno in cui avrebbe dovuto ricevere l’ordinazione presbiterale con i suoi compagni di seminario in Francia, ma l’India lo aveva portato su un’altra strada, anche se Abhishiktananda sperava ancora che un giorno sarebbe diventato un prete:
«Il sacerdozio? Ho l’impressione che ti stia aspettando sulla linea del tempo. Un sacerdozio molto spiritualizzato, ben oltre i limiti, un sacerdozio nello Spirito. Questo tuo dono a questo sacerdozio, questo diksha del Gange significherà questo e lo Spirito, a suo tempo, a suo modo, gli risponderà».
Marc Chaduc (1944-1977), divenuto Swami Ajatananda, non divenne mai sacerdote ma, nella sua silenziosa vita di sannyasi, portò all’incandescenza quello che era il nucleo del sacerdozio di Abhishikt-ananda: il «quaerere Deum», «cercare Dio e lasciarsi trovare da lui». La misteriosa scomparsa fisica di Marc, quattro anni dopo la morte del suo guru, può essere anche letta come l’illustrazione della necessaria dimensione nascosta nel cuore del sacerdozio e di tutta la vita cristiana:
«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio. […] Infatti siete morti e la vostra vita ormai è nascosta con Cristo in Dio!» (Col 3,1.3).
Infatti, per Abhishiktananda, il prete, come tutte le vere persone spirituali, è un essere che, in un certo senso, rimane segreto. Questa idea sorprendente significa che il mistero del suo incontro con il Dio vivente deve evitare ogni pubblicità e essere manifestato e donato con generosità solo a coloro che si avvicinano a lui con un’autentica sete spirituale. Ciò che è in gioco qui è un vero riconoscimento di cui la tradizione indù dice: «Quando il discepolo è pronto, appare il guru». Così, a proposito del «sacerdote che l’India aspetta, che il mondo aspetta», Abhishiktananda poteva anche scrivere:
«Senza dubbio c’è già stato qualche volta, questo sacerdote, in India come nel mondo; raramente è sul piedistallo, tranne quando Dio vuole scuotere la sua Chiesa; il più delle volte è nascosto, ignorato, tranne che da pochi, da coloro nei quali lo Spirito ha fatto la sua dimora, e che, quasi istintivamente, guidati da questo stesso Spirito, vanno a lui».
Il grande inno vedico al Purusha – l’uomo primordiale – afferma che: «Per tre quarti il Purusha si elevò in alto, il quarto rimase quaggiù» (Rg Veda X, 4). Questa minuscola manifestazione terrestre dell’Assoluto può farci pensare agli iceberg dove la maggior parte del ghiaccio è nascosto nell’acqua. Lo stesso vale per il sacerdozio nello Spirito, la cui essenza – la contemplazione del mistero divino attraverso il silenzio e la preghiera, il «quaerere Deum» – deve rimanere nascosta per essere l’anima stessa della sua azione nel cuore del mondo. Questo era il messaggio del sacerdozio di Abhishiktananda:
«Il monaco scompare, passa nel mistero. Il sacerdote svela questo mistero. Ma chi può davvero rivelarlo senza perdersi in esso?»2.
[1] Per gentile concessione dell’editore e dell’autore. Questo testo è apparso anche nel volume Portraits indiens, Médiaspaul, 2022.
[2] P. Yann Vagneux ha da poco pubblicato presso le edizioni Arfuyen (2022) la corrispondenza tra p. H. Le Saux e sr. Thérèse de Jésus, monaca del Carmelo di Lisieux, partita per l’India al suo seguito e divenuta poi eremita. (Vedi le copertine dei due volumi a p. 14).
Sul filo della storia, «Maria ha serbato queste cose nel suo cuore»
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Arte e liturgia
Dom Ruberval Monteiro, osb
Monastero della Risurrezione, Ponta Grossa (Brasile)1
Sul filo della storia, «Maria ha serbato queste cose nel suo cuore»
(Lc 2, 19)
Un’immagine silenziosa che parla
Le immagini sono spesso considerate come la “decorazione” di una chiesa, di un monastero, di una casa, di qualsiasi spazio. Invece tutti gli elementi sono in comunicazione continua: niente è neutro! Anche il vuoto dei muri bianchi ha un effetto su di noi, figli del minimalismo, che non è sempre positivo. I primi cristiani utilizzavano abbondantemente le immagini per comunicare il loro contenuto simbolico, che non poteva essere tradotto in concetti2. Una falsa teoria molto diffusa ha fatto credere che i precetti non-iconici della tradizione ebraica impedivano ai primi cristiani di utilizzare le immagini. Al contrario, dei seri studi e delle scoperte archeologiche hanno dimostrato come, nell’epoca greco-romana dei primi secoli della nostra era, quando la comunicazione si faceva attraverso le immagini, sia gli ebrei che i cristiani, da essi influenzati, le utilizzavano al servizio della loro fede e del loro culto3. Essi trasmettevano un accesso esperienziale e non teologico all’ineffabile mistero. In questo breve articolo esamineremo un modulo iconografico che è stato utilizzato nel corso del primo millennio e che è sempre attuale.
Il sarcofago di Pignatta (V secolo) trovato a Ravenna, porta sul suo lato più corto la figura primitiva di una splendida Annunciazione: Maria è rappresentata seduta su una specie di trono, a sinistra, quasi interamente avvolta da un ampio mantello, e si dedica all’arte di tessere un filo teso verticalmente. Davanti a lei, a destra, l’angelo è in piedi, leggermente inclinato verso il centro, con delle ali maestose che creano una specie di mandorla; la sua mano destra sembra tenere un rotolo o un bastone da viaggiatore (le figure sono molto deteriorate) e punta la mano alzata di Maria, mentre la sua sinistra si dirige verso la cesta di vimini che contiene la lana tinta di porpora. Il braccio destro della Vergine è scomparso, ma il segno della sua mano che si sposta orizzontalmente verso l’angelo sussiste.
La Vergine che fila la lana
Questa iconografia si ispira alla tradizione apocrifa secondo la quale Maria, all’arrivo dell’angelo Gabriele, filava della lana per tessere il nuovo velo del Tempio di Gerusalemme:
«Qualche tempo dopo, ci fu un consiglio dei sacerdoti ed essi dissero: “Bisogna far fare una tenda per il Tempio del Signore”. Il sommo sacerdote ordinò: “Chiamatemi delle giovinette senza macchia della tribù di Davide”. (…) Il sommo sacerdote si ricordò di Maria, una fanciulla della tribù di Davide, che era senza macchia agli occhi di Dio.
Così i servitori andarono a cercarle. Essi le fecero entrare tutte nel Tempio del Signore e il sommo sacerdote disse loro: “Gettate la sorte per colei che filerà l’oro e l’argento, il lino fine, la seta, il giacinto, lo scarlatto e la porpora”. La vera porpora e lo scarlatto toccarono a Maria. Ella li prese e tornò a casa sua. (…) Durante questo tempo, Maria prese la lana scarlatta, la filò e ne ricavò un filo. Un giorno Maria prese la sua brocca e uscì per attingere dell’acqua. Ed ecco che una voce disse: “Ti saluto, piena di grazia! Il Signore è con te, tu sei benedetta tra tutte le donne”. Ella si guardò attorno, a sinistra e a destra, da dove proveniva la voce. Tutta tremante, rientrò nella sua casa, posò la brocca, prese la lana viola, si sedette sullo sgabello e la filò (…). Maria terminò di lavorare la porpora e lo scarlatto, e li portò al sacerdote. E il sacerdote la benedisse in questi termini: “Maria, il Signore Dio ha glorificato il tuo nome, e tu sarai benedetta tra tutte le generazioni della terra”»4.
Questo filo appare molto frequentemente nell’arte bizantina occidentale e orientale e non è che dopo il Medioevo che questo particolare sparisce dall’iconografia occidentale pur restando nell’iconografia bizantina. Il problema che si pone è quello del motivo di questo particolare non biblico e del significato della sua ripetizione. Il riferimento al testo degli apocrifi non è sufficiente per giustificarne la rappresentazione, poiché l’arte paleocristiana non cerca di mostrare come le cose erano nel passato (visione storica), ma il loro significato nel presente.
Questo piccolo segno possiede un ricco contenuto. Filare la lana è un gesto molto antico per l’umanità: le differenti fibre della lana sono riunite in un solo filo, grazie al fuso e al gesto delicato delle dita che controllano il numero delle fibre per creare l’uniformità, che è poi avvolta sulla bobina. Quest’attività, molto diffusa tra le donne dell’antico mondo preindustriale, è compresa fin dai primi secoli dai cristiani come un simbolo grandioso del mistero dell’incarnazione, nel quale, per mezzo del movimento circolare sacro del fuso, la materia umana, nel seno della Vergine Maria, diviene il Verbo di Dio fatto carne. Lei tiene nella sua mano il filo imperiale color porpora che ha tessuto: il suo lavora sarà ormai di diventare «l’arte di tessere la carne di Dio» secondo la metafora di Proclo di Costantinopoli († 447). Sul mistero dell’Incarnazione non possiamo esprimerci se non attraverso dei simboli, perché le parole e i concetti umani non possono farlo. Papa Benedetto XVI l’ha detto molto bene:
«L’evangelista Luca ripete più volte che la Vergine ha meditato in silenzio questi avvenimenti straordinari nei quali Dio l’ha coinvolta, “Maria conservava queste cose meditandole in cuor suo” (Lc 2,19); il verbo greco utilizzato symbállousa significa letteralmente “raccogliere, riunire” e suggerisce un grande mistero da scoprire poco a poco»5.
Nel Medioevo occidentale l’iconografia della filatura ha ceduto il suo posto a un’altra immagine molto vicina al gesto artigianale della creazione di un filo: la salmodia! Maria tiene il salterio nelle sue mani e “unisce” la Parola e la vita. Questa “congiunzione” ci fa comprendere che il mistero dell’Incarnazione non è un qualcosa che si è prodotto una volta sola nel tempo, ma che si prolunga nel corso dell’intera vita, quella di Maria, quella della Chiesa e la nostra, seguendo le tappe dell’anno liturgico che ci insegna a riunire – senza escludere nulla – tutte le fibre della nostra storia personale, comunitaria ed ecclesiale, per creare un filo che giungerà fino al velo unico davanti al Sancta Sanctorum. La tenda o il velo simbolizzano la rivelazione di un mistero nascosto6, la porta dell’eternità.
Il lavoro artigianale della filatura “simbolica” degli avvenimenti storici con i salmi, i profeti e il Vangelo, continua il lavoro del Padri della Chiesa, tessendo la storia della salvezza con il loro contributo ai confini del “già e non ancora”.
Lo svolgersi del tempo liturgico ci unifica come esseri umani integrati, in noi stessi e con gli altri, nella trama di una storia che oltrepassa la nostra comprensione man mano che il tempo scorre. Celebrare le feste liturgiche con attenzione, cura e amore è sempre un modo di uscire da noi stessi e di lasciarci condurre fuori di noi stessi, al fine di contestualizzare il nostro proprio percorso personale in un ambito più ampio e dunque ancora più vero. Ogni volta che noi celebriamo una festa o una semplice ora liturgica, così come la recita di preghiere che segnano lo svolgersi dei giorni delle nostre vite, facciamo l’esperienza di far parte di un progetto che è più grande dei nostri sentimenti, emozioni, desideri e frustrazioni. «La liturgia ha un valore terapeutico per tutto ciò che, in noi, rischia di farci ripiegare su noi stessi, di chiudere delle possibilità di espansione e di crescita nella vita»7.
L’iconografia dell’Annunciazione primitiva e medievale si rivela, alla luce della grande tradizione, un simbolo efficace per contemplare il mistero cristologico in se stesso, così come un metodo per una partecipazione attiva alla celebrazione liturgica, vero servizio divino per la nostra unificazione come, e con, il Corpo del Cristo. Dopo tutto, seguendo l’immagine simbolica, è Dio stesso il tessitore divino!
1. Professore di lingua simbolica, arte e liturgia al Pontificio Istituto di Sant’Anselmo a Roma.
2. A. Grabar, «Recherches sur les sources juives de l’art paléochrétien I», Cahiers Archéologiques XI, Paris, 1969, 58-71; A. Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana, Milano, 1983, 5.
3. Cf. P. Prigent, L’image dans le judaïsme du IIe au VIe siècles, Labour et Fides, Ginevra, 1991, 23-42.
4. «Protovangelo di Giacomo» (X-XII), in Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di L. Moraldi, Utet, Torino, 1971, 77-78. [Protovangelo di Giacomo, 10.1-12.1.].
5. Benedetto XVI Omelia per la messa della solennità della Madre di Dio e della 41a giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2008.
6. H. Papastavroup, Le voile, symbole de l’Incarnation - Contribution à une étude sémantique, Cahiers archéologiques 41, Paris 1993, 141-168.
7. M. Semeraro, La messa quotidiana, luglio, EDB, Bologna, 2015, 308.
Viaggio in Terra Santa
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Notizie
Viaggio in Terra Santa
aprile-maggio 2023
Dom Jean-Pierre Longeat, osb,
Presidente dell’AIM
Lunedì 24 aprile 2023
Meglio tardi che mai! Questa è la prima volta che visito la Terra Santa benché abbia fatto tanti viaggi in giro per il mondo. Ma in fondo, non è meglio avere un po’ di maturità per affrontare un’avventura del genere? In ogni caso, sono in uno stato d’animo completamente aperto per vivere questa tappa cruciale.
Parto con padre Andrea Serafino, di Novalesa (Italia), membro dell’Equipe Internazionale AIM, e con Olivier Dumont, tesoriere dell’associazione Amis des Monastères à Travers le Monde (AMTM).
Il viaggio si svolge senza difficoltà e siamo attesi a Tel Aviv da padre Christian-Marie, dell’abbazia di Latroun. Questo monastero ha appena vissuto un momento importante: la comunità ha recentemente cambiato abate, dom René ha lasciato il suo incarico ed è dom Guillaume Jedrzejczak, abate emerito di Monts-des-Cats, oltre che presidente della Fondazione dei Monasteri e da poco amministratore dell’abbazia di Sept-Fons (Francia), a essere appena stato nominato abate della comunità dall’Ordine dei Trappisti. Infatti ci troviamo in una comunità trappista. Dom Guillaume non è presente stabilmente nel monastero ed è padre Christian-Marie, in qualità di priore, ad essere responsabile della vita quotidiana della comunità.
L’abbazia di Latroun si trova a 15 chilometri a ovest di Gerusalemme, al confine tra Cisgiordania e Israele. È famosa per il suo vino! L’abbazia fu fondata nel 1890 da monaci trappisti provenienti dall’abbazia di Sept-Fons, in Francia. Piantarono il primo vigneto nel 1898, subito seguito da lavori di disboscamento e da piantagioni di ulivi, viti, cereali e agrumi. I monaci furono espulsi durante la Prima Guerra Mondiale.
Il luogo fu oggetto di pesanti combattimenti durante la battaglia di Latrun nel 1948 e dopo la guerra passò sotto il dominio giordano; attualmente il monastero si trova in territorio israeliano. A meno di un chilometro a est dell’abbazia si trova il sito di Emmaus Nicopolis, uno dei siti spesso citati come luogo dell’Emmaus del Vangelo.
Arrivati al monastero nel tardo pomeriggio, abbiamo avuto appena il tempo di cenare e ci siamo subito recati nella Sala del Capitolo per un incontro con la comunità circa l’AIM. Per insistere sul significato del nostro viaggio, ho ribadito l’interesse che hanno i monasteri ad avvicinarsi tra loro e ad aiutarsi a vicenda. Su questa terra d’Israele esistono sei comunità della famiglia benedettina. Sarebbe davvero utile che potessero offrire regolarmente incontri di consultazione, formazione e dialogo, come avviene in altre regioni del mondo.
Martedì 25 aprile
Martedì 25 aprile, levata per le vigilie alle ore 4.15, poi Messa e Lodi alle 6.30. In mattinata visitiamo il monastero. Gli edifici eretti nella prima metà del XX secolo sono imponenti. Sono costruiti in pietra. Purtroppo il terreno argilloso non consente una grande stabilità dell’insieme. I muri presentano crepe progressive su tutti i lati. Questo comporta lavori importanti e costosi.
I monaci sono una ventina. Sono affezionati a questo posto e desiderano restarci, anche se alcuni trovano che i costi di mantenimento siano sproporzionati. In ogni caso, la gestione del monastero è oggi condotta molto bene, nella speranza che ciò permetta di far fronte alle future necessità.
La proprietà è composta da circa cento ettari, di cui una parte coltivata a viti e ulivi. Il monastero produce quindi olio d’oliva e un vino davvero eccellente. La cantina è situata negli edifici dell’antica fattoria preesistente al monastero, attorno a un primitivo edificio che fungeva da ostello per i pellegrini.
Dopo la visita degli ambienti e l’ufficio di Sesta, condividiamo il pranzo con i monaci. La tavola è ben fornita anche se, come è giusto che sia, non prevede carne; non manca il vino e come dessert viene servita in nostro onore una torta di noci.
Dopo un lungo incontro con padre Christian-Marie, nel pomeriggio, partiamo per l’abbazia di Abu Gosh. Al nostro arrivo, siamo accolti fraternamente da padre Louis-Marie Coudray, attuale superiore. Trascorriamo molto tempo con lui e con padre Christian-Marie per evocare i diversi aspetti del nostro viaggio e il contesto dei monasteri della Famiglia Benedettina in Terra Santa. Sarebbe interessante rafforzare il rapporto tra le diverse comunità per ipotizzare, in particolare, azioni congiunte, sostegno reciproco, consultazioni o semplicemente scambi di notizie in diretta. Da questo punto di vista la nostra venuta può essere un incoraggiamento.
La campana dei Vespri ci chiama a raggiungere la chiesa romanica dove incontriamo le sorelle della comunità unita a quella dei monaci: canto dei Vespri a due cori (maschile e femminile); breve scambio con l’una o l’altra delle sorelle. Programmiamo con la madre priora la nostra spedizione di domani mattina a Betlemme.
Mercoledì 26 aprile
Partiamo alle 9 del mattino per Betlemme con una sorella della comunità di Abu Gosh che deve farvi una commissione. Per prima cosa ci conduce al Campo dei Pastori. Si presume che in questo luogo i pastori del Vangelo abbiano udito, attraverso il messaggio degli angeli, l’annuncio della nascita di Gesù. Il villaggio arabo di Beit-Sahour, situato in mezzo ai campi di Booz, come riportato nel libro di Ruth (Rt 3,5), è stato identificato secondo la tradizione con il Campo dei Pastori. Non ci sono molti pellegrini, possiamo riunirci in una grotta e ammirare il paesaggio di montagne e prati intorno alla città di Betlemme.
Ci rechiamo poi alla basilica che è già invasa dai turisti. All’interno contempliamo i bellissimi affreschi recentemente restaurati. La Basilica della Natività è una delle chiese più antiche del mondo, costruita secondo la tradizione sul presunto luogo della nascita di Gesù di Nazaret. Fu costruita nel IV secolo dall’imperatore Costantino I e restaurata sotto Giustiniano nel VI secolo. Successivamente è stata oggetto di numerosi interventi. Oggi è amministrata da ortodossi, armeni e latini.
Preghiamo un momento lontano dalla folla nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina. In questo giorno del mio compleanno chiedo di poter rinascere dall’alto come Gesù invita a fare al vecchio Nicodemo. È un momento particolarmente intenso.
Ci siamo poi recati da un commerciante di oggetti religiosi che ci ha presentato la sorella di Abu Gosh e che, alla fine, si è offerto di portarci lui stesso dalle Benedettine dell’Emmanuel. Si sono stabilite vicino al muro di separazione tra Israele e Palestina; il posto di blocco non è lontano e a nessuno piace venire in questo quartiere dove gli indesiderati possono essere minacciati dagli agenti di polizia addetti ai controlli. Ma alla fine tutto si svolge bene e poco prima di mezzogiorno entriamo nel cortile del monastero.
Esiste una comunità molto piccola di quattro sorelle appartenenti alla congregazione di Maria Regina degli Apostoli (Rixensart, Belgio). La comunità è di rito orientale. La storia del monastero inizia in Algeria alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a due passi da quello di Tibhirine. Essendo l’ambiente prevalentemente arabo-musulmano, le suore benedettine pregarono l’ufficio in arabo. Su richiesta del Patriarca Maximos V, hanno accettato di stabilirsi in Terra Santa, dove la vita monastica melchita sta scomparendo, nonostante la presenza di una grande comunità. Avendo una famiglia di Betlemme donato loro un ampio terreno su una delle colline che circondano quella della Grotta della Natività, con un superbo panorama sulla valle del Giordano e sui monti di Moab, riuscirono a posare la prima pietra, sostenute dalla loro Congregazione. Le tre suore presenti celebrarono la prima liturgia orientale nella piccola cappella nel 1963.
Delle quattro sorelle dell’attuale comunità, una studia in Francia nell’ambito dello STIM. Sul posto sono quindi rimaste solo tre sorelle che beneficiano anche della presenza di una familiare laica nella comunità.
Madre Marthe, la priora, ci accoglie a braccia aperte. Ci conduce direttamente alla chiesa dove ha luogo la celebrazione di Sesta. La cappella è ricoperta di affreschi dipinti da suor Marie-Paul, del monastero del Calvario, al Monte degli Ulivi. L’effetto è suggestivo. L’ufficio è cantato in modo molto semplice in un’atmosfera di profonda preghiera. Usciamo da lì con il cuore pieno di speranza.
Madre Marthe ha preparato lei stessa il pranzo e ci prendiamo il tempo per parlare con lei, con suor Anna-Maria e con la persona laica presente in monastero durante il pasto.
Manca suor Bénédicte che accompagna un gruppo di pellegrini francesi. Sono giovani studenti. Come tanti altri gruppi accolti, vengono qui ospitati e dormono in una grande stanza, sul pavimento. L’ospitalità occupa un posto importante nella vita del monastero, oltre al laboratorio di icone e alla produzione di marmellate e di altri prodotti alimentari.
La presenza vicino al muro di separazione tra Israele e i territori palestinesi dà un’atmosfera particolare a questa comunità. Le suore non si schierano né da una parte né dall’altra, restano in territorio intermedio e pregano per tutti. Hanno legami con entrambe le parti e cercano sempre di lavorare per la riconciliazione a tutti i costi.
Madre Marthe ci spiega il significato dell’appartenenza della comunità al rito greco-cattolico per la bellezza e il senso del sacro. Condividiamo il fatto che la loro stessa fragilità è una testimonianza incontestabile.
Suor Anna-Maria viene dalla Romania. Ha avuto una vita molto intensa: è stata monaca ortodossa nel suo Paese e successivamente è stata colpita dal messaggio delle suore di Betlemme durante un viaggio che esse facevano nei monasteri romeni. Suor Anna-Maria decise di unirsi a loro.
Usciamo molto toccati da questo momento di grazia. Madre Marthe ci fa visitare gli ambienti e siamo contenti di vedere che il giardino è bello quanto gli edifici del monastero, entrambi disposti con grande semplicità.
Madre Marthe ha messo a nostra disposizione un amico autista che ci riporterà ad Abu Gosh. È un cristiano palestinese. Non parla in modo corrente il francese e abbiamo qualche difficoltà ad avviare una vera conversazione. Siamo colpiti dalla sua gentilezza e disponibilità.
La sera, dopo i Vespri, condividiamo un pasto festivo con i fratelli di Abu Gosh durante il quale parliamo un po’ dell’AIM. A fine pasto mi sorprende l’arrivo di una torta in onore del mio compleanno. L’atmosfera è più che fraterna. Parliamo a lungo, siamo contenti!
Giovedì 27 aprile
La mattina, visitiamo la casa dei fratelli. In origine vi si trovava una locanda, un caravanserraglio costruito sui resti dell’accampamento romano abbandonato nell’IX secolo, in epoca araba. Serviva allora come punto di vedetta sulla strada che portava a Gerusalemme. Fu in questo periodo che il villaggio prese il nome di Karyat el-Anab. Nel XII secolo i crociati, identificando il luogo con l’Emmaus dei Vangeli, costruirono in questo posto una chiesa e un monastero. Questi ultimi furono più volte distrutti dagli eserciti musulmani, turchi e caucasici. In seguito alle trattative intraprese dall’imperatore Napoleone III, il terreno fu offerto alla Francia nel 1875. Il sito fu gradualmente restaurato dalle autorità francesi e il monastero affidato successivamente ai francescani, ai lazzaristi, poi ai monaci benedettini olivetani. Questi ultimi furono inviati nel 1976 dalla comunità di Bec-Hellouin e ben presto raggiunti dalle suore Oblate di Santa Francesca Romana. Ancora oggi la sorgente Eïn-Marzouk funge da cripta dell’edificio religioso. Durante la guerra arabo-israeliana il monastero fu utilizzato come infermeria improvvisata dalla Brigata Harel.
Il villaggio di Abu Gosh ospita una delle moschee moderne più grandi della regione. Si trova ai margini del monastero.
Alla fine della mattinata ci uniamo alla comunità delle suore per condividere con loro il pranzo nel refettorio. Poi abbiamo un incontro con tutta la comunità. Ottimo scambio con molte domande che ci danno un’idea della diversità dei membri della comunità.
Verso le 16 siamo condotti a Gerusalemme sul Monte degli Ulivi per raggiungere la comunità delle Suore del Calvario. Siamo accolti molto fraternamente e, quasi subito, partecipiamo ai Vespri. La comunità è ridotta ma molto fervente. Fin dall’arrivo sono stato toccato dall’invito all’intimità in questo luogo in cui Cristo si ritirava con i suoi discepoli. È un luogo separato e riservato che deve essere protetto.
Ceniamo in foresteria in compagnia di due giovani volontari, di cui uno, un ragazzo, è lì da diversi mesi e l’altra, una ragazza, ha appena trascorso lì due mesi e si prepara a tornare in Francia. La comunità pratica volentieri questo tipo di ospitalità che permette alle persone di vivere un’esperienza umana e spirituale del tutto unica, collaborando alla vita del posto.
La sera, affacciandoci dal giardino delle suore, ammiriamo il sottostante panorama della città vecchia con la spianata del Tempio, la cupola della grande Moschea e i vari campanili che punteggiano l’orizzonte. In basso a destra c’è il cimitero ebraico dove i morti attendono la venuta del Messia nella valle del Cedron.
Venerdì 28 aprile
Dedichiamo la mattinata alla scoperta dei dintorni del monastero. Andiamo dalle suore russe nei pressi del presunto luogo dell’Ascensione. Sono una quarantina. Il loro stile è molto diverso da quello dei monaci e delle monache occidentali. Vivono in piccole case sparse sulla loro terra e pellegrini e turisti possono andare e venire a loro piacimento. Siamo qui come in un piccolo villaggio. Incontriamo una sorella ucraina che cura l’orto e si prende cura di suo padre in sedia a rotelle, molto anziano e completamente sordo e cieco; è un prete, ci viene detto. Sembra un vecchio starez. Sono fuggiti dall’Ucraina e si sono rifugiati in questo monastero a Gerusalemme. Incontriamo anche la sorella cantora della comunità che è giordana e suor Myriam che è francese. Scambi fraterni molto belli che mostrano la qualità della loro vita interiore.
Passiamo accanto alla moschea che custodisce l’impronta del piede di Gesù (al momento dell’Ascensione). Percorriamo le strade del villaggio arabo che circondano il monastero delle Suore del Calvario.
Dopo pranzo abbiamo un lunghissimo momento di scambio con le benedettine. Ci spiegano la loro situazione e le sfide della loro presenza in questo luogo. Descrivono dettagliatamente i loro progetti. Durante il loro ultimo Capitolo generale, si sono date tempo fino al 2024 per trovare una soluzione di possibilità di vivere in loco. Bisogna aspettare per vedere se tra qualche mese si apriranno o meno strade concrete che permetteranno loro di presentare positivamente la loro situazione durante il prossimo Capitolo del 2024. Sembra difficile che arrivi aiuto o collaborazione da altre congregazioni o comunità benedettine. Dovremmo piuttosto rivolgerci a laici che accettino di impegnarsi in comunione con le suore, per raccogliere la sfida di una presenza attiva in questo luogo. Altrimenti subentreranno altre suore, se sarà possibile trovarne. In ogni caso, sarebbe importante mantenere una presenza cristiana in questo luogo protetto sul Monte degli Olivi.
Poi partiamo verso la Casa di Abramo per un incontro con le responsabili delle comunità contemplative femminili della Terra Santa. Ci andiamo a piedi, passando tra le tombe del cimitero ebraico con un’incredibile vista sulla valle, sulla Città di David e sulla vecchia Gerusalemme.
La Casa di Abramo è l’antico monastero fondato dai monaci di Belloc nel XIX secolo. L’edificio è completamente restaurato. È a servizio dell’accoglienza dei pellegrini che non possono soggiornare in hotel, tutte le confessioni e religioni insieme.
Ci sono due coppie di laici, tra cui quella che gestisce la casa, e una quindicina di suore benedettine, carmelitane, delle Beatitudini e di Betlemme. Si incontrano regolarmente con un tema e questioni pratiche riguardanti la loro vita (amministrazione, lavoro, finanziamenti, ecc.). Presento l’AIM, aiutato dai miei due compagni, e sorgono tante domande. Affrontando il tema della diversità nel gruppo formato dalle suore, questo resta in sospeso. Questo tipo di incontro è un incoraggiamento a considerare anche un incontro dei superiori e delle superiore benedettini una o due volte all’anno. Questa è la proposta che sto facendo.
Sabato 29 aprile
Oggi, dopo pranzo, partiamo per la Basilica della Dormizione. Ci andiamo a piedi e attraversiamo nuovamente la valle della Geenna, andiamo a Saint-Pierre-d’Alicante, poi ci fermiamo al Muro del Pianto dove, da lontano, con la fronte posata sulla parete esterna, prego intensamente per la pace; passiamo per il Cenacolo che, ovviamente, ha tutta una storia architettonica. Ci raccogliamo un momento con emozione. Poi scendiamo alla tomba di David. Questo luogo mi tocca, perché san Davide è per me uno dei personaggi biblici a cui amo tanto riferirmi. Infine, raggiungiamo l’imponente Monastero della Dormizione.
Troviamo il padre abate che ha appena finito la visita di un gruppo. Ci concede quasi due ore. Trattiamo tutti i tipi di argomenti: la storia e la vita del monastero, l’importanza per loro della lingua e della cultura tedesca che li rende un po’ diversi dagli altri monasteri con una cultura più francese; il lavoro educativo con la facoltà di teologia in prospettiva monastica, con una ventina di studenti; i lavori di ristrutturazione del monastero interamente sostenuti dalla Germania, il proprietario è un’associazione della città di Colonia; la complementarità con la loro fondazione di Tabgha che è un vero centro spirituale vicino al lago di Tiberiade, nel luogo della moltiplicazione dei pani, e mille altre cose.
Visitiamo i lavori di ristrutturazione del monastero che interessano tutti gli edifici; è un risultato ambizioso che sarà completato fra qualche mese. Si prevede che la chiesa sarà pronta per la benedizione abbaziale di padre Nikodemus Schnabel il giorno di Pentecoste.
Partecipiamo ai Vespri. I monaci presenti sono solo tre perché degli altri nove, alcuni sono nel monastero di Tabgha e altri svolgono ministeri qua e là. La funzione si svolge nella cripta dedicata alla Dormizione della Vergine. Una sua rappresentazione troneggia al centro della sala in modo impressionante. Durante i lavori di ristrutturazione è qui che vengono celebrati gli uffici. Naturalmente tutto è cantato in tedesco, in modo molto piacevole con una buona acustica.
Poi pranziamo con i tre fratelli e con suor Gabriele del Monte degli Ulivi che ci ha fatto da guida nel pomeriggio. Ci separiamo subito dopo, poiché il padre abate deve prepararsi per partire per la Germania l’indomani mattina presto.
Sulla via del ritorno attraversiamo il centro storico e andiamo al Santo Sepolcro che per fortuna è aperto. Ci sono molte persone dentro. Venero la pietra dell’unzione, all’ingresso, che è facilmente accessibile. Preghiamo davanti al Sepolcro, è sempre un momento suggestivo che vorremmo non finisse mai. Ma ci sono molte persone e raccogliersi è un po’ difficile. Ci rechiamo poi alla cappella Santa Elena dove canta il gruppo Harpa Dei, le cui realizzazioni musicali mi interessano. Cantano i Vespri, mi unisco alla loro preghiera, estasiato. Le suore conoscono questo gruppo e potremo incontrarli domani mattina. Camminiamo ancora un po’ e torniamo in taxi, stremati.
Domenica 30 aprile
Dopo aver celebrato la messa del Buon Pastore, partiamo da Gerusalemme per partecipare nel pomeriggio all’incontro che abbiamo programmato con i superiori e le superiore dei monasteri. Questo incontro avrà luogo ad Abu Gosh. Dobbiamo andarci in autobus e per farlo attraversiamo prima la città vecchia di Gerusalemme e cogliamo l’occasione per fermarci in alcuni luoghi santi.
Innanzitutto facciamo una stazione nel luogo del tradimento di Giuda e dell’arresto. C’è qui una piccola basilica ai piedi del Monte degli Ulivi. Rimango colpito dall’intensità dell’emozione che mi coglie in questo luogo: provo una vertigine immensa. Voglio prostrarmi a terra e implorare il perdono di Dio per tutti i nostri (miei) tradimenti. Poi c’è il Giardino del Getsemani e la basilica in stile art déco a esso adiacente.
Ci fermiamo poi a Sant’Anna, presunto luogo della nascita della Vergine Maria. Questa chiesa e gli edifici attorno a essa sono gestiti dai Padri Bianchi. Siamo ricevuti da uno di loro la cui attenzione e semplicità sono particolarmente impressionanti.
Ci incamminiamo verso il Santo Sepolcro, e prima dagli Etiopi nella parte alta. Abbiamo appuntamento con due membri del gruppo Harpa Dei. La discussione è molto stimolante. Il gruppo viaggia per il mondo, con un intento missionario attraverso la musica. Devono venire presto in Francia nella regione della Normandia. Penso di farli venire a Ligugé. Hanno molto da dire per ispirare la preghiera monastica. L’ufficio cantato da loro assume l’aspetto di una rivelazione e anche chi non è cristiano rimane affascinato dalla sua bellezza.
Scendiamo poi nella parte bassa e passiamo tra i copti dove possiamo vedere tombe scavate nella pietra, simili a quella dove fu sepolto Cristo. Impressionante. All’uscita incontriamo padre Stéphane, un francescano francese che, “per caso”, fece un ritiro spirituale a Ligugé prima di unirsi ai francescani. Fa parte della comunità assegnata al Santo Sepolcro. Ci spiega con entusiasmo come questo luogo mostri la densità del Corpo di Cristo attraverso tutte le persone che vengono a visitarlo. Sono di tutti i tipi, non sempre sanno che cosa vengono a cercare o a fare, ma rappresentano il formicolare del corpo dell’umanità salvata da Cristo. Tanto il deserto rivela il Padre, la Galilea il Figlio, altrettanto qui è lo Spirito Santo a manifestarsi in una Pentecoste permanente!
Mangiamo una pizza in un ristorante della città nuova e poi saliamo sull’autobus che ci porterà ad Abu Gosh dove si incontreranno i superiori e le superiore dei monasteri della famiglia benedettina di Terra Santa. L’incontro si conclude con alcuni punti di attenzione:
– È bene che almeno i superiori e le superiore si incontrino di tanto in tanto, anche solo per scambiarsi le ultime notizie riguardanti le diverse comunità, l’approfondimento comune di alcune questioni legate alla vita della Chiesa, del mondo, alla situazione della Terra Santa e altri…
– Sostegno reciproco nei rispettivi progetti.
– Aiuto nella formazione a tutti i livelli.
– Proposta di organizzare soggiorni per professi e professe che abbiano già una certa esperienza. Potrebbero trascorrere due o tre mesi beneficiando di insegnamenti, delle visite e soprattutto dell’esperienza concreta dei luoghi, sul posto. I partecipanti verrebbero dall’Europa ma anche dall’Asia, dall’Africa francofona e dall’America Latina.
L’incontro è sembrato aprire una strada: era quello l’obiettivo.
Rientriamo a Gerusalemme in autobus e al monastero del Monte degli Ulivi con il tram e un altro autobus. Lunga spedizione.
Lunedì 1° maggio
Questa mattina dobbiamo incontrare il Patriarca latino di Gerusalemme. Attraversiamo la città in autobus e raggiungiamo il patriarcato. L’appuntamento era fissato per le 9, ma il segretario del Patriarca ci aveva chiesto via e-mail di essere lì alle 8.30 e ce ne eravamo dimenticati. Siamo quindi in ritardo e mons. Pizzaballa non può riceverci. Il cancelliere della diocesi si mette a nostra disposizione e possiamo parlare un po’ con lui. Ci dà un quadro dello sviluppo della vita religiosa a partire dal Medioevo. È soprattutto nel XIX secolo, dopo un lungo periodo di interruzione, che le fondazioni si sono moltiplicate, soprattutto quelle di vita apostolica. Le congregazioni così fondate furono sostenute dal reclutamento straniero. Solo due congregazioni autoctone si sono sviluppate e sono tuttora molto vive. I monasteri, dal canto loro, hanno conosciuto le loro ore di prosperità in concomitanza al successo della vita religiosa in Europa (soprattutto in Francia e Germania). Ma oggi che la vita religiosa è meno facile nel continente europeo, le comunità contemplative di Terra Santa sono più fragili e sono numerose le domande circa il futuro.
Finalmente il Patriarca può raggiungerci un momen-to. Gli spieghiamo lo scopo del nostro viaggio in Terra Santa. Si mostra attento ma riassume la sua posizione in due frasi: «La Terra Santa non è l’Europa, è un luogo di fragilità, abbiamo bisogno di comunità religiose forti e stabili. Tutto ciò che si cerca in termini di futuro della vita religiosa in Francia, in particolare nella collaborazione con i laici, qui non è di attualità, è troppo aleatorio». Il discorso praticamente non può andare oltre. Concludiamo la conversazione abbastanza in fretta.
Ci rechiamo poi a Tabgha nel luogo santo della moltiplicazione dei pani, sulla riva del Mare di Tiberiade. Là ci sono i monaci della Dormizione e le suore della Congregazione Benedettina del Re Eucaristico (BSEK, Filippine). Ci accolgono alla loro mensa per il pranzo. Trascorriamo un momento estremamente fraterno con queste cinque suore che vivono lì a servizio dei pellegrini, in collaborazione con i monaci. Il sito è particolarmente forte. Come molti, ci colpisce camminare in riva al lago. Si ha l’impressione che da un momento all’altro Cristo potrebbe presentarsi con i suoi discepoli, lì sul mare. Spesso, in tutti questi luoghi santi, ho avuto questa impressione: Cristo è qui, lo vedo, vorrei stare con lui, rimanere con lui, ascoltarlo, vivere con i suoi discepoli e non lasciarlo più.
Dopo pranzo, raggiungiamo il centro di pellegrinaggio e incontriamo padre Joseph che ci illustra la missione dei monaci lì, in comunione con la comunità della Dormizione a Gerusalemme, da cui dipendono. Il posto è davvero ben sistemato. La chiesa conserva antichi mosaici che illustrano l’episodio della moltiplicazione dei pani. Rimaniamo colpiti dalla fraternità del nostro interlocutore che ci fa fare il giro dell’intera casa. Si tratta di una realizzazione di circa dieci anni fa, in perfette condizioni, armoniosamente inserita nello spazio. Siamo consapevoli dell’importante ruolo che le due comunità svolgono in questo luogo molto visitato. Più andiamo avanti nel nostro soggiorno, più ci rendiamo conto della necessità di sostenere queste comunità monastiche in Terra Santa. Sarebbe grave non mostrare solidarietà.
Ritorniamo a Gerusalemme attraversando gli impressionanti paesaggi del deserto di Giuda, di Gerico e di molti altri luoghi.
Martedì 2 maggio
Abbiamo appuntamento al Carmelo del Monte degli Ulivi. È molto vicino al monastero delle benedettine dove alloggiamo. Celebriamo la messa, poi visitiamo il sito cosiddetto del Pater, attiguo al monastero. È il luogo dedicato all’insegnamento che Cristo diede agli apostoli sulla preghiera e dove trasmise loro il “Padre nostro”. Questa preghiera è scritta sui muri in 170 lingue! A questa “devozione” è dedicata la cappella del monastero. Il sito si estende su una vasta area, è di proprietà dello Stato francese che si occupa della sua manutenzione, compresa la cappella che richiederebbe interventi e una minima ristrutturazione degli interni. Ma le decisioni da parte dello Stato tardano ad arrivare e tutto resta solo in programma. Quanto al convento esso è indipendente; sono le suore a occuparsene e a gestirlo al meglio.
Incontriamo la comunità che è abbastanza numerosa, con alcune novizie. Presento l’AIM e le sue sfide. Il dibattito è molto aperto e le domande sono numerose. Ne esco toccato dalla bella testimonianza di questa comunità che si inserisce bene nel panorama locale.
Dopo pranzo andiamo all’aeroporto. Ultimo check-point: ci controllano. Uno di noi vuole scendere dall’auto, ma subito, avendo attirato l’attenzione, si trova le mitragliette puntate addosso. Risale subito in macchina e attende pazientemente che ci sia dato il via libera. Cosa che avviene pochi minuti dopo.
Siamo pronti a imbarcarci, con la testa e il cuore ancora pieni delle testimonianze di verità che abbiamo ricevuto qua e là nelle comunità visitate. Abbiamo cercato di incoraggiare i legami reciproci tra le comunità, abbiamo ascoltato tutti e tutte il più possibile. Era questo lo scopo del nostro viaggio: missione compiuta!
Viaggio in India
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Notizia
Viaggio in India
11-27 febbraio 2023
Suor Christine Conrath, OSB,
segretario dell'AIM
In occasione dell'incontro annuale dell'ISBF (Federazione Benedettina Indo Sri Lanka), Suor Christine Conrath, segretaria dell'AIM, e Madre Anna Brennan, badessa di Stanbrook e membro dell'Equipe Internazionale, hanno visitato l'India. Ecco alcuni echi del loro soggiorno.
Sabato 11-Domenica 12 febbraio
Dopo una partenza tranquilla all'aeroporto Charles-de-Gaulle di Roissy e un volo diretto per Delhi di quasi nove ore, siamo arrivati domenica 12 febbraio alle 10:30 all'aeroporto di Delhi. Abbiamo cinque ore di transito durante le quali dobbiamo espletare le formalità per il visto e ritirare i nostri bagagli. Ci imbarchiamo poi per Cochin dove arriviamo verso le 19,10. Ci aspetta l'abate Clément Ettaniyil, di Kappadu, e partiamo direttamente per Mariamala, Kottayam, dove si terrà l'incontro dell'ISBF: due ore sul piccolo Kerala. strade. Arriviamo alle 21 per cenare e dormire. Padre Bino Tom Cheriyil, superiore della comunità, ci fornisce il programma per il resto del soggiorno. Molti vengono a salutarci, tra cui padre James Mylackal, presidente dell'ISBF.
Lunedì 13 febbraio
Alle 6,30 celebriamo le Lodi e poi la Messa. Tutto si recita o si legge in successione, non c'è tempo per respirare, si resta seduti per le dossologie dei salmi – così sarà per tutti i servizi. Zanzare e ventagli voraci accompagnano la nostra preghiera. La messa è presieduta da padre Notker Wolf, ex abate-primate, accompagnato dalla signora Gerlinde. È un distintivo di benefattore per i monasteri dell'India. Poi facciamo colazione al tavolo principale.
Alle 9,30 apertura della riunione ISBF: riti di inaugurazione, accensione della lampada ad olio, discorsi, distribuzione di fiori, doni e foulard per tutti. C'è sempre un membro dell'ISBF incaricato di presentare al microfono l'illustre ospite e un altro che gli consegna i regali. Sono presenti circa 60 persone: superiori maggiori, oltre ad alcuni monaci, monache e suore.
La prima conferenza è tenuta da un vescovo vicino, della famiglia Vallombrosienne, sulla pazienza. Interviene poi padre Notker Wolf: dice come negli attuali travagli della Chiesa, noi, membri di questa Chiesa, abbiamo perso ogni credibilità. Non avendo più potere, siamo preoccupati per il futuro. C’è un cambiamento di paradigma, per la prima volta dal Medioevo. In questo contesto, quale percorso di inculturazione in India? Questo lavoro, infatti, spetta ai fratelli e alle sorelle responsabili delle comunità dell'India. San Benedetto è molto aperto. Vedi ad esempio il cibo: diamo questo e quello affinché ognuno possa trovare ciò di cui ha bisogno. E se non c'è niente, benediciamo Dio. Il nostro strumento più prezioso è la lectio divina. Secondo la sua esperienza durante i suoi viaggi intorno al mondo, padre Notker constata che le comunità sono più o meno contemplative e più o meno apostoliche; ma qualcosa ci accomuna: sentiamo che è “benedettino”. L'amore per la preghiera comune è criterio di autenticità. Una comunità è come una squadra di calcio: contiamo gli uni sugli altri e ci amiamo. È una scuola di pazienza. Lo Spirito Santo è colui che guida il nostro futuro. Con fervente amore per la nostra comunità e il giusto zelo, non abbiamo bisogno di riorganizzare nulla. Non è questo ciò di cui abbiamo bisogno innanzitutto. Ciò che serve innanzitutto è la fede, l'amore e l'ascolto. La nostra speranza è radicata nella vita autentica. In questo senso vediamo tutto ciò che Gesù ha sopportato, fino al rinnegamento di Pietro. Adesso tocca a noi seguirlo su questa strada.
La signora Gerlinde fornisce poi alcune informazioni sulla sua Fondazione per aiutare le ragazze del Nord-Est, prevenire la tratta di esseri umani e combattere la violenza domestica. Si batte anche per aiutare i bambini abbandonati a se stessi. È venuta in India per la prima volta nel 1997. La pandemia di Covid19 ha davvero cambiato il volto del mondo. Insiste affinché gli occhi di tutti restino aperti sui bambini di strada.
Assistiamo poi allo spettacolo offerto dalla scuola St Kuriakose: danze abbaglianti, canti, riti di benvenuto...
Nel pomeriggio presentazione dell'AIM. Anche se le domande sono poche, i partecipanti mostrano grande interesse: come sono influenzato da ciò che rappresentiamo insieme? In che modo il fatto di preoccuparmi per gli altri mantiene la mia mente vigile? Perché spesso confino i miei fratelli e sorelle nella loro fragilità? Isacco della Stella ci dice chiaramente che mio fratello e mia sorella non sono avversari; sono un aiuto, un'opportunità per me di lavorare sulla mia conversione. La cosa più importante non è ciò che facciamo nella Famiglia Benedettina, ma come ci conosciamo, come ci avviciniamo gli uni agli altri. L'AIM cerca di rafforzare il legame tra tutte le comunità, con pazienza, come ha ricordato il vescovo in apertura, e con questo strumento perfezionato della lectio divina , come ha ricordato padre Notker. Nell'Europa occidentale le comunità sono spesso antiche, le comunità del Sud sono il futuro della nostra famiglia religiosa. Ma più di ogni altra cosa, il nostro futuro comune è Gesù Cristo.
Padre Vincent Korandiarkunnel, priore di Makkiyad, tiene una conferenza sulla sinodalità, aprendosi con una bella condivisione, con la testimonianza di padre Peter Dowe, dell'Abbazia di Douai, sulla stessa preparazione sinodale all'elezione del loro nuovo abate: era infatti la sinodalità in azione.
Martedì 14 febbraio
La messa è presieduta da padre Clément Ettaniyil (Kappadu) in rito siro-malabarese.
Madre Anna Brennan apre la giornata degli interventi con una presentazione sul Cor orans. Condivide la sua esperienza nel proprio monastero e nella Congregazione inglese.
Poi padre abate Clément, di Kappadu, parla delle misure di segregazione nel contesto del Covid e in relazione alle misure raccomandate dalla regola di San Benedetto in materia di scomunica.
Poi arriva lo svolgimento dell'Assemblea Generale dell'ISBF.
Nel pomeriggio è stata presentata una relazione sull'attività del DIM-MID regionale da parte del superiore di Kumily, padre John Kaipallimyalil. Il 7 dicembre 2023 celebreremo il cinquantesimo anniversario della morte di Henri Le Saux. Madre Vandana presenta il rapporto del CIB. Poi iniziano le relazioni sulle diverse comunità.
Viene organizzata una visita ai monasteri delle piccole suore vallombrosane di Saint-Jean-Gualbert.
Mercoledì 15 febbraio
Padre Vincent Kundukulam, professore al Pontificio Seminario San Giuseppe ad Aluva, illustra il lavoro del DIM in India. Il dialogo consiste, tra persone religiose che realmente hanno competenza, nel condividere il modo in cui sperimentano Dio. Per iniziare a dialogare non è necessario avere la stessa rappresentazione di Dio. Il dialogo non è una strategia per conquistare gli altri, ma una fonte per tornare alle origini della nostra fede. Applica questa pedagogia alla questione dell'incarnazione che rappresenta una realtà molto diversa per cristiani, indù o musulmani. Come, partendo da visioni così diverse, possiamo risalire alla fonte della fede in Dio e poterla condividere? L'insegnamento di Padre Vincent mi è sembrato ottimo.
Nel pomeriggio, una gita in barca porta i membri ISBF alla Laguna di Kumarakam, un'enorme diga marina che apre o chiude le acque del Kerala. La profondità è compresa tra 3 e 5 metri. Paesaggi di notevole bellezza e di incantevole relax fraterno.
Giovedì 16 febbraio
Le elezioni dell’Ufficio di presidenza riconfermano il fratello James Mylackal come presidente; il tesoriere è padre Michael Kannala (Vallombrosien, Bangalore) e il segretario padre Pinto Irudayaraj (Shantivanam); Il Padre Abate Clément assicurerà i rapporti con l'AIM.
Il prossimo incontro ISBF si terrà dal 4 al 10 febbraio 2024 a Shantivanam.
Nel pomeriggio partenza per il priorato di Santa Scolastica, della congregazione Grazia e Compassione. Le suore gestiscono una casa per anziani e un'unità di cure palliative. Hanno anche una casa ospitante per studenti e una fattoria.
Poi visitiamo le suore di Sainte-Lioba. Formano una comunità di tre membri che ospitano studenti di medicina.
Poi arriviamo a Kappadu per la cena. Scoperta del luogo e, in serata, incontro con le ragazze adolescenti che stanno frequentando un corso di tedesco online. Il loro insegnante è venuto dalla Germania per incoraggiarli. Ci sarà un esame, poi un soggiorno in Germania. Il Monastero di Kappadu è molto attento agli studenti e fa molto per loro in diversi modi.
Venerdì 17 febbraio
Alla messa in rito siro-malabarese segue la celebrazione nel cimitero prima della Quaresima. Poi visitiamo il monastero. L'azienda agricola comprende una stalla di 63 mucche, una ventina di maiali, 2.000 galline, 200 conigli. Cuciniamo con biogas generato dallo sterco di vacca. C'è ancora un allevamento ittico e una piantagione di gomma. Negli ultimi tempi il prezzo della gomma è sceso di tre unità. A Kappadu ci sono 300 dipendenti in totale; ma i monaci sono tutti al lavoro, tutta la fattoria è gestita dagli aspiranti.
Alle 10 partenza in auto per Kurisumala. Arriviamo giusto in tempo per la funzione di mezzogiorno, con un gruppo di seminaristi in ritiro e il loro formatore. Per pranzo ci sediamo per terra nel chiostro; nella biblioteca attigua al chiostro erano stati preparati per noi degli sgabelli. Pasto sobrio in silenzio. I fratelli servono agli ospiti riso con salse, dieta vegetariana. Dopo il pasto salutiamo la comunità. Visitiamo la cella di Padre Francis Acharya e l'intero monastero. Il monastero di Kurisumala, OCSO, è ora collegato all'Abbazia di Tarrawarra, in Australia.
Sabato 18 febbraio
In questo giorno in cui celebriamo il 90° compleanno di Padre Anselme Maniakupara, uno dei fondatori di Kappadu, è presente il Padre Abate Emerito John Kurichianil. Siamo felici di rivederci. Madre Nirmala Narikunnel, badessa di Shantinilayam, si unisce a noi per alcuni giorni di ritiro. Gli invitati sono circa 300. Nel pomeriggio partiremo per Madurai via Jeva Jyothi. Incontriamo il vescovo emerito all'origine del monastero, con la fondatrice Madre Giglio Teresa, ora defunta. Vediamo la fragilità di questa comunità di tre sorelle con un cappellano carmelitano.
Arriviamo al monastero di Kumily (Priorato di San Michele, Angel Valley, Viswanathrapuram), della congregazione di San Ottilien.
Domenica 19 febbraio
Visitiamo una delle attività del monastero: l'alloggio dei ragazzi: 60 bambini ricevono la pensione completa. Se le lezioni si tengono altrove, i frati assicurano l'educazione di questi giovani.
Al mattino, tradizionale giro in elefante fino alla “Congiunzione degli elefanti”, proprio accanto al monastero, dopo aver fatto il bagno a questi colossi dal peso medio di 2,5 tonnellate. Sono femmine, considerate docili, senza difese, sono tre in tutto. Gli elefanti sono addomesticati e molto obbedienti agli ordini della guida: “alzati, sdraiati, cammina, fermati, ciao”. È stata una breve ora di cammino!
Visitiamo il monastero alla fine della mattinata e il Centro Spirituale. Nel giardino arrivano di notte gli animali selvatici, il monastero è giù per un pendio, la giungla è proprio sopra. Bufali o tigri (?) vengono a passare per il giardino, in ogni caso c'è una voliera per parrocchetti e un orto. I fratelli raccolgono circa il 50% dei loro prodotti agricoli, mentre il resto viene mangiato dagli animali selvatici. Abbiamo notato che tutti i fiori sui grappoli di banane sono scomparsi, mangiati dalle scimmie? Pranzo a Kumily prima di partire per Madurai.
Visita Madurai in serata, incluso un sontuoso tempio di 5.000 anni. È molto difficile trasmettere l'emozione in questi luoghi, in mezzo a questa folla indiana. Poi i fratelli ci portano all'aeroporto di Madurai per volare a Bangalore e raggiungere l'Abbazia di Shanti Nilayam.
Lunedì 20 febbraio
Visita a Shanti Nilayam, al giardino, alla vigna. Un operaio dice che bisogna recintare le viti prima che l'uva maturi, altrimenti i vicini continuano ad aiutare le suore... La recinzione è inesistente. La sala delle candele è dotata di attrezzature obsolete. Con la cera riciclata, le donne in difficoltà (vedove, donne maltrattate che hanno abbandonato le loro case, ecc.) realizzano candele che vengono vendute o donate alla diocesi.
Il settore alberghiero è diventato insalubre in seguito alle inondazioni degli ultimi anni. Bisognerebbe radere al suolo e costruirne uno nuovo, contro il muro di cinta, sulla strada; altrimenti il territorio rischia di essere occupato, la città si accalca lungo le mura. Al momento della fondazione, le suore si stabilirono in aperta campagna, ma a loro venne la città, in seguito all'esplosione demografica del paese. Durante l'incontro serale interagiamo con la comunità. Le suore sono tuttora legate alla comunità benedettina di Ryde, in Inghilterra, che contribuì alla fondazione di Shanti Nilayam. Il monastero di Shanti Nilayam rientra quindi nella tradizione del monachesimo della congregazione di Solesmes, adattato però alla cultura indiana.
Martedì 21 febbraio, martedì grasso
Questa mattina visitiamo il laboratorio del pane dell'altare.
Le sorelle vendettero tutte le loro mucche tranne due. A causa dell'alluvione la stalla rimase sott'acqua per otto giorni e le mucche si ammalarono. Le suore avevano già dovuto rinunciare ai pollai (quattro edifici con 2.000 galline) a causa della concorrenza.
L'allagamento è causato dallo straripamento del canale di evacuazione delle acque reflue, ostruito da tutta la spazzatura in arrivo dalle nuove abitazioni del quartiere. La rete di drenaggio delle acque reflue è fuori servizio. Il governo accoglie la denuncia delle suore e dice che agirà, ma non fa nulla.
Shanti Nilayam accoglie le giovani suore di una fondazione in Birmania (Myanmar) per la loro formazione. Nella messa di oggi, suor Rosa Ciin, originaria della Birmania, ha rinnovato i suoi voti temporanei per un anno. Le suore birmane emetteranno insieme la professione solenne quest'estate, poi torneranno in Birmania. La comunità accoglie numerosi aspiranti dal Nord-Est. Hanno un'età media di 18 anni e non parlano ancora bene l'inglese.
Visitiamo anche la comunità di Vallombrosiens, a Bangalore.
Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio
In questo giorno Madre Nirmala mi chiede di fare una breve presentazione alla comunità sul desiderio nella RB, desiderio di Pasqua, desiderio di conversione e discrezione materna delle virtù. Alla presentazione segue la distribuzione dei libri quaresimali. Ogni sorella ha scelto un libro dalla biblioteca; la badessa legge i titoli delle opere scelte, prima di consegnarle alle suore.
Si unisce a noi Suor Asha Thayyil (questo nome significa “Speranza” in hindi), nuova superiora generale delle Suore di Santa Lioba, che viaggerà con me da Bangalore a Bhopal. Le sorelle di Sainte-Lioba fanno spesso ritiri a Shanti Nilayam durante la loro formazione. Alla sera viviamo un momento di relax comunitario con alcune piccole attività offerte dal noviziato.
Giovedì 23 febbraio
Partiamo alle 5 del mattino per Bhopal e arriviamo a metà mattinata al monastero delle suore di Santa Lioba. Visitiamo l'ospedale ( Dev Mata Hospital ), con Suor Betty, una dottoressa che ha completato la sua formazione in Germania. Un'ala dell'ospedale è chiamata “Vaticano” (!), perché lì vengono curati molti sacerdoti, religiosi e religiose. I cristiani sono meno una minoranza in questa regione.
Dopo pranzo ci rechiamo alla comunità di Misrod che gestisce un centro di accoglienza per donne di strada. Spesso disabili, rifiutati dalla famiglia e da tutti, qui sono 37, ospitati sul posto, anche se la casa può ospitare solo 30 persone. E la polizia continua a portare le donne nelle case delle suore. I residenti hanno preparato alcuni festeggiamenti in nostro onore. Quello che segue è un affascinante scambio con le sorelle di questa comunità. Non sono rare scene di violenza all'inizio del soggiorno di queste persone così ferite dalla vita.
Assaggiamo poi i dintorni del sito: andiamo al museo tribale dell'India, una creazione molto bella che attira molte persone. Poi faremo una gita in barca verso questa città chiamata “Bhopal City of Lakes”. Le sorelle stanno progettando di creare una missione al lago, che mi fa sognare! Rientro in comunità, poi, dopo cena, piccolo spettacolo offerto dalle candidate e dalle giovani suore, con danze tradizionali legate al tempo del raccolto.
Venerdì 24 febbraio
Si è unito a noi padre Antony Dhande, superiore di Shivpuri. Facciamo colazione con lui e l'équipe dell'ospedale adiacente alla comunità. Poi partiremo in macchina per Sanchi, centro buddista dichiarato patrimonio dell'UNESCO. Sulla strada attraversiamo il Tropico del Cancro.
Dopo pranzo prenderemo il treno per Shivpuri. È un'esperienza! La stazione è gremita di gente. Abbiamo un posto nella classe più confortevole dove le auto sono dotate di aria condizionata. È senza dubbio più comodo che volare! All'arrivo ci aspetta il fratello Shivprakash che ci porta al priorato di Jeevan Jiothi ( Vita e luce , Shivpuri). Alle 21:30 siamo accolti da una cerimonia molto curata: musiche e canti eseguiti dagli aspiranti.
Sabato 25 febbraio
Al mattino celebriamo la messa nel convento delle tre sorelle di Notre-Dame du Jardin, direttamente nel cortile della scuola. La casa fatiscente sta sprofondando nel terreno. La cappella è sfregiata, i muri crepati. Secondo la richiesta votata in seno alla commissione AIM verrà costruito un nuovo edificio.
Sto vivendo una mattinata da sogno con i bambini della scuola, e prima di tutto uno spettacolo! Si alza il sipario con una preghiera, poi danza con la bandiera indiana, dimostrazione di yoga e infine l'inno nazionale. In questa data i bambini della scuola primaria sostengono gli esami, mentre i bambini più grandi hanno terminato l'anno scolastico.
Andiamo a Chattry dove c'è un tempio buddista realizzato in marmo bianco e intarsiato con pietre preziose. Un gioiello, bello come il Taj Mahal che non avremo il tempo di visitare. Facciamo un tour dell'antica città di Shivpuri e scopriamo il tempio Skit.
Dopo pranzo abbiamo contatti con le due comunità di suore che lavorano con i fratelli. Una comunità delle Orsoline ha una piccola scuola. La loro economia è molto precaria; il governo ha chiuso il dispensario. Alle 18 ritorniamo alla scuola per inaugurare e benedire gli alloggi per due famiglie, poi ritorno al monastero per i vespri, seguiti dal rosario, quindi dall'adorazione del Santissimo Sacramento.
Domenica 26 febbraio
Dopo la funzione mattutina e la colazione, ci rechiamo velocemente in parrocchia per la messa delle 8,30. I fedeli arrivano alle 8 e recitano il rosario con le giovani candidate, che hanno tra i 17 ei 23 anni: otto ragazze molto determinate. La messa viene celebrata in hindi secondo il rito romano. Successivamente veniamo accolti dalla parrocchia. Mi è chiesto di dire qualche parola all'assemblea. Il giovane che traduce è un delegato della GMG dell'India; si sta preparando per il viaggio a Lisbona. Al termine della messa i saluti vanno bene. "Cosa pensi dell'India?" » mi viene chiesto continuamente.
Dobbiamo partire per Delhi, in treno. Siamo accolti alla Conferenza dei Vescovi Cattolici dell'India, guidata da Padre Jervis C D'Souza, amico di Padre Anthony. Cena intorno alle 22, cosa normale in India. Apprendiamo che lì si trova padre Felix Machado, vescovo emerito di Bombay, molto attivo nel dialogo interreligioso, che ha trascorso sei anni in Francia.
Lunedì 27 febbraio
Messa con mons. Felix Machado, poi colazione e discussioni molto animate. Chiede notizie al padre Pierre de Béthune (Clerlande), al padre Benoît Billot. Che ne è stato del DIM francofono dopo la morte di Suor Marie-Bruno, di Liegi? Ma dobbiamo andare all'aeroporto!
All'aeroporto incontro un corpo di soldati delle Nazioni Unite, in partenza per una missione di sei mesi in Congo per cercare di riportare un po' di pace...
Viaggio di ritorno sereno, con tanti ricordi, un gran numero di foto e video, da condividere e arricchire la nostra mediateca e l'archivio AIM! La mia gratitudine è grande per tutte le comunità monastiche incontrate durante questo meraviglioso viaggio.