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La vita monastica oggi

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« Tutta la vita come liturgia »

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I Capitoli generali cistercensi
(OCSO e OCist, sett. e ott. 2022)

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Vita monastica e sinodalità

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La gestione della Casa comune

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Fratelli tutti
La fraternità nella vita monastica

I Capitoli generali cistercensi
(OCSO e OCist, sett. e ott. 2022)

Estratto del Bollettino dell’AIM • 2023 - No 124

Riepilogo

Editoriale

Dom J.-P. Longeat, osb, Presidente dell’AIM


Il cenobitismo, o l’equilibrio della vita comunitaria

Dom J.-P. Longeat, osb, Presidente dell’AIM


Lectio divina

Luc 17, 11-16

Dom Mauro-Giuseppe Lepori, ocist

Prospettive

• Discorso di apertura del Capitolo generale OCSO

Dom Bernardus Peeters

• Suor Ainzane Juanicotena, ocso

Monastero di Quilvo (Cile)

• Discorso di apertura del Capitolo generale dell’Ordine cistercense

Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist


Testimonianze

La grazia di fare una fondazione e l’esperienza del ritorno

Dom Robert Igo, osb


Grandi Figure della Vita monastica

Suor Josephine Mary Miller

Suor Marie-Paule Bart, ocbe


Notizie

Il DIM

Padre William Skudlareck, osb

Sommaire

Editoriale

La famiglia benedettina è composta da tre entità che si sviluppano in molteplici sfaccettature: la Confederazione benedettina con un’ottantina di congregazioni maschili e femminili, l’Ordine cistercense (OCist) anch’esso formato da varie congregazioni e l’Ordine trappista (OCSO). Come in tutte le famiglie religiose, le tre realtà vivono i loro momenti di riunione generale: Congresso degli abati e Simposio della CIB per la Confederazione benedettina e i rispettivi Capitoli generali per gli altri due Ordini. Questi sono momenti importanti in cui tutti i superiori e superiore, unitamente a eventuali delegati e delegate di regioni o di comunità, si ritrovano per un tempo di intensa condivisione.

Dopo il rimando dovuto alle restrizioni per il COVID, i Capitoli generali dei due Ordini cistercensi si sono svolti nello scorso autunno. Questo numero del Bollettino offre qualche eco delle loro riflessioni, progetti e prospettive.

Padre Roberto Igo ha condiviso la sua esperienza di diventare, dopo molti anni vissuti in Zimbabwe, abate del monastero di Ampleforth, casa fondatrice certo, ma che vive in un contesto molto diverso da quello dell’Africa. Il padre abate Robert trae da questo cambiamento di situazione molti insegnamenti che si rivelano utili per ciascuno di noi.

La rubrica «Grandi testimoni della vita monastica» mette in evidenza Madre Josephine Mary Miller, già priora generale delle Bernardine di Esquermes, che ha partecipato per lungo tempo al Consiglio e al Comitato esecutivo dell’AIM, e può essere riconosciuta come una grande figura che ha messo tutta la sua vita a servizio della testimonianza evangelica e monastica.

Ci auguriamo che tutto ciò ci aiuti a proseguire il cammino.

Dom Jean-Pierre Longeat, osb

Presidente dell’AIM

Articoli

Il cenobitismo, o l’equilibrio della vita comunitaria

1

Dom Jean-Pierre Longeat, osb

Presidente dell’AIM


Il cenobitismo, o l’equilibrio della vita comunitaria



Una delle principali caratteristiche della nostra vita è il fatto di essere cenobitica. Viviamo in comunità e, insieme, siamo testimoni della realtà del Corpo di Cristo. In tutto questo c’è qualcosa di profondamente misterioso poiché, anche se l’uomo è un animale sociale, nondimeno bisogna riconoscere che la vita comune non è poi così facile. San Benedetto dà molta importanza a questo aspetto fondamentale.

«È noto che ci sono quattro tipi di monaci. Il primo è quello dei cenobiti, cioè di coloro che vivono in monastero e prestano servizio sotto una regola e un abate. […] Formati dopo una lunga prova in monastero hanno imparato a lottare contro il diavolo, resi ormai esperti dall’aiuto di molti. Ben addestrati per il combattimento nelle lotte sostenute insieme ai fratelli. […] Con il loro comportamento non si rivelano assoggettati alla mondanità, sono al riparo negli ovili del Signore e non chiusi nei propri recinti cosicché la loro legge non è certo la voluttà dei loro desideri» (RB 1).

Costoro passano la loro vita in un legame stabile con la loro comunità e, salvo motivi particolari, vivono costantemente nel loro monastero. A partire da queste note possiamo abbozzare un primo schizzo della vita cenobitica secondo san Benedetto a partire dal primo capitolo della Regola.

All’inizio della Regola, la preoccupazione principale di Bene-detto riguarda la conversione personale di ciascuno. La comunità sarebbe dunque uno dei mezzi a servizio di questa conversione per mettere alla prova il cammino della carità. Ma lungo tutta la Regola e, soprattutto, alla fine si percepisce un’apertura sempre più grande alla dimensione propriamente comunitaria come un bene in sé. Se dunque questo principio comunitario è così importante, allora dobbiamo cercare di dare qualche orientamento per avanzare in questo cammino e giungere così a vivere il difficile equilibrio, in base al quale ciascuno possa stare in comunità trovandovi il proprio posto secondo la sua vera identità personale.


Le funzioni e le persone

In una comunità, l’abate ha un ruolo quasi impossibile da sostenere. Egli è come il vicario di Cristo. Questo significa che l’abate deve continuamente indicare il vero abate della comunità che è Cristo, il quale viene continuamente offerto ai fratelli come Parola di Dio attraverso il suo insegnamento e il suo esempio. Non è poi così diverso per tutti coloro che, in comunità, esercitano una responsabilità. Una delle difficoltà della nostra vita comunitaria è la confusione tra la funzione esercitata dall’uno o dall’altro e ciò che ciascuno è come persona. Tanto che alcuni, cui non è chiesto di avere responsabilità di rilievo in comunità, possono maturare un complesso di inferiorità fino a provare una reale invidia, consapevole o inconsapevole. È come se costoro non possano esistere agli occhi degli altri, soccombendo alla tentazione di credere di essere percepiti solo per il fatto di fare qualcosa di importante. Ma ci può essere anche la tentazione contraria: voler vivere per se stessi senza far coincidere veramente il proprio vissuto con la funzione che si ha il dovere di esercitare. Vale a dire che si persegue prima di tutto la propria realizzazione personale pensando di esercitare la propria responsabilità in comunità come un di più. È questo il modo migliore per attribuire a se stessi un potere eccessivamente soggettivo talora sotto la forma della seduzione. È una grande illusione fondare su questo registro la relazione dell’abate con la comunità che è chiamato a guidare. Mi sembra importante che una delle qualità principali dei responsabili di comunità sia l’onestà nell’assumere il compito affidato senza rinnegare la propria realtà personale e sapendola mettere a servizio della missione da compiere. Di fatto, l’attitudine dell’abate deve rimandare costantemente a Cristo. Proprio a motivo di questa onestà di fondo, potrà continuare a vivere secondo la natura che il Signore gli ha donato senza troppo preoccuparsi dei commenti di ogni tipo che sono inevitabilmente fatti attorno al suo comportamento e al suo modo di agire. In tal modo, sarà possibile ovviare al rischio di uno squilibrio tra le aspirazioni personali di chi esercita una responsabilità e le legittime aspirazioni degli altri membri della comunità. Questo perché tutti sono chiamati a mettersi veramente a servizio gli uni degli altri senza doversi nascondere dietro un personaggio funzionale e senza imporre il peso della propria debordante soggettività.

A questo punto bisogna definire in che cosa consista l’onestà. San Benedetto ne delinea qualche aspetto: accompagnare i fratelli con un duplice insegnamento, ossia più con i fatti che con le parole. Altrove, san Benedetto dice che l’abate deve essere il primo ad applicare la Regola in tutta la sua totalità. Deve essere casto, sobrio, misericordioso e terrà sempre presente la sua personale fragilità tanto da ricordarsi di non spezzare una canna incrinata. Non dev’essere agitato o inquieto, non eccessivo e ostinato, non geloso e troppo sospettoso. Non usi preferenze di persone in monastero. Non ami l’uno più dell’altro. Non anteponga l’uomo libero a chi è venuto in monastero da una condizione servile o da altre categorie sociali e culturali: poiché servi e liberi, in Cristo siamo tutti una cosa sola e, avendo un unico Signore, prestiamo tutti un eguale servizio… Uguale per tutti sia dunque la sua carità, e segua per tutti la stessa linea di condotta. Rifletta bene su quale compito difficile e arduo si assume: guidare delle anime e porsi a servizio dei diversi temperamenti. Anche nell’impartire degli ordini, dev’essere previdente e riflessivo; e quando dà disposizioni, sia su questioni di ordine spirituale che profano, sempre deve usare discrezione e misura, pensando alla discrezione del santo Giacobbe che diceva: «Se faccio stancare troppo le mie greggi a camminare, mi moriranno tutte in un sol giorno» (cf. RB 2 e 64).

Una vita segnata dall’onestà è una sfida difficile, ma è la chiave di un’esistenza libera secondo la volontà di Dio. Se come abate qualcuno ha delle difficoltà a vivere questa libertà nella propria esistenza, molto probabilmente è perché il radicamento personale non è poi così “onesto”. Questo termine di onestà potrà sembrare poco adeguato, ma risale allo stesso san Benedetto che così scrive nel capitolo 73:

«Abbiamo steso questa Regola perché seguendola nei monasteri diamo almeno prova di una certa onestà di comportamento o di un principio di vita monastica. […] Tu, dunque, che ti affretti verso la patria del cielo, metti in pratica, con l’aiuto di Cristo, questa minima Regola per principianti che abbiamo delineato; e allora soltanto potrai arrivare con la protezione di Dio a quelle vette superiori di dottrina e di virtù che abbiamo sopra menzionato. Amen».


Il dialogo

San Benedetto vuole che ciascuno trovi il suo posto nella comunità e possa dare il suo parere sulle varie questioni. È il senso del capitolo terzo della Regola in cui si parla dei fratelli chiamati a consiglio: «Abbiamo detto di convocare tutti a consiglio, perché spesso il Signore rivela al più giovane la decisione migliore». Ma tutto questo deve avvenire con molta saggezza: «I fratelli però diano il loro parere in tutta umiltà e sottomissione».

Di fatto questa dimensione non è sempre facile da mettere in atto. Un po’ perché le questioni relative alla vita di un monastero sono così tante da non poter essere sempre oggetto di discussione. Ed è proprio per questo che esiste il Consiglio. E poi, perché, purtroppo, è raro trovare delle comunità in cui tutti sappiano ascoltarsi vicendevolmente. Si pensa di sapere già cosa pensare del pensiero dell’uno o dell’altro cosicché alcuni interventi non vengono presi in conto a sufficienza.

Nondimeno, in monastero ciascuno ha un posto che è unico. Ciascuno ha un’intelligenza unica, nutrita da un’esperienza di vita particolare. C’è chi prende la parola in modo naturale e senza nessun complesso come gli viene in mente e senza troppi problemi; qualcuno è capace di dare un contributo di riflessione sui principi di fondo di una cosa da fare, mentre un altro si sofferma sulla praticabilità o meno della proposta fatta. Questo ascolto reciproco è fondamentale perché si possa essere veramente una comunità e non avviene soltanto nelle riunioni del Capitolo, ma deve essere lo stile di ogni momento della nostra vita. Si fa spesso notare come alcuni prendono le distanze dalla vita comunitaria proprio perché non si dà sufficiente peso al loro parere. Ogni persona ha voglia di esprimersi ed è uno degli aspetti originali della natura umana. Se non può esprimersi nel gruppo in cui vive è mortificata e, talora, cerca altrove uno spazio propizio. Quelli che pensano di avere qualcosa di più interessante degli altri da dire devono avere la pazienza di ascoltare comunque ciò che ritengono meno pertinente, ma che pure ha la sua utilità. In tal modo ciascuno potrà esistere in questo dialogo che è un elemento essenziale dell’amore. Certo, tutto deve essere fatto con discrezione e discernimento. Non si può certo dire qualunque cosa in qualunque modo e da parte di chicchessia con il pretesto di avere bisogno di parlare.


Obbedienza

Conseguenza naturale del reciproco ascolto è l’obbedienza da intendersi come qualità di attenzione gli uni nei confronti degli altri.

«Non solo nei confronti dell’abate tutti devono praticare il bene dell’obbedienza, ma i fratelli devono anche obbedirsi scambievolmente, nella certezza che per questa strada dell’obbedienza andranno a Dio».

Cosa ci può mai essere di più bello in una comunità di fratelli o di sorelle se non il fatto che, indipendentemente dall’età, dalla funzione, dal ceto e dalla formazione da cui provengono, si obbediscano a vicenda? Invece di squadrarsi gli uni gli altri, cedendo alla tentazione di esercitare una forma di potere che porta, inevitabilmente, a incomprensioni, conflitti e persino a profonde ingiustizie, è, invece, meraviglioso cercare di capirsi in tutti i sensi, di mettersi a servizio, per ritrovarsi in una vera carità reciproca.

È triste che spesso il nostro sguardo sull’altro sia segnato dall’invidia. Abbiamo tutti dei doni diversi, perché mai voler prendere quelli degli altri piuttosto che far fruttificare i nostri che sono sempre infinitamente preziosi per tutti? Uno sa accogliere in modo magnifico, un altro gestire e organizzare, un altro ancora cantare e insegnare oppure accompagnare gli altri in percorsi difficili, e poi c’è chi pratica un fecondo silenzio o sopporta santamente la malattia, sa dire una buona parola, guidare un trattore, riparare un’auto e guidarla alla perfezione, certuni sanno scrivere dei libri, altri si occupano meravigliosamente della cucina o di tenere perfettamente in ordine e assolutamente pulito uno spazio… e quante altre cose ancora? Nessuno di noi manca di doni e di qualità, ma questi non sono veramente a servizio dell’insieme della comunità se non quando si accetta di condividerli e farli crescere e, soprattutto, quando la comunità accetta di accoglierli e di obbedirvi.

Ciò significa che nessuna presa di posizione negativa è adeguata nella vita comune. Troppo spesso si colgono giudizi negativi sugli altri e talora perfino dei rifiuti: più l’altro si sente non accolto e più sprofonda nell’impossibilità. L’amore non è altro che la speranza immensa della fiducia, nonostante tutte le tentazioni di rifiuto che si possono provare nel proprio cuore.

Così, si può obbedire positivamente, ci si può accogliere, amarsi, riconoscersi, perdonarsi, fare qualcosa di bello, edificarsi reciprocamente e trovare questo buon equilibrio in una comunità aperta, dove l’impossibile diventa possibile per dare una testimonianza inaudita e irradiare così la Buona Novella: Cristo ha distrutto il muro dell’odio.

Ecco la vera gioia nella conversione del cuore.

"Uno di loro, vedendo che era guarito,..." (Lc 17, 11-16)

2

Articolo non tradotto. Visualizzazione in francese, inglese o altra lingua.

Discorso di apertura del Capitolo generale OCSO

3

Prospettive

Dom Bernardus Peeters

Abate generale dell’Ordine cistercense

della Stretta Osservanza (OCSO)

 

Discorso di apertura del Capitolo generale OCSO

Assisi, 2 settembre 2022


 

In seguito alla prima parte del Capitolo generale OCSO, il nuovo Abate generale aveva sollecitato gli abati e le abbadesse dell’Ordine a esprimere i loro sogni di vita monastica come chiede il Papa. In risposta, sono pervenuti alla Casa generalizia 138 sogni di superiori e di comunità su 157 monasteri dell’Ordine. Si tratta quindi di una partecipazione dell’87%, cosa assai notevole. In apertura della seconda parte del Capitolo Generale, Dom Bernardus ha presentato queste risposte. Ne offriamo qui un ampio estratto. Concerne in primo luogo l’Ordine trappista, ma può anche essere applicato alla famiglia benedettina in generale.

 

[…]

Dopo aver letto tutti i vostri sogni, mi sono sentito come san Benedetto nella torre di Montecassino, mentre cercavo e aspettavo ciò che la voce di Dio nella sua bontà ha da dirci: il cammino della vita! (RB Prol 19-20). Guardando in tutti gli angoli del mondo, credo che il Signore abbia aperto per noi quattro finestre. Queste quattro finestre ci aiuteranno a realizzare i nostri sogni.

Ho cercato di rileggere i vostri sogni a partire da tre parole del prossimo Sinodo dei Vescovi: comunione, partecipazione e missione. Ne ho aggiunta una quarta: formazione. Quest’ultima la spiegherò più avanti, ma per il momento mostra semplicemente che la sinodalità appartiene all’essenza della vita religiosa e che tale obbedienza alla Parola di Dio e gli uni agli altri non solo fonda la comunione, invita alla partecipazione e conduce alla missione, ma esige anche una conversione continua che richiede una solida formazione permanente. Questi sogni sono stati un piccolo inizio del processo sinodale nel nostro Ordine. La sinodalità, però, non è un evento isolato ma uno stile di vita.

Uno di voi ha sognato, «senza troppe illusioni», che nella prossima fase del Capitolo generale la parola “sinodalità” non ritorni a ogni frase nelle relazioni e negli interventi. «Una domanda mi sembra importante: nella vita concreta delle nostre comunità, la cosiddetta “sinodalità” non finirà per soffocare ciò che può restare dell’obbedienza benedettina?». Effettivamente, dobbiamo stare attenti che la sinodalità non diventi solo una parola di moda, priva di ogni sostanza.

«Parlare di stile sinodale significa rendersi conto che il rinnovamento ecclesiale di cui tanto parliamo... tocca le profondità dell’esperienza della Chiesa e non si limita a interventi che si riducono a un semplice maquillage ecclesiastico. […] È, dopo tutto, l’espressione dell’esigenza della Chiesa di una riforma profonda del nostro modo di essere e di vivere come Chiesa di fronte a un reale cambiamento di epoca per il cristianesimo e per il mondo intero»1.

Questa profonda riforma non può realizzarsi senza una conversione permanente basata sulla nostra obbedienza a Dio e gli uni agli altri.

Prima di guardare attraverso le finestre di questi quattro sogni, voglio sottolineare che nessuna torre può essere costruita senza buone fondamenta. Su questo fondamento, per fortuna, siamo tutti d’accordo. Nessuno di noi sogna un altro fondamento! Questo di per sé merita congratulazioni! Un superiore ha ben espresso questo fondamento nel modo seguente:

«Sogno un Ordine cristocentrico, appassionato dell’assoluto di Cristo. Un Ordine che si muove e si libera seguendo Cristo» (America Latina).

Su questo fondamento è edificata la torre del nostro Ordine e si aprono quattro finestre attraverso le quali si irradia la luce, nella quale possiamo vedere irradiare la luce di Dio. Su questo fondamento poggiano quattro sogni che qui riassumo brevemente e che svilupperò in seguito:

1. Sogniamo un Ordine in cui monaci e monache, provenienti da culture diverse, condividano una visione comune dell’identità contemplativa, «collaborano fra di loro e in molti modi si prestano aiuto vicendevole, rispettando le sane differenze e la complementarità dei loro doni» (Cost. 72). È favorita l’unità nella diversità.

2. Sogniamo un Ordine al quale tutti possano e vogliano partecipare; un Ordine flessibile nella sua struttura, con una comunicazione aperta e trasparente a tutti i livelli e con un grande rispetto della vocazione battesimale dei fratelli e delle sorelle, delle comunità locali e delle Regioni, senza perdere di vista l’insieme.

3. Sogniamo un Ordine nel quale tutti i membri e tutte le comunità sono persone e luoghi impegnati generosamente per Dio, la Chiesa e il mondo, un Ordine che renda giustizia alla sua «segreta fecondità apostolica» (Cost. 3,4). Esso si esprime con umile rispetto per tutti i doni della creazione di Dio. Così, in ogni cosa, Dio sarà glorificato (1Pt 4,11).

4. Sogniamo un Ordine che sappia formare con entusiasmo i suoi membri alla «filosofia di Cristo» (Ratio Institutionis) e al linguaggio di Cristo, e fornisca loro i mezzi adeguati a raggiungere lo scopo ultimo della loro vocazione.


Sogno di comunione

«La forma di vita cistercense è cenobitica» (Cost. 3,1). Convocati dalla voce di Dio, viviamo questa comunione in una forma concreta di vita comune, in cui è centrale la ricerca dell’unità con Dio e con tutto ciò che vive e respira. Ogni membro dell’Ordine è importante! Ogni fratello o sorella è portatore dello stesso sigillo battesimale ricevuto e confermato nella professione monastica. In virtù di questo dono, siamo tutti, senza eccezione, corresponsabili della comunione con Dio e tra di noi. Guardando attraverso questa finestra, ascoltiamo dei sogni sui rapporti reciproci nelle comunità, nelle Regioni, tra gli uomini e le donne del nostro Ordine ma anche tra gli anziani e i giovani e tra il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest.

* Sogno una comunità dove nessuno condanni l’altro, ma dove tutti siano ascoltati. Sogno una comunità in cui ci stimiamo a vicenda per quello che siamo – figli di Dio – piuttosto che usarci l’un l’altro per noi stessi o per la sopravvivenza delle strutture (Europa).

* Sogniamo che ci siano più rapporti tra i nostri monasteri affinché l’Ordine diventi sempre più simile a una grande famiglia. Da alcuni anni stiamo sperimentando l’invio a turno di uno di noi alla casa fondatrice e vorremmo continuare questa esperienza, magari con altre comunità? e sotto forma di scambi: uno di noi parte per un anno e un anziano viene da noi per diversi mesi e ci aiuta nella formazione (Africa).

* Il problema è di sapere come trasmettere questo desiderio personale alla comunità, all’Ordine. Riconosco che questa è una sfida perché siamo persone provenienti da culture diverse e da formazioni molto diverse. Ma abbiamo una forza comune, la nostra identità cistercense o carisma, che non è una pietra da museo, ma una realtà vivente. Una realtà che ci interpella su più fronti, per citarne solo alcuni: invecchiamento, calo delle vocazioni, chiusura delle comunità.

Il sogno ci supera, ci sorprende e, senza cadere in false illusioni, siamo chiamati a creare delle comunità in cui la semplicità, la gioiosa fraternità, la gioia della preghiera vivente, l’incontro con il Signore nella sua Parola e i sacramenti ci facciano sentire e vivere in pienezza la misericordia di Dio, come Maria, regina e madre di misericordia (America Latina).

* Un Ordine: sono rimasto colpito fin dall’inizio dal modo in cui i monaci e le monache collaboravano e ora, con un solo Capitolo, la modalità di funzionamento del nostro Ordine è unico. Questo è qualcosa di cui essere grati, da mantenere e sviluppare per noi stessi e forse per la Chiesa (Nord America).

* Il mio sogno: «Relazioni evangeliche». A livello del ministero dell’Abate generale per l’Ordine, ci vorrebbe un comitato di anziani (sempectae, RB 27), che fosse nominato dall’Abate generale per consigliarlo sulle questioni pastorali più complicate che finiscono sulla sua scrivania. Questo comitato non risiederebbe a Roma, ma si riunirebbe regolarmente presso la Casa generalizia attraverso una sofisticata sala di comunicazione informatica. Sarebbero scelti a motivo del loro lungo ministero e per la loro risposta creativa a molte questioni pastorali; potrebbero essere superiori attivi o in pensione. Lo scopo principale del Generalato sarebbe quello di facilitare e offrire risorse alle commissioni pastorali delle Regioni. Nei casi più difficili, queste commissioni potrebbero fare appello al Comitato degli Anziani. Il movimento di consultazione, autorità e responsabilità diventerebbe meno lineare e più circolare (obbedienza reciproca, RB 71) facendo appello a più membri dell’Ordine per la pastorale delle comunità con bisogni particolari (Nord America).

* Sogno una maggior attenzione pastorale reciproca. Reagiamo troppo come case autonome. Non possiamo o non siamo disposti ad aiutarci a vicenda. Non chiediamo aiuto. Se c’è un problema reale, ci è difficile aiutare (Asia).


Sogno di partecipazione

Tutti abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alla vita delle nostre comunità, delle Regioni e alla vita dell’Ordine con le sue diverse strutture (cf. Cost. 16,1). Una partecipazione radicata nella nostra tradizione benedettina nel voto di obbedienza. Le strutture ci sono state donate lungo la tradizione non come pezzi da museo, ma per permettere di essere ogni volta al servizio della vita del popolo di Dio (cf. Evangelii gaudium, 95). Dobbiamo quindi avere il coraggio di ascoltarci veramente per discernere ciò che lo Spirito ha da dirci. Solo così può nascere il coraggio di agire a partire dallo Spirito.

Guardando attraverso questa finestra ascoltiamo i sogni sul funzionamento delle comunità, delle Regioni e del Capitolo generale.

A volte sono sogni creativi su nuovi modi di fare che tuttavia cercano di rimanere fedeli al vecchio e allo stesso tempo sono completamente nuovi.

* Penso che a livello del Capitolo il confronto sui temi risulterebbe più approfondito se ogni partecipante avesse prima ascoltato le opinioni di molti altri, avendo per così dire «ascoltato ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7) (Asia).

* Sogno che il Capitolo generale diventi un forum prevalentemente pastorale e teologico (Europa).

* Si può affidare l’approvazione delle leggi alle Regioni invece di dedicare tanto tempo a farlo al Capitolo generale? Non potrebbe un sinodo di rappresentanti delle Regioni approvare delle cose dopo che le Regioni le avranno messe a punto? Le decisioni importanti che riguardano le case della Regione possono essere trattate a livello locale? (Africa).

* Vorrei che le nostre riunioni Regionali e i nostri Capitoli generali fossero un po’ meno focalizzati su questioni legislative e pratiche, e più sulla condivisione delle nostre esperienze, delle nostre lotte, delle nostre speranze, della nostra visione e dei nostri sogni – tutto questo cercando di leggere i segni dei tempi (America Latina).

* Sogno che sia possibile rivedere il funzionamento del Capitolo generale affinché diventi veramente un acquedotto santo per lo Spirito Santo e un veicolo vivificante per rivitalizzare il nostro Ordine cistercense e consentirgli di compiere la vocazione e la funzione che gli è stata data da Dio nella Chiesa e, allo stesso tempo, offrire speranza al nostro mondo che lotta e soffre (America Latina).

* Sogno un Ordine che si inserisca in tale immagine della Chiesa e che opti radicalmente per l’uguaglianza tra monaci e monache e che, con coerenza, si muova in questa direzione e cerchi nuove forme (Matres immediatae), denunci la disuguaglianza (cosa accadrà alla legislazione dei monaci se non si ottiene alcuna esenzione dalla Cor Orans, saranno solidali?) e che questo diventi un punto di attenzione permanente nel Capitolo generale...

Sogno degli incontri Regionali come santuari per condividere insieme, per pensare, per sognare la vita monastica, in tutta onestà e vulnerabilità... Con molta attenzione e tempo per questo processo... (Europa).


Sogno di missione

La missione della nostra vita cistercense è descritta nelle Costituzioni come «una fecondità apostolica nascosta». «La loro forma di partecipazione alla missione di Cristo e della Chiesa e la loro incorporazione in una Chiesa particolare è la vita contemplativa stessa» (Cost. 31).

Guardando attraverso questa finestra, ascoltiamo sogni di un significato rinnovato delle nostre vite per la Chiesa e per il mondo. Sogni che sono centrati sulla preoccupazione per la casa comune (Laudato Si’) e di tutti i fratelli e sorelle, «viandanti fatti della stessa carne umana» (Fratelli tutti, 8).

* Sogno che le abbazie diventino pioniere nel campo della sostenibilità e della vita ecologica e che si facciano scelte coraggiose in questo ambito (Europa).

* A livello ecologico, l’ambiente rurale in cui viviamo ci offre un quadro favorevole per questo processo di conversione ecologica, che sta diventando urgente e per il quale dobbiamo trovare dei modi molto concreti per realizzarlo nei nostri comportamenti. Sarebbero graditi incoraggiamenti e suggerimenti pratici, ora che la pandemia sembra (?) alle spalle, cosa che ci permetterà di rivedere i dettagli nelle pratiche comunitarie e nella foresteria, dato che anche gli ospiti sono molto motivati in questo senso. Resta da impegnarsi personalmente, e sicuramente anche con il servizio diocesano di ecologia integrale, in questa apertura al rischio, al cambiamento, al monitoraggio, alla novità, cioè semplicemente a una maggiore fiducia nell’opera dello Spirito Santo nel “sì” di ogni giorno (Europa).

* La «Chiesa in uscita» di cui ci parla Papa Francesco, evitando l’«autoreferenzialità». Penso che per noi cistercensi possiamo tradurre così: avere anzitutto il nostro sguardo, la nostra attenzione, i nostri pensieri, rivolti verso Dio, verso il mistero pasquale di Cristo e tutto ciò che esso implica (lectio, preghiera, contemplazione) e poi verso le persone, verso l’umanità (desiderio, intercessione). E non dobbiamo essere autoreferenziali come comunità. Tendiamo a concentrarci troppo sulla nostra comunità, spendendo troppo tempo ed energie “guardandoci allo specchio” e questo a volte è incoraggiato da alcune strutture, ad esempio dalle visite regolari ogni due anni (America Latina).

 

L’ecologia, tuttavia, è molto più che la cura del creato. È anche la cura che diamo a un ecosistema del tutto distinto che è la nostra vita cistercense. Il silenzio e la solitudine sono una caratteristica importante di questo ecosistema e molti avvertono la pressione che i moderni mezzi di comunicazione esercitano su questo ecosistema. Sognano di diventare più consapevoli e di gestire meglio questi mezzi per proteggere e preservare l’ecosistema della casa comune che è la nostra vita cistercense.

* Sogno un monastero eco-digitale; un monastero dove c’è un equilibrio tra apertura e solitudine; un ecosistema di silenzi, immagini e parole equilibrate; un monastero dall’atmosfera monastica libera dalle cattive influenze dell’eccesso di suoni, parole e immagini. Sogno una riflessione sincera nell’Ordine sull’influenza di internet sulle nostre vite. Che siamo d’accordo per far fronte alla dipendenza. Sogno una vita contemplativa in questo mondo ma non di questo mondo (Europa).


Sogno di formazione

Anche se la formazione non è una parola chiave del prossimo Sinodo dei Vescovi, aggiungo qui questa parola. Molti sogni hanno affrontato questo tema e anche nelle relazioni di sintesi della fase diocesana del processo sinodale, che le conferenze episcopali di tutto il mondo hanno inviato alla segreteria del Sinodo, colpisce costatare che il desiderio di formazione nel popolo di Dio sia grande. La trasmissione della fede tra generazioni in una famiglia o in una comunità religiosa non è più scontata. Ci manca il discernimento, il linguaggio, la formazione e perfino la fede per trasmettere la vita. Ciò incide anche sulla trasmissione del carisma cistercense.

Il ruolo della comunità, della Regione e dell’Ordine nel processo formativo è quello di aiutare ogni fratello e sorella ad «assimilare gli elementi essenziali della conversatio cistercense» (Cost. 45,3). Dobbiamo essere desiderosi di offrire un generoso aiuto reciproco per fare della formazione una realtà per tutti (cf. St. 45.3.B).

Guardando attraverso questa finestra ascoltiamo i sogni di una buona formazione per tutti nell’Ordine, non solo delle persone nella formazione iniziale ma per tutti, compresi i superiori. Una formazione che vada oltre la filosofia e la teologia ma che aiuti anche le comunità a vivere sul piano materiale ed economico.

* Una buona formazione monastica si vive nella o nelle comunità che valorizzano la tradizione e il dialogo con la nostra società attuale. Ciò può certamente avvenire nel quadro di una cooperazione tra comunità, all’interno dell’Ordine o con altre istituzioni, religiose e non (Europa).

* Ricordo un programma di formazione comune tra una comunità di monache e una di monaci. Sogno che possa succedere di nuovo. Condivisione delle nostre esperienze – come il programma Experientia. Due o più comunità possono scambiarsi reciprocamente le proprie condivisioni tramite posta o e-mail. Desidero un programma di formazione comune per tutte le comunità dell’Ordine. Desidero approfondire la mia conoscenza del carisma cistercense (Asia).

* Abbiamo accesso alla storia e al patrimonio dell’Ordine come nessuna generazione precedente. Gran parte del lavoro di base che rende ciò possibile è il risultato di una collaborazione all’interno della famiglia cistercense e con esperti laici. La ricchezza di materiali oggi disponibili per l’educazione/formazione è sorprendente. È diminuita una certa attitudine anti-intellettuale che ho riscontrato quando sono entrato nell’Ordine per la prima volta. Tuttavia, c’è ancora la tendenza a considerare l’interesse per questo ambito come secondario rispetto alle necessità della vita quotidiana (Nord America).

* Si parla spesso di crisi di leadership nell’Ordine. Il mio sogno è che continuiamo a esplorare modi per sviluppare le qualità della leadership attraverso i nostri programmi di formazione, le qualità di autoconsapevolezza, corresponsabilità, impegno, buon zelo, sacrificio di sé e competenza nella comunicazione che danno vita. I padri del deserto sembravano dotati in questo.

Il mio sogno è che ogni membro dell’Ordine sia entusiasta e desideroso di una formazione iniziale e continua, dinamica, per rafforzare la nostra visione comune al fine di portare vita alle nostre comunità e alla Chiesa (Nord America).

* Nel nostro Ordine cistercense conosciamo oggi due forme maggiori di precarietà: una è la mancanza di vocazioni e l’invecchiamento in Occidente e l’altra è la mancanza di personale ben formato nella nostra radice cistercense in Africa, dove la vocazione alla vita monastica è attualmente in pieno sviluppo. Queste due realtà minacciano l’esistenza e la fedeltà del nostro Ordine; in altri termini favoriscono rispettivamente l’estinzione e il rilassamento del nostro Ordine. La soluzione a questa precarietà è la formazione di una sinergia tra l’Occidente e l’Africa. […] Riconosco quindi l’importanza della sinergia per la sopravvivenza e la crescita del nostro Ordine nel processo sinodale all’interno di ciascuna comunità, nelle comunità intermonastiche e tra Occidente e Africa. L’Occidente dovrebbe essere in grado di aiutare per la formazione personale in Africa e gli africani dovrebbero essere in grado di alimentare vocazioni in Occidente nonostante le delusioni di alcuni africani che sono stati inviati per gli studi o per colmare le lacune di vocazioni in passato. Tuttavia, non dobbiamo scoraggiarci. La formazione della sinergia... presuppone ciò che Luke Timothy Johnson chiama «comunicazione» in contrapposizione alla «chiusura», quando un mondo simbolico interagisce con un altro in una società pluralistica, dove l’identità propria di ciascun gruppo è rispettata. La comunità monastica che si chiude in se stessa morirà (Africa).

* Aiutare le comunità in Africa. Formazione continua e iniziale: procurarsi insegnanti locali di altre congregazioni che stimolino la nostra vita cristiana, quindi integrare la nostra vita monastica.

Possiamo avere una scuola (Padri cistercensi, Padri benedettini e altri studi)? Ciò consentirà il processo sinodale (Africa).

* Che i corsi e i convegni e le altre risorse di formazione dell’Ordine siano tradotti in diverse lingue e offerti alle diverse Regioni (America Latina).

* Sogno la creazione di una stessa mentalità che favorisca i corsi e lo scambio di docenti e persone in formazione in comunità diverse. Sogno la creazione di una scuola monastica – on line – accessibile a tutti i monaci e le monache, per rafforzare la nostra formazione permanente (America Latina).


Conclusioni

Ancora una volta, questo è solo un piccolo campionario di tutti i vostri sogni! Non rende giustizia alla ricchezza del contenuto, ma a me personalmente mostra dove è che si fa sentire la voce di Dio. Al termine di questo convegno permettetemi di tracciare alcune linee verso il futuro. Del resto, il sogno era necessario per ascoltare la voce di Dio, per sperimentare dove Dio vuole condurci. Dopo tutto, dopo aver visto e fatto discernimento, arriva il momento di agire.

I vostri sogni mi sfidano nel tempo che verrà a:

– Dare priorità a rivitalizzare la dimensione contemplativa del nostro carisma. Tutto nella nostra vita dovrebbe essere espressione di questa dimensione, incluso anche una struttura come il Capitolo generale. Questa dimensione contemplativa dovrebbe portare conseguenze nella comunione, nella partecipazione, nella missione e nella formazione. (Esaminerò, tra le altre, le proposte riguardanti il funzionamento del Capitolo generale. Una rinnovata discussione sulla separazione dal mondo, sull’uso privato dei mezzi di comunicazione, sulla gestione del denaro e dei beni, ecc.).

– Dare la priorità alla promozione della comunione tra noi attraverso una comunicazione aperta e trasparente a tutti i livelli e utilizzando i moderni mezzi di comunicazione. (Proposte relative alla condivisione di informazioni [on line], alla vita spirituale, al lavoro, all’aiuto reciproco, all’ecologia, ecc.)

– Dare priorità alla promozione della partecipazione di tutti i membri dell’Ordine. Trovare, con una fedeltà creativa alla Tradizione, nuovi percorsi che rendano le strutture di governo dell’Ordine più aperte e flessibili, ricercando una migliore ed equa rappresentanza di tutte le parti del mondo e tra monaci e monache. (Proposte relative all’Abate generale e al suo consiglio, alle Madri immediate, allo statuto di sostegno per l’accompagnamento delle comunità fragili, al funzionamento degli incontri regionali, alla commissione centrale, al consiglio degli anziani, ecc.).

– Dare priorità a una migliore comprensione della nostra missione nella Chiesa e nel mondo. (Proposte di condivisione di informazioni sulle pratiche migliori; promuovere lo studio della nostra tradizione cistercense e il suo significato oggi; cercare il collegamento con la Chiesa locale e universale).

– Dare priorità all’approfondimento della formazione integrale di tutto l’Ordine, per ravvivare la fiamma del nostro primo amore e prestare maggiore attenzione ai bisogni delle diverse Regioni. Di grande importanza a questo proposito è una più stretta collaborazione tra l’Abate generale, il suo Consiglio e il Segretario generale per la formazione (proposte per una scuola [on line] di vita cistercense che offra corsi on line, formazione specifica per i superiori, i cellerari, i maestri dei novizi, i cappellani; maggiore attenzione alla formazione in materia di abusi, dipendenze, ecc.).

Lì, in questa torre, con san Benedetto, approfittando di questo unico raggio di luce in cui convergevano tutti i sogni del mondo, ho sospirato: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi». Tuttavia, non lascerò che questo mi scoraggi e chiedo a tutti voi di lavorare con me per raggiungere queste priorità. Come ho detto, è tempo di agire e di vedere come possiamo trasformare le priorità in azioni concrete. Conto per questo sul vostro aiuto, nella preghiera e nelle azioni.

Il sogno tra voi in quanto superiori è stato un piccolo inizio del cammino sinodale nell’Ordine. Il processo continua e deve diventare uno stile di vita a tutti i livelli. Alcuni di voi hanno anche risposto alla mia richiesta di sognare nelle proprie comunità. Spero che molti seguiranno. Lasciate sognare i vostri fratelli e sorelle! Sognare la propria vita, la vita della propria comunità e la vita dell’Ordine. Osate sognare per ascoltare la voce di Dio in modo da poter discernere ciò che conta e ciò che vi viene chiesto di fare.

Ma ciò che è ancora più importante – ed è in definitiva lo scopo del processo sinodale – sono queste parole di san Bernardo:

«Abbiamo formato, cari fratelli, un’assemblea o sinodo dei corpi (synodum corporum), ma dobbiamo ancora formare un sinodo più grande: l’unione delle anime (coniunctio animarum). Infatti non è lodevole essere uniti nel corpo se siamo divisi nello spirito; è inutile riunirsi in un luogo se siamo in disaccordo nelle nostre anime. (…) “Quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20), se sono davvero riuniti nel nome di Gesù, cioè con amore di Dio e del prossimo: con loro è bello vivere insieme (Sal 132,1)»2.

Ci sia concesso sotto la protezione di Maria, Regina di Cîteaux!

 

1. Mario Cardinal Grech, La sinodalità come stile in Sequela Christi, XLVII 2021/02, pp. 72-73.

2. Bernardo di Chiaravalle, Sententiae III, 108 (per questa citazione sono grato a Dom Yvon-Joseph di Val Notre Dame che l'ha sottoposta alla mia attenzione!).

Discorso ai partecipanti del Capitolo generale OCSO

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Ciò che è più vivificante oggi nell’Ordine

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Prospettive

Suor Ainzane Juanicotena, ocso

Monastero di Quilvo (Cile)

 

Ciò che è più vivificante oggi nell’Ordine

 

«Abbiamo ricevuto uno spirito da figli adottivi

per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!»

(cf. Rm 8,15)

 


Tutto ciò che è vivificante è un dono immeritato e il dono più grande che io ho ricevuto dall’Ordine, il più vivificante, è il dono della figliolanza.

Come ogni dono che viene dalla mano di Dio, lo gustiamo nella consapevolezza di essere peccatori, poveri, perdonati e riscattati. Accolti quando torniamo al Padre, come il figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32), o come la fanciulla a cui disse: Talità kum (Mc 5,41), o come Lazzaro risorto dal sepolcro (Gv 11,44). Il Padre ci accoglie attraverso il Figlio che, nei suoi giorni mortali, ha esclamato: «Nessuno mi toglie la vita, la do liberamente» e che, nella sofferenza, ha imparato a obbedire (cf. Gv 10,18; Eb 5,8).

Ora, noi viviamo nel cuore di una crisi globale in cui la vita si è mossa quasi impercettibilmente verso una spaventosa desolazione: un mondo di guerre, di pandemia, di fame, morte, odio: un mondo di egoismo estremo, disgregato e disgregante.

Anche il mondo della comunicazione tecnologica ha spiegato le ali e le attrattive sono immediate, l’informazione è veloce, leggera, abbondante e varia. Non riusciamo a elaborare tutto ciò che ci viene offerto e già arrivano altre proposte; ci conformiamo gradualmente a un modo prestabilito di comportarci nella società. Smettiamo di pensare, di interrogarci su ciò che c’è oltre, sul perché delle cose, ci assopiamo, ci stordiamo nella società, in preda alla stanchezza, diventiamo indifferenti, perdiamo il gusto della vita, preferiamo non avere problemi, non assumerci rischi e ci chiudiamo all’idea che la vita la si riceve. Eppure, allo stesso tempo, nel cuore umano c’è un desiderio che anela e grida, cercando l’incontro con Dio. Un desiderio che riconosce che abbiamo ricevuto la vita e che, per questo, possiamo trasmetterla, perché nessuno dà ciò che non possiede... solo se la trasmettiamo la vita si mantiene in noi e si diffonde agli altri. Poiché siamo immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26), portiamo in noi un sigillo che grida, anelando a questo incontro con il nostro Creatore; un movimento continuo ci abita e si muove verso il punto di incontro tra Dio e me, attraverso una relazione tra un Tu e un Io. Di conseguenza, la nostra vita è fatta per gli altri, ed è solo attraverso gli altri che possiamo incontrarci.

In concreto, siamo chiamati a guardare e a lottare per la vita di Dio e a servirla negli altri, in ogni fratello della comunità, con quell’ottimismo antropologico cistercense che afferma con energia che l’ultima parola sull’uomo non sarà mai il peccato ma il dono di Dio, l’essere a sua immagine e somiglianza.

Che ne siamo consapevoli o meno, ogni essere umano porta in sé questo sigillo perché Dio ci ha creati e siamo suoi figli. Questo è il desiderio più profondo del cuore umano: essere pienamente faccia a faccia con Dio, aderire a lui in piena libertà.

La vita, iniziata con un desiderio lancinante, collocata in uno spazio e in un tempo concreti, l’oggi, inizia a prendere forma attraverso il risveglio della nostra stretta relazione con Dio, il dono della figliolanza che abbiamo con lui. Figliolanza ricevuta attraverso il Figlio Gesù Cristo, che ha lasciato il suo sigillo impresso in ciascuno di noi, in ogni atomo del nostro essere e in tutta la creazione. Un sigillo che rivendica il proprio Creatore e ci rende figli per sempre.

Comunità Quilvo. © AIM.

Siamo figli di Dio, questo è il sigillo indelebile, ma la relazione che abbiamo con Dio, il dono di essere figli di Dio, si forma attraverso una relazione con persone concrete, in un luogo concreto. La contemplazione di Cristo, il rapporto diretto con lui attraverso l’ascolto, come incontro con la Parola vivente, è la base per poter vivere con fede e obbedienza il rapporto con la comunità, l’abate e l’Ordine. Fondati sulla tradizione dell’Ordine, le consuetudini della casa nella continuità della vita, sui testimoni concreti che hanno dato la vita per noi e che la danno oggi, viviamo il dono di consegnare la vita a Dio nella relazione con gli altri. La mia vita consegnata a Dio è donata amando le sorelle, e il dono che ricevo da Dio è ricevuto dalle loro mani; il mio rapporto con gli altri riflette il mio rapporto con Dio, e viceversa.

La gratuità del dono ricevuto, il sapermi amata da Dio è la mia garanzia: nulla si perde quando tutto è offerto; solo attraverso questa azione di grazie la mia vita acquista gusto e colore. Riconoscermi come figlia amata, libera, povera, peccatrice, bisognosa di perdono e di amore.

La vita comune, con lo sguardo rivolto a un’unica meta, Cristo, è una scuola di saggezza, un’energia potente e una risposta nuova all’individualismo che oggi tanto ci segna. È l’espressione più autentica del fatto che siamo creati per la relazione; soltanto attraverso gli altri posso vedere veramente chi sono e quindi camminare verso Cristo; lo specchio degli altri mi permette di riconoscermi, di collocarmi in una realtà, di illuminare il cammino per sapere dove sono, e mi dà la luce di cui ho bisogno per vivere la conversione che Dio mi chiede e che posso dispiegare solo attraverso gli altri.

La forza per questo slancio di conversione sta nel riconoscere di essere miserabile e nel sapermi oggetto di misericordia, sostenuta da Cristo attraverso le sorelle della comunità, riconoscendolo nella concretezza della vita, che serve da trampolino per spingermi a vivere il dono dell’obbedienza come risposta a un amore ricevuto.

Questo cammino di obbedienza mi “cristifica” perché è il modo di essere del Figlio Gesù Cristo. È il nostro modo di amare, la condizione della nostra piena realizzazione. L’obbedienza è la nostra preghiera, e perché ciò sia possibile, dobbiamo inginocchiarci davanti al mistero di Cristo fatto carne, sia vivendolo nell’Ufficio, sia ascoltandolo nella lectio, sia contemplandolo nel silenzio, sia nel servizio che mi viene richiesto ogni giorno. Egli è la via, il sostegno, la fonte della nostra fede nel Figlio di Dio fatto carne.

E perché questo sia possibile, l’obbedienza deve essere accompagnata dalla gioia, una gioia non artificiale né superficiale, in cui mi mostro felice mentre piango dentro, non esente dalla sofferenza, ma una gioia sempre pasquale, fatta della croce e della gloria di ogni giorno. Se l’obbedienza non è vissuta in modo gioioso, non è vera obbedienza; essa deve partire dalla radice dell’essere figli, eredi e amati; e, come figli, siamo liberi, felici e desiderosi di rispondere a questo amore nel modo più pieno, come Cristo ha fatto e ci ha insegnato, attraverso l’obbedienza.

La fiducia, la certezza di essere figlia di Dio, vivendo in un tempo e in uno spazio concreti, dove ogni secondo è una nuova rinascita alla vita piena con Cristo, è il respiro del nostro organismo, il battito del nostro cuore. Vivere alla sua presenza, godere dello svolgersi della giornata e della comunità che Dio mi ha donato, coltivare la gioia in noi e in coloro che arrivano, aiutandoli a riconoscere il loro desiderio personale e comunitario di felicità e di verità, che non sta nelle buone regole né in un numero maggiore di sorelle, ma va oltre, nel cercare la qualità e la profondità della relazione con Cristo, frutto di un comune modo di sentire e di una comune volontà, per camminare sul sentiero della pienezza presente e andare così tutti insieme verso la vita eterna (RB 72,12).

Non si tratta di successo o di dipendenza dai “frutti spirituali” del cammino della comunità, né di morte o di vita della comunità, ma di perfetta conformità alla volontà di Dio. Senza questa consapevolezza della gioia di vivere rivolti a Dio, diventiamo aridi, insipidi e privi di entusiasmo. Perdiamo la scintilla che ci fa desiderare la vita e vivere come veri cristiani; diventiamo pieni di amarezza, nemica della vita. Perché chi vive veramente è pronto a morire. Quante volte ci aggrappiamo alle nostre sicurezze e ai nostri schemi per non morire, e dimentichiamo di cercare di vivere? Dobbiamo vivere con il desiderio di accompagnare Cristo nella sua passione fino alla risurrezione.

Nel nostro cuore deve esserci una gioia pronta a sgorgare per vivere una vita aperta alle novità, per riconoscerci liberi e quindi aperti a ricevere e a dare il perdono. Aprirmi a nuove forme, a nuovi obiettivi, esaminarmi e vedere che le cose che un tempo davano vita forse non la danno già più. Eliminare i pregiudizi, rischiare, osare, innovare, non limitarsi mai, identificarsi con gli altri, essere giovane con i giovani, bambina con i bambini, venerare gli anziani. Cercare sempre la vita... Bisogna lasciarsi “fare” dagli altri!

Quante volte ci aggrappiamo ai nostri criteri e non lasciamo entrare la nuova grazia che Dio ci offre in ogni avvenimento? Quante volte ci aggrappiamo a noi stesse e non riusciamo a riconoscere il bene dietro le azioni degli altri? Quante volte ci aggrappiamo alle strutture e dimentichiamo che le strutture devono servire la nuova vita infusa dallo Spirito Santo nel nostro cammino? Quanta sofferenza c’è nel mondo... e quante volte non sono compassionevole verso la sorella che mi sta accanto?

Dobbiamo imparare (come ha imparato il Figlio, cf. Eb 5,8-9) da ogni evento e dagli altri, con tutta la novità e la particolarità che li contraddistingue, a riconoscere che l’altro è un apporto alla mia vita. Devo essere una fonte disponibile a tutti, ricettiva e ricevente, vivere aperta agli altri, amandoli in ogni momento, senza fantasie romantiche sul bene, che canonizzano il nostro male e dissimulano il nostro bisogno di conversione, ma con realismo. Senza critiche, senza lamentele o resistenze, ma con lucida misericordia, valorizzandoli e non lasciandoci trascinare dal male che possono aver commesso, ma credendo nella buona volontà e nel desiderio di bene che si trova in ogni fratello che Dio mi ha posto accanto, felice di amarli e accettarli pienamente come sono.

E così, mi lascio “fare” e formare dagli altri. Solo attraverso persone concrete, con nomi e volti concreti, posso lasciarmi formare da Dio; solo attraverso la mediazione umana degli altri posso lasciare che Dio agisca in me e prenda carne in me. L’altro è il sacramento della volontà di Dio nella mia vita.

Vivere nell’obbedienza filiale, in modo concreto e secondo il carisma del nostro Ordine, in una comunità, sotto una regola e un abate (RB 2), con lo sguardo rivolto alla vita eterna e con il condimento saporito della fede, è una regola di vita nei nostri monasteri. La figliolanza divina diventa carne grazie a questi tre pilastri fondamentali:

– Comunità: è il luogo in cui posso lasciarmi fare dal Signore attraverso gli altri. È il Corpo-Chiesa dove avviene l’incontro con Dio, dove tutti siamo membra e Cristo è il capo. La nostra comunità è il Corpo di Cristo, una Chiesa monastica che vive in comunione con la Chiesa universale.

È il luogo in cui ricevo il perdono e la vita quotidiana; è il luogo in cui la mia miseria viene alla luce, in cui sperimento le mie debolezze, i miei limiti, i miei peccati, e in cui so di essere sostenuta e amata nonostante la mia povertà. È il luogo in cui posso spiegare le ali verso Cristo attraverso il servizio agli altri, il lavoro e il dono di me stessa.

– Abate/abbadessa: è la persona che tiene il posto di Cristo nel monastero (RB 1), l’abate o l’abbadessa della comunità, che vive per servirla; e la comunità forma il suo abate o la sua abbadessa. La purezza di cuore è fondamentale nel rapporto con il mio abate/abbadessa, la verità con me stessa per vivere questa relazione, per riconoscere le mie amarezze, le mie oscurità, le mie incoerenze, le mie luci e i miei successi, per poter essere trasparente nei suoi confronti, per sapermi figlio/a di questa persona concreta come rappresentante di Cristo.

– La Regola: è la struttura vitale della nostra vita; la sua forma è cristocentrica e ci dà la modalità concreta di vivere il Vangelo – vivere, non realizzare! Perché tutte le nostre azioni hanno un’irradiazione sul mondo intero. Un’irradiazione che non dipende dal nostro merito o demerito, ma dall’incontro con Cristo, come dice il Salmo 33,5: «Contemplalo e sarai raggiante».

La radicalità della nostra vita, per vivere l’incontro con Cristo a partire da una umanità, in un tempo e in un mondo specifici, ci stabilisce nell’incontro con i nostri fratelli di oggi. Nel qui e ora, orientati all’eternità. Tutti gli elementi della nostra vita si incontrano in questa realtà di oggi. Fare ciò che devo fare ed essere dove devo essere: questa è la nostra offerta, la nostra preghiera.

Nel nostro Ordine possiamo riconoscere questi aspetti. La paternità e la maternità spirituale si vivono aiutandosi e generandosi a vicenda, ma sono sempre anche una sfida.

La figliolanza che dobbiamo offrire a Cristo in ogni momento è una testimonianza viva all’interno dell’Ordine, il rapporto con l’Abate generale, la Casa madre, il Padre immediato, le case figlie e sorelle, l’interdipendenza reciproca, dove il respiro di ogni cuore e del cuore comune è Cristo. Siamo figli di una comunità concreta, che appartiene a un Ordine concreto, governato da una struttura solida, dove ciò che domina è sempre questa unione filiale di amore che abbiamo tra di noi. Questo esprime il fatto reale di essere generati, di ricevere la nostra identità, il nostro volto, dalle mani di un altro che tiene il posto di Cristo. Questa figliolanza non è sentimentale ma evangelica; di conseguenza, è un cammino di fede, molto più profondo delle apparenze.

L’amore di Cristo per ciascuno di noi, il riconoscersi amati da Dio e il riconoscere l’amore di Dio negli altri, il viverlo nell’eterno presente della realtà quotidiana, è il dono più prezioso di cui possiamo godere, la vita stessa. Vivere radicati nella realtà presente, con la chiara consapevolezza di essere immersi in una vita transitoria la cui destinazione finale è Dio.

Siamo venuti a vivere con Cristo, e la morte all’io è la condizione per vivere; la vita ribolle, si rinnova, è sempre un dono di cui ringraziare, perché il dono più grande che Dio ci ha fatto è la vita, e la capacità di goderne ci dà la pace per assumere consapevolmente e con gioia il senso del nostro destino liberamente scelto, come risposta a un amore che ci ama e ci ha scelti per primo (1 Gv 4,19).

Solo se cresciamo noi possiamo aiutare gli altri a crescere in Cristo e a sviluppare una paternità o maternità spirituale, come risposta all’essere figlie e figli di Dio.

Dobbiamo vivere veramente in un mondo al di là, dove i sogni diventano realtà, vedendo già nel presente il barlume dell’amore di Dio che sarà il tutto della vita futura. Ecco cosa significa vivere uniti a Cristo, con lo sguardo fisso su di lui, affrontando la quotidianità in questa luce, con lo sguardo proteso verso la totale cristificazione in lui, con tutto e con tutti.

Essere grati per ciò che non meritiamo, perdonare ciò che ci è già stato perdonato e, soprattutto, amare sempre e in ogni momento con l’amore che solo un figlio di Dio può comprendere, l’amore di Cristo.

La Vergine Maria ci guidi con il suo amore di Madre all’unione intima, audace, viva e grata con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Amen.

Discorso di apertura del Capitolo generale dell’Ordine cistercense

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Prospettive

Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist

Abate generale dell’Ordine cistercense

 

Discorso di apertura del Capitolo generale dell’Ordine cistercense

 


Ci ritroviamo dopo sette anni dall’ultimo Capitolo generale. Sono stati anni non facili da attraversare, marcati dalla pandemia di Covid-19, dalla crescente fragilità delle nostre comunità, da alcune dimissioni di superiori in seguito a irregolarità gravi e abusi di potere.

Molti volti sono cambiati nella formazione del nostro Capitolo Generale: 7 Abati Presidi sono cambiati, e abbiamo una Congregazione in più, quella di Santa Gertrude la Grande. L’Abate Preside Eugenio Romagnuolo, di Casamari, ci ha purtroppo lasciati, vittima del Covid, già nell’aprile del 2020. Ci sono circa 43 nuovi superiori e superiore (ben la metà dei membri del Capitolo generale), fra cui 7 amministratori. 13 comunità hanno perso lo statuto di sui juris per varie ragioni.

C’è per ora un solo superiore di un nuovo monastero sui juris, quello di Phuoc Hiep in Vietnam. Grandi figure di superiori dell’Ordine hanno terminato il loro fedele servizio. Madre Gemma Punk di Regina Mundi, ha dato le sue dimissioni dopo 75 anni come superiora. Ora sappiamo che ha “regnato” più a lungo della regina Elisabetta! Madre Rosaria Saccol, di San Giacomo di Veglia ha deposto la carica abbaziale dopo 51 anni ed è tornata santamente al Padre il 23 novembre 2021. Madre Irmengard Senoner di Mariengarten ha da poco terminato il suo servizio dopo 39 anni di abbaziato.

Ci tengo a menzionare i superiori che, oltre ai menzionati, sono tornati alla Casa del Padre in questi anni: l’Abate Preside emerito della Congregazione soppressa di Maria Mediatrice di tutte le Grazie Dom Gerardus Hopstaken; l’Abate Preside emerito della Congregazione della Santa Famiglia, Dom Jean Lam; l’Abate Preside emerito della Congregazione di S. Bernardo in Italia, Dom Ambrogio Luigi Rottini; Madre Consolata di Frauenthal, Madre Assunta di Santa Susanna, l’Abate Bao di My Ca, l’Abate Christian di Rein, l’Abate Denis di Dallas, Madre Presentación Muro di Santo Domingo de la Calzada, Madre Agnes di Kismaros. Un’altra dolorosa perdita per l’Ordine è stata la morte prematura di P. Sebastiano Paciolla, il 22 giugno 2021.

I membri del Capitolo generale con diritto di voto in 7 anni sono scesi da 100 a 87. I membri dell’Ordine, nonostante i Paesi come il Vietnam e alcune comunità in Europa e Stati Uniti che hanno abbastanza vocazioni, sono scesi da circa 2.500 a 2.217. Come dicevo al Santo Padre incontrandolo il 13 giugno scorso: «Facciamo più fatica a camminare, ma camminiamo di più insieme». Francesco mi ha risposto citando un detto africano: «Se vuoi camminare veloce, cammina da solo, ma se vuoi camminare sicuro, cammina insieme con gli altri». Sì, penso che camminiamo di più insieme, ma non sempre e non con tutti. In fondo, vedremo con questo Capitolo generale se al Papa ho detto la verità o una bugia. Spero non mi obbligherete ad andare a confessarmi!

A cosa deve servire un Capitolo generale?

La Carta Caritatis ce lo ripete da 903 anni: «Trattino della salvezza delle loro anime; diano disposizioni circa l’osservanza della santa Regola o dell’Ordine, se ci fosse qualcosa da correggere o da incrementare; riformino tra loro il bene della pace e della carità» (CC VII,2).

In questo, essa riprende tante esortazioni apostoliche, come quella che san Paolo rivolge agli Efesini:

«Vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. (…) Agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,1-6.15-16).

Papa Francesco, in tutte le sue esortazioni tese a ravvivare la natura sinodale della Chiesa, ci aiuta a riscoprire il nostro carisma cistercense, proprio come “cammino insieme” di comunità riunite da una medesima vocazione, da una sola speranza, una sola fede, una sola carità. Nelle mie lettere e alcune conferenze di questi ultimi quattro anni, ho cercato di stimolare fra di noi questa coscienza sinodale della nostra vocazione e missione, indipendentemente dalle differenze di osservanza e stile che viviamo nelle nostre singole comunità o Congregazioni. In questo mi ha aiutato molto il ritrovarmi a partecipare a vari incontri della Chiesa: il Sinodo dei Vescovi del 2018 dedicato ai giovani, l’incontro in Vaticano nel febbraio del 2019 sul tema degli abusi nella Chiesa, poi l’inizio del cammino sinodale di tutta la Chiesa il 9 e 10 ottobre 2021, cammino che culminerà con il Sinodo dei Vescovi dell’anno prossimo. Mi ha stimolato in questo anche la sorpresa di essere eletto nel Consiglio esecutivo dell’Unione dei Superiori Generali e la sorpresa ancor più grande di essere eletto vice-presidente di questa Unione. Non è un compito che mi chiede molto lavoro, per fortuna, ma che mi aiuta a essere più vigile su quello che palpita nella Chiesa universale e nel mondo. Ho cercato di rendere partecipe l’Ordine di questa coscienza. Mi sono reso conto di quanto gli altri Ordini religiosi sono attenti alla nostra esperienza e sensibilità monastiche nell’affrontare i problemi e soprattutto nel vivere la missione della Chiesa. È importante che ne siamo coscienti, perché non è tanto il ruolo di Abate generale che mi abilita a questo compito, quanto la vocazione che condivido con ognuno di voi.

Diceva il Papa nel suo discorso in occasione dell’inizio del cammino sinodale, esattamente un anno fa, il 9 ottobre 2021:

«Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità in ogni passo del cammino e dell’operare, promuovendo il reale coinvolgimento di tutti e di ciascuno. Vorrei dire che celebrare un Sinodo è sempre bello e importante, ma è veramente proficuo se diventa espressione viva dell’essere Chiesa, di un agire caratterizzato da una partecipazione vera. E questo non per esigenze di stile, ma di fede. La partecipazione è un’esigenza della fede battesimale. Come afferma l’Apostolo Paolo, “noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo” (1Cor 12,13). Il punto di partenza, nel corpo ecclesiale, è questo e nessun altro: il Battesimo. Da esso, nostra sorgente di vita, deriva l’uguale dignità dei figli di Dio, pur nella differenza di ministeri e carismi. Per questo, tutti sono chiamati a partecipare alla vita della Chiesa e alla sua missione. Se manca una reale partecipazione di tutto il Popolo di Dio, i discorsi sulla comunione rischiano di restare pie intenzioni» (Discorso del Santo Padre Francesco, 9.10.2021).

 

Partecipare alla missione della Chiesa

«Tutti sono chiamati a partecipare alla vita della Chiesa e alla sua missione», dice Papa Francesco. Vorrei sottolineare questa frase, perché ci rende coscienti che incontrarci e lavorare insieme non è un compito solo per noi stessi, ma deve essere animato da un respiro universale. Certo, dobbiamo, come ci chiede la Carta Caritatis, trattare della salvezza delle nostre anime, dare disposizioni circa l’osservanza della santa Regola o dell’Ordine, correggere o incrementare la vita delle nostre comunità e riformare tra noi il bene della pace e della carità (cf. CC VII,2). Ma se in tutto questo non pensiamo alla missione di tutta la Chiesa, cioè non pensiamo alla salvezza del mondo intero, tutto il lavoro su noi stessi sarà narcisistico, sterile, non porterà frutti, neanche per noi stessi. Perché fin dall’origine il nostro Ordine si è tenuto unito e lavora alla propria conversione «desiderando giovare ai membri dell’Ordine e a tutti i figli della santa Chiesa – prodesse illis omnibusque sanctae Ecclesiae filiis cupientes» (CC I,3). I «figli della Chiesa» vuol dire tutta l’umanità. Siamo chiamati ad essere padri e madri, fratelli e sorelle di tutta l’umanità. Non l’umanità in astratto, ma l’umanità che oggi nel mondo nasce, vive, lavora, soffre, muore. Non dobbiamo sentirci sterili e inutili se non abbiamo vocazioni o se dobbiamo chiudere qualche monastero. Dobbiamo sentirci sterili e inutili se viviamo la nostra vocazione senza questa passione per l’umanità intera.

Il Papa parla sempre di «Chiesa in uscita», cioè della passione missionaria che rende la Chiesa tutta tesa a raggiungere ogni pecora disorientata e lontana dal gregge di Cristo. Anche noi, rispettando le caratteristiche più contemplative o più apostoliche di ogni nostra Congregazione e comunità, dobbiamo trovare e ravvivare questa irradiazione missionaria, per rimanere vivi e soprattutto lieti della gioia del Vangelo. Come scrive ancora il Papa nell’Evangelii Gaudium:

«Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (EG 20).

A volte diventiamo cupi e scontenti, permalosi e capricciosi, semplicemente perché dimentichiamo la sofferenza del mondo, dimentichiamo la pandemia, la povertà, la guerra, la fame, la vita senza senso di tanti uomini e donne, di tanti giovani. Dimentichiamo il dolore innocente di troppi bambini, l’insicurezza in cui vivono tante famiglie, le difficoltà economiche e sociali a cui sono confrontati i laici. Dimentichiamo i cristiani perseguitati, dimentichiamo i martiri. Dimentichiamo i migranti. Dimentichiamo la tristezza dei peccatori che non incontrano il Redentore. Dimentichiamo insomma tutte le pecore perdute senza pastore, cioè dimentichiamo la compassione di Cristo per l’umanità (cf. Mc 6,34).

Quante volte, trovandomi confrontato, insieme ad alcuni di voi, a problemi che non si risolvono mai, in cui continuamente si riattizzano i conflitti, le rivendicazioni, le disobbedienze, le infedeltà, ci siamo detti: ma cosa c’entra tutto questo con la salvezza del mondo e quindi con Cristo venuto a vivere, soffrire, morire e risorgere per salvarci?

Ma conforta vedere che la maggioranza delle comunità e delle persone vivono con questa coscienza missionaria, e questo rende grande e irradiante la loro vita, anche e soprattutto quando le circostanze, le condizioni, la salute, costringono a ridurre l’azione. Chi ama molto, anche se non può far nulla, agisce come Dio!

Molti fratelli e sorelle hanno, per così dire, un “cuore in uscita”, cioè un cuore ecclesiale, missionario, anche e soprattutto se possono solo pregare, e soprattutto offrire tutto per la salvezza del mondo. Mi rallegra vedere un po’ ovunque nel mondo che tanti giovani nelle nostre comunità hanno questo senso universale della nostra vocazione, e questo riempie di speranza.

È con questa speranza che do inizio al nostro Capitolo generale, sul quale abbiamo già invocato lo Spirito Santo e continueremo a invocarlo, facendo epiclesi su tutto quello che vivremo, diremo, penseremo, proveremo in questi giorni, affinché tutto sia offerto allo Spirito perché vi incarni Cristo Redentore, Misericordia del Padre, come nel seno di Maria, Madre della Chiesa, Madre di Cîteaux.

Estratto di un discorso di Papa Benedetto XVI (2008)

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Articolo non tradotto. Visualizzazione in inglese, francese o altra lingua.

Prevenzione degli abusi nelle comunità femminili

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Articolo non tradotto. Vedere in francese, inglese o tedesco.

La grazia di fare una fondazione e l’esperienza del ritorno

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Testimonianze

Dom Robert Igo, osb

Abate di Ampleforth (Regno Unito)

 

La grazia di fare una fondazione e l’esperienza del ritorno

 


Quando, nel 1995, mi fu chiesto di andare in Zimbabwe per fare una fondazione monastica, avevo cinque buone ragioni per non ritenermi la persona giusta. Fortunatamente, ho ascoltato la voce dello Spirito Santo e ho detto: «Sì». Se avessi ascoltato la voce del dubbio e della paura, avrei perso la grazia più grande della mia vita. Quattro anni di attenta indagine da parte della comunità di Ampleforth hanno portato i fratelli a fare un passo nella fede, ma pochi probabilmente hanno compreso appieno cosa avrebbe significato questa decisione, soprattutto coloro ai quali è stato chiesto di fare la fondazione. Non esistono libri che descrivano chiaramente le regole fondamentali per realizzare una fondazione monastica. È davvero un cammino di fede.

Le fondazioni sono tutt’altro che facili e, come un parto, possono essere disordinate, dolorose, piene di paura e di aspettativa, ma allo stesso tempo cambiano la vita. Cosa mi hanno insegnato in venticinque anni? La risposta semplice e vera è che ho imparato più di quanto possa dire in una breve riflessione. Il soggiorno in Zimbabwe mi ha aperto la mente e il cuore e ha approfondito la mia fede cristiana e la mia comprensione della vita monastica.

Fin dall’inizio siamo andati in Zimbabwe con rispetto per la nuova cultura che stavamo adottando. Abbiamo imparato presto a essere flessibili e creativi, mantenendoci aperti a ciò che l’esperienza quotidiana ci presentava. Eravamo convinti, però, che fosse necessario avere ben chiaro l’essenziale della vocazione monastica che desideravamo condividere con gli altri: una vita di fede, basata sulla Parola di Dio e guidata dalla Regola. Una vita nutrita dall’ufficio divino e vissuta in una comunità forte che viveva del lavoro delle proprie mani. Sentivamo di avere un seme da seminare, chiamato “saggezza monastica” e che la nostra priorità era ascoltare e conoscere il terreno in cui quel seme doveva essere piantato. Ascolto e disponibilità ad apprendere sono stati valori fondamentali.

Prima ancora di mettere piede sul suolo zimbabwese, avevamo iniziato un ritorno all’essenziale e a rivedere i diversi elementi della Regola di san Benedetto. Questa riflessione collettiva ci ha portato alla convinzione che dovevamo essere una comunità “in formazione” per diventare capaci di formare gli altri. Per questo motivo abbiamo dato molta importanza alla formazione di una vera comunità di fratelli, una famiglia che non solo pregava insieme, ma lavorava insieme, assumendosi la responsabilità della cucina, delle pulizie, della manutenzione, ecc. Credevamo che la nostra vita insieme fosse il più grande strumento di evangelizzazione. Abbiamo deciso di non accettare postulanti nella nostra comunità per dieci anni, dandoci il tempo di imparare la lingua, la cultura e di costruire insieme una famiglia nella quale altri potessero integrarsi.


Cappella del Monastero di Christ the Word, Macheke, Zimbabwe. © AIM.

Nel tentativo di diventare una tale comunità, adattandoci a una cultura diversa, il clima non era sempre piacevole o confortevole. Ha comportato tempo, tolleranza, errori, incomprensioni e perseveranza. Le persone non diventano necessariamente una comunità solo perché vivono fianco a fianco nello stesso edificio. Ci ricordavamo costantemente che la dimensione comunitaria era una priorità e che il nostro apostolato sarebbe scaturito da questa solida base.

Pensare e riflettere sulla formazione è stato un dono supplementare. Attraverso la nostra riflessione ci siamo resi conto che volevamo trasmettere soprattutto la vita e non solo i costumi. Ho imparato concretamente il rischio di invitare le persone a diventare membri di un gruppo piuttosto che condurre le persone in un cammino di discepolato. Questa riflessione comune è stata essa stessa una formazione vitale della comunità. Alla fine, è nato il nostro documento di formazione, «Una vita di trasformazione», e, realmente, l’intera comunità si è appropriata di questa formazione; sicuramente siamo stati arricchiti da tutta questa esperienza.

La terza esperienza fondamentale è stata il rapporto con la Chiesa in senso ampio e con il luogo nel quale vivevamo. Attraverso i ritiri nel monastero e altrove, attraverso la condivisione con i nostri visitatori e la fiducia che i Vescovi ci hanno testimoniato, ci siamo sentiti parte della Chiesa locale e quindi abbiamo meglio compreso e apprezzato le sfide e i problemi che gli altri affrontavano. Questo è valso anche nel rapporto con i vicini. L’azione caritativa che abbiamo potuto fornire (contributo al finanziamento dell’istruzione dei bambini, alimenti alle famiglie bisognose, un po’ di assistenza medica) ha permesso di rafforzare un rapporto reale con la popolazione locale. La gente della regione conosceva il monastero e conosceva i fratelli. Facevamo parte della loro vita.

Un viaggio di fede, vissuto in un ambiente in cui la fede era vibrante, viva e in crescita, era emozionante e pieno di sfide, ma non era privo di problemi. Ogni giorno dovevamo confidare in Dio. Ciò che ho trovato al mio ritorno in Europa è stata una Chiesa che spesso sembra stanca e invecchiata. Una Chiesa che sembra vincolata alle sue infrastrutture, che troppo spesso affida a se stessa la propria missione. Una Chiesa in cui si parla di numeri in calo piuttosto che di possibilità future. Ritornare in un monastero dalla lunga tradizione sedentaria, di dimensioni più grandi e che affronta un periodo di transizione non è sempre stato facile. Il contrasto tra una piccola comunità in evoluzione, che permetteva la spontaneità e un senso di famiglia, e una comunità impregnata di stili di vita istituzionali mi ha richiesto di essere paziente, umile e sensibile. Il confronto non è mai utile se porta a privilegiare una cosa rispetto a un’altra. Ho imparato a rispettare la differenza e a vederla come un’opportunità e non una minaccia. Ho sempre amato la mia comunità, sia in Zimbabwe che ad Ampleforth. In effetti, una delle lezioni più grandi che ho imparato è che ciò che conta di più è la qualità della nostra vita insieme, non importa dove ci troviamo. La testimonianza di fede che diamo e l’attenzione che ci doniamo gli uni agli altri sono la nostra testimonianza dell’evangelo della vita. Il mio soggiorno in Zimbabwe in un monastero giovane e in pieno sviluppo, tuttavia, mi ha consentito di sognare.

Sogno dunque una famiglia monastica, non solo un insieme di monaci che vivono nello stesso edificio. Una famiglia appassionata per il Vangelo e che apprezza un incontro vivo con Gesù. Discepoli di Gesù la cui vita di preghiera è una porta che attira noi e gli altri nella grande sete di Dio e di servizio al mondo. Una comunità di fratelli che riconosce i doni individuali, i bisogni e i limiti di ciascun membro della sua famiglia, prendendosi cura gli uni degli altri in modo creativo e pratico, lavorando alla costruzione di una comprensione e di una fiducia reciproca. Una comunità dove l’amore non è solamente una parola gentile, ma un’esperienza vissuta e sentita. Una comunità dove lavoriamo per creare un sentimento di appartenenza.

Consiglio AIM ad Ampleforth, novembre 2022. © AIM.

Io sogno una fraternità monastica accogliente e aperta agli altri, in particolare a chi è in ricerca della fede, di senso e dello scopo della vita. Figli di san Benedetto che vedono nella pratica fedele dei voti lo strumento primario di evangelizzazione e hanno la vera missione di introdurre gli altri nella relazione con Cristo. Una comunità che è una risorsa spirituale dinamica per la diocesi e oltre, alla ricerca di opportunità per celebrare la fede con una gamma diversificata di persone. Una comunità che vuole essere santa e incoraggiare gli altri a fare lo stesso. Una comunità che vuole vivere la vita pienamente.

Questo è quello che mi ha dato l’esperienza in una fondazione: la capacità di sognare qualcosa di diverso; la mia esperienza di ritornare dove è iniziata la mia vocazione, ora come abate, è quella di condividere umilmente questo sogno con gli altri.



Suor Josephine Mary Miller

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Grandi Figure della Vita monastica

Suor Marie-Paule Bart, ocbe

Cistercense Bernardina d’Esquermes

 

Suor Josephine Mary Miller

(1948-2022)


Josephine Miller è nata il 16 aprile 1948 a Exeter, nel Devon. Quando era ancora molto giovane, i suoi genitori si trasferirono sulla costa orientale e si stabilirono a Southend-on-Sea, nell’Essex. È questa città, alla foce del Tamigi, che considererà la sua terra natale. Per tutta la vita manterrà un profondo attaccamento a questi luoghi.

Tre figlie femmine comporranno la famiglia: Josephine è la seconda; è stata preceduta da Elizabeth e sarà seguita da Anne. Tutte e tre frequenteranno il St Bernard’s Convent High School a Westcliff-on-Sea. Questa scuola è gestita dai Cistercensi Bernardini di Esquermes.

Il primo contatto di Josephine con i Bernardini avvenne all’età di quattro anni, quando divenne studentessa presso la Lindisfarne Preparatory School, una piccola scuola elementare gestita anch’essa dai Bernardini. Dai suoi racconti sembra che abbia desiderato diventare religiosa sin da bambina. All’età di 18 anni, nel settembre 1966, entrò nel noviziato tra le Bernardine, presso il monastero Notre-Dame de La Plaine, in Francia. Esperienza fondante che lei rilegge così:

«Sono entrata in noviziato in Francia subito dopo il Concilio, quando si cominciava appena a parlare di aggiornamento, meno d’inculturazione.

Essendo inglese e molto giovane, non ero in grado di discernere cosa fosse monastico e cistercense, quale fosse lo stile di vita francese, cosa poteva e doveva cambiare, ero smarrita; con una maestra delle novizie che era molto saggia e molto santa, ma che aveva più di tre volte la mia età. Le nostre conversazioni erano piuttosto brevi! Eppure, il Signore ha preso in mano la situazione; mi ha fatto conoscere le antifone dell’Avvento, poi le antifone “O”, poi i responsori delle veglie di Natale, in latino, avevo trovato la mia strada. Da questa esperienza è iniziato il mio amore per la liturgia, poi per la Bibbia, poi per la vita monastica».

«A mio avviso, quella che ho descritto è un’esperienza molto cistercense, anche se in quel momento non me ne rendevo affatto conto. Il Signore ha preso l’iniziativa, ha ravvivato una fede che cominciava a vacillare, ha donato una prima esperienza di gioia spirituale, mi ha insegnato a gustare, ad assaporare la Parola di Dio senza trascurare l’intelligenza, anche se questo era solo il punto di partenza. È stata un’esperienza cistercense: umana, spirituale e molto semplice»1.

Esperienza sulla quale costruirà tutta la sua vita, arando questo solco con pazienza, con perseveranza, in tutta semplicità.

Suor Josephine Mary, infatti, amava la vita monastica che viveva con tutto il cuore, in modo semplice e autentico. Amava la liturgia di cui si nutriva quotidianamente: le letture, le antifone e le preghiere erano saldamente ancorate nella sua memoria e plasmavano la sua vita quotidiana. Partecipava a questa liturgia comunitaria come cantrice (aveva una bellissima voce) e come animatrice. Per questo ella ebbe un ruolo decisivo nel rinnovamento della liturgia dei Bernardini inglesi negli anni successivi al Concilio Vaticano II. La sua fede era profonda e la sua vita spirituale nutrita dalla passione per gli scritti di san Bernardo.

Sebbene mantenesse un certo riserbo in comunità, suor Josephine Mary possedeva una naturale autorità morale, allo stesso tempo era apprezzata e rispettata dalle sue consorelle. Era molto attenta alle persone, e sapeva ascoltare. Anche consorelle, oblati, amici, altri superiori monastici, clero di altre confessioni religiose ricercavano i suoi consigli, apprezzavano il suo accompagnamento e valorizzavano il suo sostegno. Voleva il meglio per ciascuno, incoraggiandoli nel loro cammino spirituale e umano.

Molto dotata nelle lingue, ha inizialmente insegnato al Saint Bernard’s Convent, Westcliff-on-Sea, poi a Slough, fino alla sua elezione a Priora generale nel 1990. Grande pedagoga, buona insegnante, buona guida, sapeva come tirar fuori il meglio dagli altri, fidandosi di loro pur essendo esigente. Dal 1978 ha servito l’Ordine come maestra delle novizie a Slough dal 1978 al 1990, priora generale dal 1990 al 2008 e priora a Hyning dal 2008 al 2020.

Come priora generale, si occupò del delicato onere della ristrutturazione in Francia, in seguito al calo delle vocazioni: chiusura di un liceo professionale, ritiro dalla comunità di Cambrai e passaggio della scuola sotto la tutela diocesana. Anche in Inghilterra è stato necessario fare un discernimento che ha portato al ritiro della comunità dal St Bernard’s Convent Grammar School a Slough, trasferito alla diocesi, e all’istituzione di una comunità a Brownshill nel Gloucestershire. Allo stesso modo in Giappone, poiché la comunità stava invecchiando, era giunto il momento di cedere le scuole a un’altra congregazione e di trasferire la comunità in un altro luogo.

Ancora più difficile: la preoccupazione per le comunità di Goma e Buhimba durante gli avvenimenti del Ruanda nel 1994, poi in seguito a questi avvenimenti, nel 1996, la fuga delle suore di Buhimba, tra cui alcune impossibili da localizzare per molte settimane, così lontane dalla Casa generalizia... Ha accompagnato e sostenuto anche la ricerca di una nuova sede in Africa e la fondazione del monastero Notre-Dame de Bafor, in Burkina Faso.

Al termine del suo mandato, ha accolto favorevolmente il desiderio delle sorelle del Giappone: che l’Ordine fondasse un altro monastero in Asia affinché il carisma delle Bernardine Cistercensi rimanesse in questo continente e che il monastero del Giappone, scomparendo, potesse ancora dar vita a un nuovo germe. Sarà la successiva Priora generale che attuerà questo progetto.

Suor Josephine Mary scriverà, rileggendo questi anni:

«È stato un periodo molto movimentato... La nostra fede e la nostra speranza sono state messe alla prova, a volte molto duramente, e abbiamo quasi la certezza che continuerà così... Dobbiamo cercare, scoprire gradualmente e insieme le strade che andremo a percorrere. Potremmo facilmente arrenderci e scoraggiarci; mi sembra piuttosto che il Signore ci inviti a tenere duro, a pregare di più, a purificare la nostra fede, ad avere fiducia, a costruire insieme qualcosa di molto modesto, ma autentico»2.

I diversi servizi che le sono stati richiesti, prima nella comunità e nell’Ordine, poi fuori, oltre i confini, le hanno permesso di condividere ampiamente e fraternamente i frutti della sua esperienza nel mondo monastico: relatrice in convegni e sessioni, facilitatore di discernimento comunitario, accompagnatrice in numerose visite regolari sia nei Cistercensi che nei Benedettini, membro di diverse «commissioni di aiuto», relatrice alla sessione dei formatori OSB e Cistercensi a Roma, dieci anni nel Consiglio AIM, di cui cinque anni nel Comitato Esecutivo…

Per lei le comunità dovevano vivere aperte verso la diocesi, la Chiesa universale, attente alle trasformazioni del mondo: donna di fede, ben radicata in Cristo, ha guardato con lucidità ai cambiamenti del nostro tempo, senza disfattismo. Ecco cosa disse nel 2003 ai superiori monastici della Regione di Iles:

«Questa situazione in evoluzione che ci appare minacciosa è, in realtà, una grande grazia,3 se solo avessimo abbastanza fede per vedere la cosa in questo modo. Siamo costretti a ridefinire le nostre priorità e a chiederci come, concretamente, mettiamo la ricerca di Dio al primo posto nella nostra vita quotidiana».

«In altre parole, sarebbe riconoscere che, attraverso ciò che sperimentiamo come “cedimenti”, Dio ci invita a dare conto in modo più esplicito dei valori del Regno, valori che il nostro mondo ha bisogno di vedere»4.

Dopo diciotto anni di priorato generale, fu nominata priora di Hyning, in Inghilterra. Lì continuò lo stesso tipo di servizi: responsabile della Commissione incaricata della revisione delle Costituzioni dell’Ordine, presidente dell’Unione dei Superiori Monastici del Regno Unito e Irlanda (UMS), accompagnatrice di diverse comunità nel cammino di discernimento per un nuovo avvenire, visitatore apostolico di una comunità belga, ecc.

Nel 2018, mentre era ancora priora, come sempre molto attiva nel servizio alla sua comunità, all’Ordine e alla Chiesa, le viene diagnosticato un cancro. Sin dall’inizio le è stato detto che non era curabile. L’ha affrontato con lucidità durante i suoi ultimi quattro anni di vita. Coraggiosa e solidamente appoggiata al Signore quando portava responsabilità pesanti, lo è stata anche durante la malattia. La sua forte fede nella risurrezione e l’accettazione pacifica della volontà di Dio durante tutta la sua vita l’hanno aiutata nelle ultime settimane. La sua personalità ricca e forte si è ammorbidita e semplificata durante il suo ultimo priorato, culmine di una vita donata con tanta generosità alla scuola del servizio divino. È morta serenamente il 16 febbraio 2022 all’hospice St John, a Lancaster, pronta a incontrare il Signore che aveva amato, desiderato e servito così fedelmente.

 

 

 

1. Conferenza tenuta nel maggio 2000 a Lérins sul tema «Formazione».

2. Introduzione al rapporto fatto al Capitolo nel 2002.

3. Il grassetto è mio.

4. Conferenza «Caos e pace» tenuta all’incontro dei superiori monastici della Regione Hawkstone Hall Islands – Inghilterra, ottobre 2003.

Beato Dom Columba Marmion

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Storia e patrimonio

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Omelia in memoria di sant'Aelred

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Relazione sulla sessione Ananie 2022

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Il DIM

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Notizie

Il DIM

Dialogo Interreligioso Monastico


Padre William Skudlareck, osb

Segretario generale

 

 

Nel mese di giugno padre William Skudlareck ha fatto un video con una presentazione all’Assemblea plenaria del Dicastero per il Dialogo interreligioso. Il tema della sessione plenaria di quest’anno era: «Dialogo interreligioso e convivialità». La presentazione si trova nella sezione Video del sito DIM.

Il dialogo permanente del DIM con i musulmani sciiti è ripreso in settembre all’abbazia trappista di Notre-Dame d’Acey (Francia).

A maggio uscirà un nuovo libro su Shigeto Vincent Oshida, op, per le edizioni Liturgical Press. Il titolo sarà: «Gesù nelle mani di Buddha». Il suo autore è Lucien Miller, professore emerito dell’università del Massachusetts, ad Amherst.

Si stanno elaborando dei progetti per stabilire delle commissioni regionali per il DIM nell’Africa dell’Est e dell’Ovest. Ci sarà un incontro monastico-musulmano a Nairobi nel giugno 2023. Sarà indirizzato principalmente a donne che vivono la vita monastica e a musulmane e sarà seguito da sessioni di pianificazione in Tanzania (guidata da padre Maximilian Musindai) e in Senegal (guidata da padre William).

La Commissione DIM per la Gran Bretagna e l’Irlanda è stata riattivata e ha per coordinatore fr. Justin Robinson de Glenstal.

Le Commissioni europee prevedono di riprendere le loro riunioni quest’estate, probabilmente presso l’abbazia di Ligugé (Francia) con una giornata dedicata alla visita al centro della Comunità mondiale per la meditazione cristiana a Bonnevaux, nelle vicinanze, per parlare di un’eventuale collaborazione futura.

Il dott. Mohammad Ali Shomali incontrerà in dicembre il prof. Bernhard A. Eckerstorfer, osb, rettore del Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo, per discutere la possibilità di far frequentare Sant’Anselmo a studenti musulmani.

Due monaci buddisti provenienti dalla Thailandia vivono e studiano a Sant’Anselmo in questo semestre. Sono sostenuti dal Dicastero per il dialogo interreligioso.

La Commissione italiana resta la più attiva tra le Commissioni regionali del DIM.

Si sta riflettendo sulla nomina di un nuovo Segretario generale.

L’associazione AMTM

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Alcuni progetti sostenuti dall’AIM

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