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Bulletin

La vita monastica oggi

125

Bulletin

« Tutta la vita come liturgia »

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Bulletin

I Capitoli generali cistercensi
(OCSO e OCist, sett. e ott. 2022)

123

Bulletin

Vita monastica e sinodalità

122

Bulletin

La gestione della Casa comune

121

Bulletin

Fratelli tutti
La fraternità nella vita monastica

Vita monastica e sinodalità

Estratto del Bollettino dell’AIM • 2022 - No 123

Riepilogo

Editoriale

Dom Jean-Pierre Longeat, osb

Presidente dell’AIM


Prospettive

• Un piccolo inizio del cammino sinodale nell’OCSO

Dom Bernardus Peeters, ocso


• La comunità di Tibhirine: esempio di sinodalità

Marie-Dominique Minassian


• Sfide della vita monastica benedettina nell’Africa occidentale

Suor Thérèse-Benoît Kaboré, osb


Grandi figure della Vita monastica

Une grande badessa del 20° secolo : Madre Pia Gullini

Suor Maria Augusta Tescari, ocso


Notizie

Lo Studium del priorato Sainte-Marie di Bouaké (Costa d’Avorio)

Segratariato dell’AIM

Sommaire

Editoriale

Il bollettino dell’AIM cerca di mettersi in consonanza con i diversi stimoli che vengono dalla vita ecclesiale e da quella del mondo. È questo il motivo per cui il numero che presentiamo si accoda al cammino sinodale sul tema della sinodalità secondo l’impulso dato da Papa Francesco.

La vita monastica ha qualcosa di particolare da dire in merito? Indubbiamente non possiamo sottrarci al dovere di dire qualcosa sull’originalità del nostro particolare apporto. Le tre parole consegnate dalla lettera del cardinal Mario Grech, Segretario generale del Sinodo dei Vescovi, alle comunità monastiche indicano chiaramente ciò che caratterizza il nostro apporto: ascolto, conversione, comunione. Siamo richiamati a quell’ascolto profondo cui siamo invitati sin dal Prologo della Regola e che ritorna continuamente lungo il testo; a una conversione che fa passare dal livello dell’intelletto a quello del cuore per coltivarvi una relazione profonda con la sorgente stessa della vita; infine una vera comunione la cui finalità è quella di armonizzare, a partire da questo evento, tutte le nostre relazioni fraterne, amicali e sociali.

Rivolti tutti insieme verso questo orizzonte, nessuno di noi si può permettere il lusso di non coinvolgersi in questo processo e di resistere, nel caso, a questa tentazione. Per incoraggiarci ad andare avanti in questa direzione, padre Geraldo Gonzáles y Lima, membro della nostra Equipe internazionale, ci presenta l’incontro del Risorto così come è stato vissuto dai pellegrini di Emmaus, condividendo i loro dubbi e le loro domande per ricevere un po’ di luce da Colui che si dona nella sua Parola e nella frazione del pane. Dom Bernardus Peeters condivide con noi le sue prime impres­sioni come nuovo Abate Generale OCSO in cammino con tutto il suo Ordine. Due monache benedettine ci parlano del loro approc­cio al tema della sinodalità secondo la Regola di san Benedetto. Una laica, specialista degli scritti di e su Tibhirine, relaziona sulla bella esperienza di sinodalità fatta dalla comunità algerina.

Diverse rubriche, come sempre, riempiono il resto di questo numero. La dinamica della condivisione in materia di commercio monastico ci permette di cogliere qualche eco della modalità con cui si gestisce l’economia dei monasteri. La Liturgia siro-malabarese dell’abbazia di Kappadu, in Kerala, ci spiazza un po’; la bella figura di Madre Pia Gullini di Laval-Grottaferrata-Vitorchiano ci offre una stimolante testimonianza di vita monastica. Infine, ci viene presen­tata la realtà dello Studium di Bouaké, in Costa d’Avorio, sostenuto dall’AIM.

Come si può vedere, l’apporto monastico alla vita della Chiesa e del mondo è ancora ben vivo. I monaci, le monache, i fratelli e le sorelle della nostra grande famiglia devono prendere sempre più coscienza della loro responsabilità in merito e vigilare sul rischio di limitarsi al campo ristretto della loro comunità locale. Radichiamoci insieme nella Parola di Dio e nel Corpo di Cristo per ampliare la strada su cui camminiamo, con cuore dilatato e in comunione con tutti i nostri fratelli e sorelle che incontriamo sul cammino di questa vita.


Dom Jean-Pierre Longeat, osb

Presidente dell’AIM

Articoli

Lectio divina, sinodalità... e teocrazia

1

Articolo non tradotto. Visualizzazione in francese, inglese o altra lingua.

Un piccolo inizio del cammino sinodale nell’OCSO

2

Prospettive

Dom Bernardus Peeters, ocso

Abate generale

 

Un piccolo inizio del cammino sinodale

nell’OCSO

 

L’11 febbraio 2022, il Capitolo generale dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza, ad Assisi (Italia), mi ha eletto come suo nuovo Abate generale. È un evento che si è svolto in un’impressionante atmosfera di sinodalità, senza che questo tema fosse esplicitamente affrontato. La sintesi presentata alla fine della prima parte del Capitolo riassumeva l’esperienza come segue: in questo capitolo «ci rendiamo conto che nessuna soluzione può dare speranza se non segna l’inizio di un cammino comune, di un percorso sinodale nel quale troviamo unità ed energia alla sequela del Cristo, via, verità e vita, che ci chiama a seguirlo con amore e fiducia».

Benché la sinodalità non sia stata un tema esplicito, essa era senza dubbio nell’aria dal momento che facciamo parte di una Chiesa pienamente impegnata nel processo sinodale che condurrà al sinodo dei Vescovi nel 2023. Il nuovo Abate generale e il suo Consiglio sono dunque stati invitati a iniziare nell’Ordine il processo sinodale. Nel corso degli ultimi mesi ho incominciato a farlo.

Siccome prevedevamo di celebrare la seconda parte del nostro Capitolo generale nel settembre del 2022, ho detto ai superiori, dopo la mia elezione, che mi sarebbe piaciuto essere presente a tutte le riunioni regionali che avrebbero avuto luogo nel frattempo, per meglio conoscere i superiori dell’Ordine ma anche per ascoltare quanto essi considerano importante in questo momento per la vita dell’Ordine. Ho dato la mia parola e così, il 20 maggio, ho lasciato Roma per un viaggio di sei settimane, in modo da partecipare a diverse riunioni regionali, in Inghilterra, in Belgio, in Francia, in Canada, negli Stati Uniti e in Spagna. L’accento era posto soprattutto sugli incontri dei superiori e meno sulla visita delle singole comunità, anche se alcune di queste sono state ugualmente visitate nel corso di questo viaggio.

Precedentemente avevo domandato alle riunioni regionali di condividere tra loro e con me i loro sogni sull’avvenire dell’Ordine. Affinché questi sogni non fossero fuori dalla realtà, ho anche domandato loro di condividere il modo in cui intravedono la realizzazione di questi sogni nello spirito di una Chiesa sinodale nella quale la partecipazione e la corresponsabilità sono essenziali (Documento di preparazione, 20 e VIII). Ascoltiamo con lo Spirito Santo che ci ha donato il carisma che è a noi proprio, attraverso la Parola e la Tradizione, nel desiderio non di un’altra vita cistercense, ma di una vita cistercense rinnovata.

Sono pervenuto a questa richiesta, perché, durante la prima parte del Capitolo generale, ho letto il libretto di Papa Francesco «Let us dream. The path to a better future» (Simon & Schuster, New York, 2020)1. Ha scritto questo libretto in piena pandemia e vi afferma che i sogni possono aiutarci a uscire dalla crisi. In una triplice maniera, i sogni ci aiutano a guardare in faccia la realtà e a intravedere delle nuove aperture verso un nuovo avvenire. Vedere - scegliere - agire sono le tre tappe che noi dobbiamo raggiungere a partire dai nostri sogni.

«È il momento di sognare in grande, di ripensare le nostre priorità – quello che noi apprezziamo, quello che vogliamo, quello che ricerchiamo – e di impegnarci ad agire nella nostra vita quotidiana in base a quanto abbiamo sognato. Quello che intendo dire in questo momento è simile a quanto Isaia si sente dire dal Signore: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore”. Osiamo sognare» (Prologo).

Questo si è rivelato essere un buon strumento di lavoro affinché i superiori si parlino in modo completamente nuovo. Normalmente le riunioni regionali si caratterizzano per la condivisione dei rapporti sulla situazione nelle comunità. Spesso questa rimane molto esteriore, perché rendersi vulnerabili gli uni con gli altri permane un compito difficile anche per i superiori. In tutte le riunioni regionali nel corso del mio viaggio la stessa esperienza ha rivelato che la condivisione dei sogni di ciascuno conduce le persone presenti a un altro livello. Non c’era alcuna intenzione di litigare o di sfidare i sogni dell’altro. Solo un esercizio di ascolto, nel rispetto del proprio vedere, scegliere e agire. La mia intenzione è di raccogliere tutti questi sogni e, a partire da questi, di pronunciare un discorso di apertura per la seconda parte del nostro Capitolo generale in settembre. Questo processo di sogno è una prima tappa nel percorso sinodale che abbiamo cominciato nell’Ordine. È cominciato molto timidamente, perché sognare non è forse un po’ fuori dalla realtà? Ma nel frattempo, numerose comunità si sono impadronite della questione e hanno già cominciato a sognare e ad ascoltare i sogni degli altri. Bisognerà ancora fare dei passi nel cammino sinodale, ma abbiamo tempo. Si sente spesso dire che la vita monastica è sinodale per natura sua. Sì, è sicuramente vero, ma, come ho già detto alla fine della prima parte del Capitolo generale, è talvolta bene riscoprire ciò che si ha. E confessiamolo, la sinodalità è certo presente nelle nostre strutture, ma noi la utilizziamo veramente?

«È vero, l’ascolto è onnipresente nella Regola, ma noi ascoltiamo davvero Dio nella nostra preghiera, nella nostra lectio e nel nostro lavoro? Siamo noi, in qualità di superiori, dei buoni ascoltatori degli uni e degli altri nella comunità, o non ascoltiamo forse solo un gruppo privi­legiato di fratelli o di sorelle? È facile dire che ascoltiamo i più giovani ma lo facciamo davvero in concreto? Come ascoltiamo la Chiesa locale alla quale apparteniamo? Che ne è del nostro ascolto di coloro che bussano alla nostra porta? Sono veramente il Cristo o ci disturbano? Questo Capitolo generale mi ha convinto che abbiamo ancora la capacità di ascoltare. Questo è possibile, perché abbiamo ricevuto con il nostro Battesimo, senza eccezioni, questo dono dello Spirito Santo. Esso è stato confermato nella nostra Cresima e si alimenta quoti­dianamente nell’Eucaristia. Il mio sogno, per noi tutti, sarà che diventiamo dei veri ascoltatori! Ma attenzione, questo esige da noi tutti la conversione!» (Discorso di chiusura della prima parte del Capitolo generale 2022).

È ancora troppo presto per tirare le conclusioni di questo viaggio attraverso i sogni dei diversi gruppi regionali. Mentre scrivo, mi resta ancora da visitarne qualcuno e tra essi si trovano le tre grandi regioni dell’emisfero sud. Un riassunto o una conclusione sarebbero dunque premature e direbbero un’attitudine non sinodale. Tanto più che ho l’ambizione di coinvolgere proprio quelle regioni nella direzione che deve prendere l’Ordine.

Questo primo grande viaggio conferma il sentimento generale della prima parte del Capitolo generale, che cioè dobbiamo dare più attenzione a una crescita personale e comunitaria dall’“io” al “noi”. Maria ci mostra il cammino necessario per dei buoni cistercensi.

Alla fine della prima parte del Capitolo generale ho donato ai superiori l’icona di Maria Vergine del silenzio, perché ci accompagni nel cammino sinodale e nell’ascolto, vivendo i tre movimenti di questa icona: fermatevi, calmatevi e attendete!


[1] Edizione italiana: Ritorniamo a sognare. La strada verso un futuro migliore, ed. Piemme, Segrate (MI) 2020.

La regola di Benedetto e la sinodalità

3

Articolo non tradotto. Visualizzazione in francese, inglese o altra lingua.

Ascoltare con l'orecchio del cuore

4

Articolo non tradotto. Vedere in francese, inglese o tedesco.

La comunità di Tibhirine: esempio di sinodalità

5

Prospettive

 Marie-Dominique Minassian

 

La comunità di Tibhirine:

esempio di sinodalità[1]

 

Memoriale dei fratelli di Thibirine all’abbazia di Aiguebelle (Francia).

 

«Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione»[2].

 

Papa Francesco, rivolgendosi alla sua diocesi di Roma, spiega, in termini semplici e tuttavia incisivi, la presa di coscienza che vorrebbe far vivere a tutta la Chiesa. La sinodalità dice qualcosa di noi, della nostra identità, di questo «tra di noi» che dobbiamo far crescere per poi estenderlo.

Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, con la consapevolezza che ascoltare «è più che sentire». È un ascolto reciproco dove ciascuno ha qualcosa da imparare[3]. Questo ci orienta immediatamente nella direzione di ciò che c’è da sentire, del modo in cui ascoltiamo e in cui comunichiamo. Sono solo parole quelle che ci scambiamo, parole che passano dall’uno all’altro o c’è molto di più? Per esplicitare il modello di sinodalità che vorrebbe promuovere nella vita della Chiesa, Papa Francesco ci offre un esempio nella persona di un santo a lui caro: san Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la voce dei poveri, ha ascoltato la voce dei malati, ha ascoltato la voce della natura. E ha trasformato tutto in uno stile di vita»[4].


L’ascolto della Parola

È qui che cominciamo a intravedere un parallelo tra san Francesco e Tibhirine. Perché anche Tibhirine è uno stile di vita, una vita di ascolto. Nella misura in cui frequentiamo gli scritti che ci rivelano questa spiritualità, ci accorgiamo che nella loro esperienza la cosa più importante è stata l’ascolto della Parola di Dio. Per dei monaci in questo non c’è nulla di originale... Tuttavia, i monaci sono un richiamo permanente per tutta la Chiesa a ciò che è essenziale nella vita cristiana: vivere a partire da un Altro, incontrato per primo, come il più importante, in questa Parola che arriva fino a noi.

Ecco un primo testo di Christian de Chergé, il priore della comunità, che condivide con noi un po’ della sua esperienza della Parola:

«La Parola di Dio è un pozzo. Ogni parola, ciascuna parola... Nel deserto del nostro linguaggio ci sono delle “parole vuote” e ci sono anche dei “pozzi”; (come il rubinetto dell’acqua tiepida, la parola fredda o calda), la parola a fior di labbra e la parola dal cuore. Chi vuole ascoltare Dio scoprirà questi pozzi, ciascuno il suo. La Parola si consegna, ma poi bisogna anche scavarla, sondarla…»[5].

Dal momento in cui ci avventuriamo sull’orlo di questo pozzo, entriamo nel dinamismo della Parola che viene a rivelare le parole che ci abitano. Siamo dalla parte dell’acqua tiepida, dell’acqua fredda o dell’acqua calda? Di cosa sono piene le nostre parole? È una domanda davanti alla quale la Parola ci pone costantemente. Siamo davvero un luogo di incarnazione per la Parola? Corrispondiamo all’Amore che ci chiama quando la leggiamo o quando la ascoltiamo?

Ascoltiamo ancora fratel Christian in un Capitolo ai suoi fratelli:

«È lui [Dio] che ascoltiamo (Parola), è lui che celebriamo, è la sua opera che vogliamo fare. Ciò significa che si impara a FARSI DA PARTE: ci si coinvolge totalmente senza prenderne il posto. La Parola ha corso il rischio di affidarsi a noi... non perché la rinchiudiamo nel nostro senso (sarebbe un contro-senso), né nel nostro modo di leggerla come se fossimo noi a doverla rendere viva. Essa VIVE, molto più di noi. Non siamo noi a doverle dare il soffio... ma dobbiamo piuttosto lasciare intuire che essa è veramente il nostro SOFFIO»[6].

Quando apriamo il libro, quello che ci giunge è davvero il soffio di un altro. Come la vela di una barca che si gonfia, non siamo noi a fare avanzare la barca, è appunto il soffio, il vento. A noi di esporci, di accettare di lasciarci portare da questo vento, questo soffio che è quello dello Spirito. Fratel Christophe, il più giovane della comunità, porta avanti la stessa idea a modo suo:

«Rimanere nella tua parola: non ripeterla obbedientemente come una lezione imparata, ma abitarla, radicarsi in essa, viverne, nutrirsene al punto di essere a poco a poco conformati ad essa, di sposarne il movimento, il Soffio»[7].

Dunque, a che cosa dobbiamo disporci quando apriamo il libro? Dobbiamo disporci a una conversione, a un movimento profondo di conversione all’altro: un esodo e una conversione a tutti.

Ritorniamo a fratel Christian che, in un altro Capitolo ai suoi fratelli, ci permette di fare un passo ulteriore:

«Oggetto della lectio: un mezzo privilegiato alla scuola della contemplazione e per il risveglio della “fede nella realtà della presenza di Dio in sé e attorno a sé”. Essa è “fonte di preghiera continua” che è unione del cuore con Dio che parla al cuore. “Scopri il cuore di Dio nella Parola di Dio” (san Gregorio). Il risultato? Chi legge riceve la grazia di incarnare la Parola nella propria vita e questa ne sarà totalmente trasformata. Cf. la domanda di Gesù allo scriba: “Che cosa leggi nella Scrittura? Che cosa c’è scritto?”. La TOB traduce anche “Come leggi?” (Lc 10,26)... Fa’ questo e avrai la vita […]. “Conformiamoci interiormente alla Scrittura”, dice san Bernardo. E Isacco della Stella: “Cristo sia per noi il Libro scritto sul lato interno e su quello esterno… Presentate agli altri la vostra vita da leggere!”. Una vera e propria ascesi dell’intelligenza e del comportamento»[8].

Un testo lungo, molto denso: facciamo qualche sottolineatura...

Anzitutto, più leggiamo la Parola di Dio, più entriamo nel mistero di una Presenza: la realtà della presenza di Dio in noi. A poco a poco diventiamo sempre più sensibili a questa presenza di Dio in noi, ma anche intorno a noi. La sensibilità dell’orecchio interiore acuisce l’ascolto esterno. Scopriamo che Dio parla... e lo fa attraverso gli altri, e anche attraverso gli avvenimenti...

Seconda sottolineatura: più leggiamo la Parola di Dio, più riceviamo la grazia, se ci crediamo, di incarnare ciò che questa Parola vuole dire alla nostra vita, e di condividere ciò che questa Parola vuol far fruttificare nella nostra vita.

E infine: «Presentate agli altri la vostra vita da leggere!». Mi sembra che dobbiamo ritrovare in questo la forza e il desiderio della testimonianza, qualcosa che dice con naturalezza, che “traspira” Dio, e che conduce gli altri a porsi la domanda sulla sorgente profonda della nostra esistenza. Frère Roger di Taizé adoperava questa bella esortazione: «Non parlate di Dio se non vi fanno domande, ma vivete in modo che vi facciano domande».

Ogni giorno, quindi, siamo sfidati ad ascoltare: «Oggi ascoltate la sua voce» (Sal 94) ci invita ogni mattina il salmista nell’ufficio delle Vigilie… Fratel Christian commenta ai suoi fratelli:

«È OGGI che la Parola si leggerà nell’OGGI di Dio, è anche oggi che bisogna riceverla, ASCOLTARLA. Eternamente il Padre dice del Verbo: Io, oggi, ti ho generato! Nel mistero dell’Incarnazione, questa generazione del Verbo si compie in tutti coloro che sono nati da Dio perché lo hanno accolto ogni oggi. Questo salmo ci ricorda che l’eternità ha solo l’oggi per rivelarsi, incarnarsi»[9].

«È oggi che la Parola si leggerà nell’oggi di Dio». La formula è molto elegante... ci sono come “due oggi”: il nostro e quello di Dio, e tutta la grazia da ricevere e da vivere è che i due oggi diventino uno solo. E quando i due oggi coincidono, questo è ciò che crea eternità.

L’eternità non ha che l’oggi per rivelarsi e incarnarsi. Fratel Christian lo ricorda spesso nei suoi scritti. È una bella missione, sia personale sia comunitaria. Perché fratel Christian insiste su questo “oggi”?

«Trascorriamo il nostro tempo in comunità a leggere e rileggere la Parola; la liturgia ce la presenta anno dopo anno, e possiamo avere l’impressione di conoscere questi testi a memoria! Perché leggerli e rileggerli, se non perché dobbiamo riceverli oggi? La Parola non cambia, siamo noi che cambiamo... Allora la Parola che non cambia potrà quindi dire qualcosa di nuovo a noi che cambiamo... vi ascolteremo qualcosa di diverso per la nostra vita di oggi. Ed è ogni giorno che la Parola viene a sollecitare il nostro cuore per risvegliarlo. Sta a noi assaporare sempre di più ciò che vi è di unico nel nostro oggi»[10].

Che meraviglia! Qui sentiamo il contemplativo che ci invita ad abitare la nostra vita così com’è. E sappiamo che l’“oggi” a Tibhirine non è stato sempre facile. È stato anche estremamente difficile, tragico, e fino alla fine, sotto la pressione degli eventi. Possiamo dunque ricevere queste parole con sullo sfondo la loro storia ad attestare che nei loro scritti e nella loro esperienza non ci sono soltanto poesia o mistica. Vi è un realismo e un segreto spirituale per farci attraversare il tutto della nostra esistenza con il suo peso di gioie e di dolori. Vi è in ciò una vitalità che può raggiungerci in ogni momento durante la lettura della Parola: è lo Spirito Santo. Fratel Christian ci spiega...

«Lo Spirito Santo è la vita di Dio. È la vita del Verbo. È dunque lui che “dà vita” alla Parola di Dio... che conserva la vita di questo linguaggio umano affidato alla fede della Chiesa perché vi scopra incessantemente il parlare di Dio. Come ogni vita, essa è fatta per essere donata, per essere ricevuta, per essere vissuta. Dipende da noi che questa Parola sia per noi, e nel mondo di oggi “Parola di vita” o, al contrario, “lettera morta”».

Più leggiamo la Parola, più ci familiarizziamo con il modo di parlare di Dio. Sappiamo bene che Egli parla in molti modi nella Bibbia. Sta quindi a noi scegliere, di entrare in connivenza con questo “parlare di Dio” perché, appunto, questa Parola divenga la parola di vita che gli altri attendono, perché ne hanno bisogno. Ecco la nostra missione: offrire ciò di cui gli altri hanno bisogno. E Dio conta su di noi per farlo.

Ancora una volta, un certo realismo ci è offerto in queste righe del priore di Tibhirine:

«Il ritorno alla Parola è impegnativo. Implica una “lectio”, vale a dire un’accoglienza dello Spirito Santo con, all’inizio, questo atteggiamento di povertà, di ascolto, di silenzio interiore che solo può fare di “questa” Parola la nostra “vita” di oggi. Fratel Henri [Vergès][11], diceva a fratel Michel: ciò che ci si aspetta da voi sono testi, parole che sono state meditate (siano i salmi, le letture o le intenzioni dell’Ufficio, le introduzioni o le omelie della Messa). Questo vuol anche dire che se è legittimo basarsi su quanto altri hanno scritto, predicato, pensato sui testi che dobbiamo commentare (e non esito a farlo), è sempre necessario, affinché la nostra parola sia viva e dia vita, che essa sia il frutto del nostro vissuto, che vi si mescoli qualcosa del nostro sangue»[12].

Si potrebbe pensare che questa riflessione riguardi solo i sacerdoti, ma in realtà, dovendo “presentare la nostra vita da LEGGERE agli altri”, tutta la nostra vita può diventare, sotto l’azione dello Spirito Santo, una predicazione. Tuttavia, ci sono diverse condizioni perché ciò avvenga.

Prima di tutto, accogliere davvero lo Spirito Santo in noi, credere alla sua azione. Perché la posta in gioco è diventare una parola di vita per gli altri. E per questo, bisogna che qualcosa del nostro sangue si mescoli alla nostra parola. Per sfuggire alle parole vuote, bisogna lasciare che lo Spirito Santo prenda possesso della nostra vita e permettere alla Parola di condurci in quei luoghi di noi stessi mai visitati che hanno bisogno di conversione affinché la potenza dell’amore si manifesti nella nostra debolezza. C’è, dunque, nello Spirito, questa forza capace di metterci in cammino, di metterci sulla strada, e con ciò di renderci attenti davanti alla parola dell’altro.


L’ascolto reciproco

Passiamo poi alla seconda dimensione dell’ascolto: l’ascolto reciproco. Riprendiamo il filo della nostra riflessione con Papa Francesco:

«Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. […] Lo Spirito Santo ha bisogno di noi. Ascoltatelo ascoltandovi»[13].

Potremmo essere tentati di dire che è una visione piuttosto orizzontale, ma è proprio il contrario: è una visione teologale delle nostre relazioni. Quando abbiamo ricevuto lo Spirito Santo nella Parola di Dio, le nostre orecchie e il nostro cuore si aprono e si uniscono per ascoltare più ampiamente e fare “lettura divina” degli altri, che diventano a loro volta per noi una parola da parte di Dio.

«Ciascuno può partecipare a questo sforzo di traduzione continua della Parola. […] Non riusciremo mai a fare una foto dello Spirito Santo. Nella diversità dei nostri temperamenti e delle nostre culture, ognuno di noi ha qualcosa da dire su questa Parola che è la sua Vita»[14].

È proprio questo che cerchiamo di vivere come cristiani: una continua traduzione della Parola. Fratel Christian ha un’altra bella formula per dire che cos’è la Chiesa: «La Chiesa è l’incarnazione continua». Che bello! Facciamo in modo che l’Incarnazione continui ad essere vera, in noi e tra noi. È serio e importante. Ritorniamo dunque spesso a questo invito. Ma non perdiamo mai di vista, per non essere schiacciati, che è lo Spirito Santo l’agente delle nostre buone relazioni!

Perché questa traduzione sia attiva, dobbiamo allargare la nostra attenzione per entrare in questa ricchezza dello Spirito Santo che parla in ciascuno di noi. Non lasciare nessuno da parte: questo inizia a diventare difficile perché abbiamo tendenze – molto naturali – a ripiegarci quando non ci riconosciamo veramente in quello che viene detto dagli altri. In questo sforzo di traduzione – che è un processo – l’essenziale è custodire sempre nel cuore il desiderio di essere insieme questa Parola, di essere personalmente e insieme aderenti a questa Parola di vita, e dunque in continua conversione, in ascolto di questa differenza che ci obbliga e ci spinge gli uni attraverso gli altri verso l’Unico.

«È con la bontà che l’uomo è chiamato a dominare l’universo, ma allontanandosi dal bene ha ceduto alla tentazione e all’illusione della forza. E questa confessione della bontà di Dio si ripercuote nell’accoglienza del proprio simile: Questa è carne della mia carne... Dio ha bisogno anche della mia conversione all’altro per continuare a crearmi liberamente a sua immagine, uomo e donna, di generazione in generazione»[15].

Questo brano del Capitolo è molto importante, perché sottolinea il criterio di buona salute nelle nostre comunità, che è appunto «l’accoglienza del simile». In fondo, più io sono accogliente, più le nostre comunità sono accoglienti, e più siamo in questa confessione della bontà di Dio, e viceversa. Questa è la salute spirituale. Implica una conversione permanente all’altro. Che esigenza! Tibhirine era una piccola comunità… meno di dieci fratelli, dunque: impossibile fuggire! Del resto, si diceva volentieri che questa comunità era “impossibile”, con temperamenti forti, estrazioni sociali diverse, teologie diverse, opzioni diverse… e tuttavia, hanno fatto corpo, hanno fatto comunità… e che comunità! Dunque tutto è possibile nella forza, nell’adesione che lo Spirito Santo ci offre per entrare in questa conversione permanente agli altri. Il priore di Tibhirine ha un bel modo di esprimerlo:

«Quello che si cerca tra di noi, nelle nostre comunità, non è a fior di pelle, e nemmeno a fior di cuore. Finiamo per sapere che scorre in profondità dentro di noi!

Perciò, non c’è contemplazione possibile se non dove esiste apertura alla comunità di vita, alla comunione, all’intera famiglia umana...

E non c’è comunità possibile se non dove c’è disponibilità a contemplare le meraviglie di Dio nascoste in ciascuno, i segni dell’Unico che si scrivono sui nostri volti come altrettante differenze promesse alla comunione dei santi.

Anche se è ancora necessario che, per un po’ di tempo, ci sia difficile da vedere»[16].

Che lucidità! Certo, non è facile da vedere! Questo sguardo contemplativo, al quale Christian ci invita, può salvarci da molte cose. Evidentemente va ben al di là di uno sguardo superficiale o di una reazione epidermica. Si va molto più in profondità, alla radice di ciò che ci permette di guardare attentamente l’altro, di vederlo in questa luce della sua identità più vera.

«Perché siamo tutti fatti di carne e sangue, siamo tutti membra del Corpo di Cristo in divenire. In ognuno di noi il Verbo vuole farsi carne, vale a dire che ogni fratello secondo la carne può ridiventare per me Parola di Dio»[17].

Questa citazione ci interpella e ciò a cui tende deve ancora poter fare un percorso dentro di noi: chiede di crederci. Credere che ci sia crescita, che le cose si muovano. Questo significa che non puoi “congelare” nessuno, che non puoi mettere nessuno sotto vetro: l’altro ha sempre la capacità di crescere, di essere più grande anche dell’immagine che attualmente mi faccio di lui. È piuttosto una buona notizia: «Ogni fratello secondo la carne può ridiventare per me Parola di Dio» ricordava, giustamente, fratel Christian. Tuttavia, il suo realismo ci raggiunge ancora in questo nuovo brano:

«Non stupiamoci che la Parola sia dura da accogliere e che ci conduca sempre oltre le nostre sponde o i nostri punti di appoggio. Verrà il giorno in cui, smettendo di annaspare, accetteremo definitivamente di non toccare il fondo, e sarà la vita.

Non stupirsi che l’altro abbia una parola da trasmetterci e che si faccia, in nome di Dio, prossimo a me. Se accolgo questa parola che è vita per lui, mi espongo a scoprire in essa un’eco del Verbo unico ed eterno. Comunione profonda tra due esseri quando sono diventati veramente nutrimento l’uno per l’altro e sono portati a tacere insieme perché la parola che li unisce è spirito e vita, ed è Presenza reale inesprimibile.

Non c’è da meravigliarsi neppure che questo fratello sia una Parola dura da comprendere e che sia necessario superare molte mormorazioni interiori o esteriori prima che si crei tra noi il clima d’amore che gli permetterà di consegnarsi in ciò che ha di meglio e di eterno»[18].

Quando ci si avventura a seguire il Vangelo fin nella sua radicalità, bisogna quindi disporsi a un viaggio, a lasciare gli ormeggi, lontano dalle nostre zone di comfort! È un tema caro anche a Papa Francesco. Le periferie non sono soltanto le periferie esteriori, ci sono le nostre periferie interiori. Bisogna andare a raggiungere anche loro. Prepariamoci dunque a un viaggio per andare ad ascoltare fino in fondo questi echi del Verbo. Il Vaticano II ci ha offerto una formula interessante. I Padri conciliari parlavano di questi “semi del Verbo”, lì nascosti, affidati al nostro ascolto. Bisogna poterli riscoprire in tutte le cose, in ogni persona.

Ma bisogna pure riconoscere che non si vede subito il nostro fratello, la nostra sorella come una Parola di Dio. Le mormorazioni interne, anche se non si verbalizzano, esistono nel più profondo di noi e non bisogna rassegnarsi a questo, ma perseverare davvero per contribuire a questo clima d’amore. Fratel Christophe ha un modo molto bello di formulare questo desiderio, che ci può ispirare: «Vorrei raggiungere quella terra pacificata dove prego il Padre Nostro senza dimenticare nessuno».

Forse questo può invitarci a entrare in quella benevolenza che ci permetterà di vedere, di discernere nell’altro ciò che vi è di migliore e di eterno. Anche qui il modo monastico di viverla è illuminante:

«L’ascolto reciproco è un giusto equilibrio tra parola e silenzio […]. Perché anche la parola è un valore monastico (non le chiacchiere o la parola che fa rumore...).

Sono abbastanza “cristiano”, “cordiale” con ogni fratello? Ciò non esclude le tensioni, le divergenze dei punti di vista. Mio fratello è sempre più grande dell’idea che me ne faccio. Nel peggiore dei casi: vale molto di più dell’idea che ha di me!

Ho il coraggio della correzione fraterna evangelica: vai a cercare tuo fratello... guadagnalo (Mt 18,15ss)?

Qual è il tenore della parola, il colore delle parole che io penso (senza necessariamente dirlo), che mi abitano?»[19].

Che cosa immettiamo nell’atmosfera con i nostri pensieri, con le nostre parole...?

Quanto alla correzione fraterna, è difficile, e ne parliamo raramente... addirittura ripugna. Sono io il custode di mio fratello? Sì, siamo i custodi del nostro fratello, della nostra sorella. Resta da trovare questo clima di amore interiore, questa terra pacificata, che ci permetterà di trovare l’atteggiamento e la parola giusta. Esercizio difficile, ma a cui non bisogna rinunciare. In fondo, il più grande realismo per un cristiano è quello della speranza:

«Assumere la speranza sarà sperimentare la risurrezione operante in tutte le realtà umane, anche le più opache, anche quelle che apparentemente subiamo. […]Là dove si intraprende un dialogo per far nascere un nuovo linguaggio.

Là dove la paura è presa di petto, disarmata come si incanta un serpente.

Là dove si inghiottono bocconi amari e parole velenose senza modificare le ragioni profonde che si hanno per amare lo stesso.

Là dove la malattia diventa un luogo di incontro, di condivisione, di sollecitudine, luogo di purificazione, luogo di un SÌ alla salute di Dio»[20].

Sperimentare la risurrezione, questo può essere un bell’invito: la risurrezione è all’opera nella mia vita? Dove la vedo guadagnare terreno in me? Fratel Christian ci dà alcuni elementi di risposta: dovunque c’è del dialogo, quindi, dovunque possiamo mettere più dialogo, ci sarà più comunità, ci sarà più vita, più risurrezione; ovunque la paura perde terreno, ovunque la affrontiamo, la disarmiamo. Non è più lei a prendere il sopravvento, siamo noi che la soffochiamo, e lì la vita può riprendere. Che cosa ci governa? Il contrario della paura non è il coraggio, ma è la fiducia… Accampati sul terreno della fiducia, possiamo allora resistere su un altro registro: quello della parola.

E là dove si inghiottono bocconi amari e parole velenose – ce ne sono dappertutto! – come disarmarsi? Ebbene: amando comunque. L’abbé Pierre usava questa formula ricorrente: «Amare comunque… malgrado tutto». Soprattutto, non abbandonare questa missione di amare comunque. Questo ci mantiene in salute spirituale ed è un sì franco e pieno alla salute di Dio in noi, come una speranza ostinata. Fratel Christian sviluppa molto questo aspetto della speranza nei suoi diversi messaggi:

«In definitiva, è questo piano della speranza che ricoprirà tutti gli altri e si può considerare la pazienza come l’espressione quotidiana, come l’espressione in qualche modo l’incarnazione della “piccola speranza”. E più ci sarà, più bisognerà consacrarvi della pazienza! Non stupiamoci, allora, che la vita religiosa nel suo insieme, posta in un’orbita di speranza per il Regno che viene, sia il crogiuolo per eccellenza delle più svariate e raffinate pazienze. Paolo VI lo affermava tra le righe quando definiva la carità nella vita comunitaria (Evangelica Testificatio, 39) come una speranza attiva di ciò che gli altri possono diventare con l’aiuto del nostro fraterno sostegno. “Il segno della sua verità si trova nella beata semplicità con cui tutti si sforzano di comprendere ciò che è caro a ciascuno”»[21].

Qui entriamo nel “nocciolo duro” di ciò che è l’ascolto reciproco: cercare di andare incontro a ciò che sta a cuore a ciascuno. Siamo lontani dall’“epidermide”! Bisogna scavare la Parola di Dio che è mio fratello, mia sorella; avere questo desiderio profondo di incontrarli, e così aiutarli anche a scoprirsi e a divenire sempre più fratello, sorella. Abbiamo una parte attiva in questa crescita, come custodi.

Questo è il nostro lavoro di speranza su noi stessi – mai disperare di essere veramente fratello, veramente sorella –, ma anche sull’altro: rimanere in questo clima di amore, di speranza, di carità e sentire la comunità crescere in sé e attorno a sé.


L’ascolto degli avvenimenti

Quanto più cresciamo nell’ascolto della Parola di Dio che ci trasforma, tanto più essa ci aiuta a incontrare e a vedere l’altro come una parola per noi. Ancor più: questo ascolto diviene ampio, abbraccia la totalità del reale e tutto ciò che ci capita. Così, gradualmente, sono anche gli avvenimenti che diventano per noi una parola significativa e il nostro cammino verso Dio.

Ascoltiamo ancora Papa Francesco:

«Ma occorre uscire dal 3-4% che rappresenta i più vicini, e andare oltre per ascoltare gli altri, i quali a volte vi insulteranno, vi cacceranno via, ma è necessario sentire cosa pensano, senza volere imporre le nostre cose: lasciare che lo Spirito ci parli»[22].

È interessante... Limitarsi ai 3-4% che ci circondano e che ci sono vicini, è realmente privarsi di gran parte della realtà... L’idea sostenuta dal Papa è quindi quella di andare incontro al 96% che ci manca – le famose periferie –, con la vera consapevolezza che questi altri ci mancano profondamente. Questo ci aiuta anche a comprendere una dimensione essenziale della Chiesa: la cattolicità.

«Non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i confini. Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio»[23].

È un pensiero molto seducente: essere Chiesa è «entrare nella ampiezza di Dio»! Ci vuole flessibilità, sapersi allungare, elevare e accogliere Dio così com’è: più grande del nostro cuore. Una nuova citazione ci permetterà di percepire il modo in cui la comunità di Tibhirine ha vissuto questo:

«Avrete sicuramente notato che egli [Mons. Teissier] ha parlato del significato della nostra presenza, se ha la possibilità di attraversare questa dolorosa crisi “nel suo contesto”. Questo riferimento al nostro vicinato è giustizia: non possiamo essere segno di un dono se loro non sono lì ad accoglierlo, a desiderarlo. O meglio... non possiamo pretendere di dare loro Gesù, in alcun modo, senza ricevere Gesù da loro, in qualche modo. Anche questo fa parte del condizionamento dell’Incarnazione. C’è reciproca interdipendenza. Molti non hanno ricevuto Gesù... ma a coloro che lo hanno accolto, ha dato di divenire ciò che lui stesso era, non solo cristiani, ma molto più di questo, figli di Dio»[24].

«Entrare nella ampiezza di Dio» significa che non siamo “cristiani”, “musulmani”, “buddisti”… siamo in definitiva, essenzialmente, “figli di Dio”. E lì, c’è un solo campo: quello degli amati da Dio. Ritorniamo alla prospettiva dell’ascolto reciproco. Dobbiamo poter ricevere la vita di Dio da tutti questi altri, da quel 96% che ci aspetta fuori dal nostro cerchio di prossimità.

Che cosa ha dato tutto questo di molto concreto alla storia dei monaci di Tibhirine? Ogni anno, nella lettera circolare indirizzata a parenti, amici e vicini della comunità, possiamo raccogliere alcune delle “audacie”, frutto di questo ascolto del contesto in cui vivevano, che li ha portati a vivere cose a volte sorprendenti.

«Ed ecco che in Capitolo “prendiamo” una decisione un po’ rivoluzionaria. Si tratta di offrire due stanze di un edificio quasi disabitato alle Piccole Sorelle di Gesù che cercano un luogo adatto e sicuro per una fraternità di riposo e di preghiera dove le Piccole Sorelle della Regione, quelle del Sahara in particolare, potranno venire a ricuperare le forze durante la stagione calda. La nostra clausura diventa mista, certamente, ma la sua vocazione contemplativa è così moltiplicata per due (almeno!). Il cardinale, interpellato, è stato categorico: “È la soluzione migliore... Ovviamente, cinque anni fa, vi avrei detto... (?) Ma no! Cinque anni fa non vi sareste nemmeno sognati di sottopormi una simile domanda!”. Ed è vero, ovviamente»[25].

Siamo nel 1977, in ambiente musulmano… una comunità contemplativa di uomini che fanno posto dentro la clausura, in un’ala dei loro edifici, per accogliere le Piccole Sorelle di Gesù… C’è un momento favorevole, un ascolto dello Spirito che rende le cose mature.

Secondo esempio:

«Il Ribât (“legame di pace”) prosegue la sua corsa da quasi dieci anni, unendo i cristiani che vogliono essere direttamente attenti alle dimensioni spirituali della vita dei musulmani, integrando nel suo cammino e nella sua preghiera i nostri fratelli ‘Alawiyyines di Medea. In primavera ci siamo domandati: “In che modo la vita spirituale dell’altro interpella la mia?”»[26].

Questo gruppo, il Ribât, era originariamente un gruppo di cristiani che volevano condividere la loro esperienza del quotidiano vissuto con i musulmani. Abbastanza presto, sono stati raggiunti da alcuni musulmani. Si riunivano due volte all’anno, con, nei sei mesi in cui non si incontravano, una domanda su cui lavorare personalmente in vista di una condivisione. Quell’anno la domanda era: «In che modo la vita spirituale dell’altro interpella la mia?». Poi, avrebbero trascorso insieme due giorni per condividere il frutto della loro esperienza e dell’ascolto profondo del loro quotidiano. Che bella fecondità nello Spirito!

Nuove concretizzazioni...

«… Abbiamo offerto una grande stanza (ex sala d’attesa del suddetto PMI) ai nostri vicini come sala di preghiera, in attesa della costruzione di una moschea prevista per il villaggio. Così, le nostre preghiere coabitano da sei mesi a questa parte nello stesso luogo, e molti di noi pensano, da entrambe le parti, che s’intendano bene anche nel cuore di Dio.

Abbiamo inoltre sviluppato l’esperienza associativa nella coltivazione di parte del terreno “fuori le mura”. Quattro giovani padri di famiglia condividono con noi il lavoro e la vendita di prodotti ortofrutticoli»[27].

Anche qui una originalità: l’accoglienza dei vicini musulmani, perché vengano a pregare in attesa della costruzione della moschea del villaggio. Questa è una solidarietà davvero notevole nella preghiera e nella condivisione. Solidarietà anche sul lavoro, con l’uguaglianza concretizzata in una reciproca collaborazione. È un modo originale se pensiamo che di solito le comunità monastiche si assicurano piuttosto i servizi dei salariati...

Questo ascolto dello Spirito va ancora a scompigliare i fratelli su un altro registro:

«Che cosa chiede Berdine? La presenza in mezzo a loro di un uomo di preghiera (“monaco”) per confermarli e sostenerli nel desiderio di allontanarsi definitivamente dalla spirale della droga, dell’alcool, della deriva… e anche per capirli nelle loro cadute, nelle loro ricadute, nelle loro frenesie e nella loro sete segreta. Padre Jean de la Croix aveva aiutato gli inizi di questa comunità nel 1972, come abate di Aiguebelle. Non aveva smesso di crederci. È lui che ci chiedevano, e a tempo pieno. E noi, anche noi eravamo responsabili di una chiamata della Chiesa che si presentava diversamente. E il nostro fratello non voleva partire se non in obbedienza a un invio... Lungo discernimento, sfociato in un gemellaggio concordato qui e là, nella fede, forse semplicemente perché, qui e là, la preghiera e il lavoro sono i due polmoni insostituibili della fedeltà alla Vita (ora et labora)!»[28].

La Bergerie de Berdine è una comunità nel sud-est della Francia che accoglie quelli che nessuno vuole più accogliere: tossicodipendenti, alcolizzati, persone socialmente escluse... Questa comunità ha quindi chiesto che uno dei monaci di Tibhirine si unisse a loro a tempo pieno. Come conciliare questo con la vocazione monastica? Ancora una volta, la creatività dello Spirito li ha portati a pensare la formula di un gemellaggio, inviando il monaco richiesto durante i due mesi estivi a Berdine e, reciprocamente, dei soggiorni di quelli di Berdine che venivano a Tibhirine per passare un periodo di tempo con la comunità. La richiesta unilaterale si è trasformata in scambio. Questo è un esempio perfetto di tutto ciò che abbiamo detto prima: ci si arrischia ad ascoltare i bisogni degli altri e si inventa...

Un ultimo esempio è tratto dalla lettera circolare del 1992, indirizzata a parenti, amici e vicini della comunità. È stato proprio l’inizio di quello che è stato definito il “decennio oscuro”, vale a dire l’inizio della violenza in Algeria che ha portato all’assassinio di decine di migliaia di algerini e di religiosi beatificati che si sono rifiutati di lasciare il Paese.

«In una recente meditazione, Mons. Teissier evoca Maria ai piedi della croce: “Quando il popolo soffre, è già molto stare lì, per portare insieme questa sofferenza adesso. Non dobbiamo aspettare per fare qualcosa, che le vicende difficili che stiamo attraversando siano superate... È proprio in quel momento che Gesù supera la sua sofferenza e il grido della disperazione, mediante un piccolo gesto di affetto filiale e di amicizia fraterna: ‘Ecco tua madre... ecco tuo figlio!’. È il piccolo gesto della tenerezza umana. In apparenza non è all’altezza del dramma... eppure annuncia e prepara il futuro”. In tale contesto, abbiamo accettato di partecipare al Consiglio presbiterale, e anche di accogliere e animare un ritiro per i sacerdoti della diocesi (vescovo compreso)»[29].

Concludo volutamente con questo esempio e infine con questa domanda che non ha mai smesso di accompagnare i fratelli di Tibhirine fino al loro rapimento: quale tenerezza umana possiamo offrire nelle presenti circostanze? Questa domanda è alla nostra portata. Non smette di interpellarci. Per qualificare la nostra presenza cristiana, la parola “tenerezza” non andrebbe presa su di sé, con sé, come una ricerca permanente? Che cosa possiamo iniettare attualmente nell’atmosfera, se non questa tenerezza che tocca, che va al cuore, senza tante parole, e che dice l’essenziale?


Verso un ascolto integrale

Concludiamo… Che cosa abbiamo letto, sentito, abbozzato attraverso la comunità di Tibhirine?

Abbiamo toccato con mano che cosa può essere una lectio integrale. Questi monaci ci insegnano che cos’è un ascolto integrale che si basa su questa accoglienza ampia, franca e ostinata della Parola di Dio. Un’accoglienza risoluta della Parola che accresce l’ascolto reciproco tra di noi e ci fa entrare in una capacità allargata di ascoltare il tutto della vita, degli avvenimenti, del contesto e così riprendere tutto ciò che ci accade alla luce di questa presenza di Dio a ciascuno di noi.

Questo ascolto integrale ci spinge a restituire la creatività dello Spirito, qui e ora. Questo è ciò che si chiama discernimento. Papa Francesco, che è gesuita, avrebbe subito usato questo termine. Presentandovi la testimonianza di questa comunità cistercense-trappista al cuore della cui vita si trova la lectio divina, vediamo chiaramente l’invito che ci viene rivolto a riscoprire questa fonte nelle nostre comunità cristiane. È un patrimonio per tutta la Chiesa ed è questo che ci aiuta a vivere in modo adeguato le sfide del nostro tempo.

Con il suo impulso e il suo invito rivolto a tutta la Chiesa a entrare in sinodalità, Papa Francesco rimette al centro della nostra vita personale ed ecclesiale questo ascolto integrale, questo movimento profondo per entrare insieme «nell’ampiezza di Dio».Movimento estensivo, di apertura, che è il movimento della croce, movimento di Cristo che, a braccia aperte, ci ricorda costantemente questa accoglienza schietta, ampia, da offrire a tutti, da inventare ogni giorno. La Parola vuole ancora e sempre produrre qualcosa di nuovo in noi. Ed è lo Spirito che è all’opera affinché noi restiamo dei viventi… «fino a morire, se necessario» (Fratel Christophe).


[1] Questa conferenza è stata tenuta nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario della parrocchia di Vevey (Svizzera) il 5 maggio 2022. Il testo è stato adattato per la pubblicazione, ma è stato mantenuto lo stile orale. Marie-Dominique Minassian è una teologa svizzera, docente all’Università di Friburgo, specialista del patrimonio spirituale dei monaci di Tibhirine, membro dell’Associazione per la custodia degli scritti dei sette fratelli di Tibhirine.

[2] Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma riunita in assemblea diocesana, 18 settembre 2021.

[3] Papa Francesco, Discorso per la Commemorazione del 50° Anniversario di Istituzione del Sinodo dei Vescovi, Aula Paolo VI, sabato 17 ottobre 2015.

[4] Papa Francesco, Fratelli tutti, 48.

[5] Fratel Christian, Omelia della III domenica di Quaresima, 14 marzo 1982, L’autre que nous attendons, p. 57.

[6] Fratel Christian, Capitolo di martedì 2 luglio 1991, Dieu pour tout jour, p. 373.

[7] Fratel Christophe, nota di lectio non datata su Gv 8,31.

[8] Fratel Christian, Capitolo di sabato 23 novembre 1991, Dieu pour tout jour, pp. 384-385.

[9] Fratel Christian, Capitolo del 6 marzo 1986, Dieu pour tout jour, pp. 106-107.

[10] Fratel Christian, Capitolo di giovedì 18 luglio 1991, Dieu pour tout jour, p. 376.

[11] Fratello marista, vicino alla comunità, e uno dei primi religiosi a essere stato ucciso l’8 maggio 1994, con suor Paul-Hélène.

[12] Fratel Christian, Capitolo di martedì 14 giugno 1994, commento del CEC 1100, Dieu pour tout jour, pp. 490-491.

[13] Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma riunita in assemblea diocesana, 18 settembre 2021.

[14] Fratel Christian, Capitolo di martedì 14 giugno 1994, commento a CEC 1100, Dieu pour tout jour, p. 491.

[15] Fratel Christian, Capitolo di mercoledì 23 luglio 1986, Dieu pour tout jour, pp. 138-139.

[16] Fratel Christian, Capitolo di martedì 12 marzo 1996, Dieu pour tout jour, p. 549.

[17] Fratel Christian, Omelia della XXI domenica del TO, 22 agosto 1982, L’autre que nous attendons, p. 74.

[18] Id., p. 74.

[19] Fratel Christian, Capitolo di sabato 10 febbraio 1990, Dieu pour tout jour, p. 315.

[20] Fratel Christian, Omelia per l’Ascensione, giovedì 20 maggio 1982, L’autre que nous attendons, pp. 67-68.

[21] Fratel Christian, Capitolo di lunedì 9 dicembre 1985, Dieu pour tout jour, p. 80.

[22] Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma riunita in assemblea diocesana, 18 settembre 2021.

[23] Id.

[24] Capitolo di Fratel Christian di martedì 9 febbraio 1995, “La nostra comunità nel suo contesto”, Dieu pour tout jour, p. 516.

[25] Christian de Chergé, Chronique de l’espérance 13 (Natale 1977), 13 dicembre 1977, Heureux ceux qui espèrent, p. 411.

[26] Lettera circolare della comunità N.-D. de l’Atlas del 1988, Heureux ceux qui espèrent, p. 706.

[27] Lettera circolare della comunità N.-D. de l’Atlas del 1988, Heureux ceux qui espèrent, pp. 707-708.

[28] Lettera circolare della comunità N.-D. de l’Atlas del 1990, Heureux ceux qui espèrent, p. 719.

[29] Lettera circolare della comunità N.-D. de l’Atlas del 1992, Heureux ceux qui espèrent, p. 733.

Sfide della vita monastica benedettina nell’Africa occidentale

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Prospettive

Suor Thérèse-Benoît Kaboré, osb

Priorato di Notre-Dame di Koubri (Burkina Faso)

 

Sfide della vita monastica benedettina

nell’Africa occidentale

 

Quando mi è stato chiesto di presentare una panoramica della mia tesi di dottorato[1] nel Bollettino, ho pensato alle sfide della vita monastica in Africa occidentale perché sono degli autentici ambiti provocatori. A mio avviso, possono portare a una riflessione che sarà benefica per la vita monastica in Africa e più in particolare nell’Africa occidentale francofona, perché le sfide ci invitano a rimanere vigili e a lavorare per migliorarci. Infatti, se la vita monastica vuole progredire, deve essere capace di interrogarsi e di lasciarsi interrogare. In questo breve contributo, vorremmo evidenziare alcune delle questioni che devono veramente interrogare i responsabili e le comunità monastiche dell’Africa occidentale.


La gestione delle vocazioni

Oggi si parla sempre più spesso dell’Africa come di un focolaio di vocazioni nella Chiesa. Tuttavia, questo non è vero per tutti i Paesi dell’Africa, né per alcune vocazioni specifiche come la vita monastica, che è poco conosciuta. Infatti, la particolarità di questa vita austera non attrae; le persone e la maggior parte di coloro che bussano alla porta del monastero non perseverano. La realtà è che, a più di cinquant’anni dalla fondazione, la stragrande maggioranza dei monasteri ha un numero di membri appena sufficiente per avviare una fondazione. Ecco la constatazione di padre André Ouédraogo, abate emerito di Koubri:

«Se considero il nostro monastero, Saint Benoît di Koubri, che ha celebrato il suo cinquantesimo anniversario di fondazione l’11 luglio 2013, abbiamo accolto un numero considerevole di candidati alla vocazione monastica tra il 1963 e il 2013. [...] Se tutti questi candidati fossero rimasti avremmo potuto realizzare diverse fondazioni monastiche, sia nel Paese sia in altri Paesi. Ma ahimè, oggi, di questo numero elevatissimo di candidati accolti, quanti sono rimasti? Altri monasteri della nostra subregione africana potrebbero dire lo stesso. Di fronte a questo grande mistero, molti candidati sono entrati, ma pochissimi sono rimasti»[2.]

È vero che la vita monastica, come cammino evangelico, comporta rinunce ed esigenze che devono essere assunte nella scelta. Tuttavia, questa realtà di un gran numero di uscite dovrebbe chiamare i monasteri a interrogarsi sul loro modo di condurre la vita monastica e di presentarla al mondo esterno. Sebbene non si tratti di promuovere una vita monastica mitigata, è necessaria una seria riflessione per trovare soluzioni adeguate alla questione. È in gioco il futuro della vita monastica in Africa occidentale. Dopo cinquant’anni dalla fondazione, diversi monasteri procedono ancora a tentoni.

Capella delle monache benedettine di Koubri. © AIM.

La questione della formazione alla vita monastica

Sebbene oggi il livello di formazione dei candidati si sia evoluto, c’è ancora del lavoro da fare, perché un certo numero di essi presenta carenze che richiedono una formazione scolastica supplementare. Se il monaco è un contemplativo per vocazione, non per questo è esentato dall’arricchire la sua intelligenza di conoscenze e dall’imparare a pensare. Il vero problema è giungere al radicamento della vita monastica. Come sottolineava padre Denis Martin, uno dei grandi promotori della vita monastica benedettina in Africa, «i professi perpetui che non possiedono un minimo livello di istruzione, fluttuano come se non avessero nulla su cui fondare la loro vita monastica»[3]. Questa osservazione è vera ancora oggi. Dobbiamo riconoscere che l’equilibrio di vita di un monastero è illusorio senza una seria promozione della formazione dei monaci, non solo religiosa ma anche umana, soprattutto di fronte a un mondo in perenne cambiamento. Non si tratta solo di formazione iniziale, ma anche della formazione permanente.


Le sfide legate ai voti religiosi

Il monaco africano assume coscientemente e deliberatamente il compito di testimoniare Gesù Cristo con tutta la sua vita. La sua consacrazione monastica costituisce un’immolazione personale. Per amore di Cristo, accetta di sacrificare i valori culturali corrispondenti ai tre consigli di castità, povertà e obbedienza.

            La sfida del voto di castità

Il voto di castità è l’espressione della povertà più fondamentale per il religioso africano; questo voto lo raggiunge nelle sue rappresentazioni simboliche essenziali[4]. Un cistercense congolese, parlando della scelta evangelica del celibato consacrato, ha esclamato: «È una vittoria del cristianesimo in mezzo a noi, e questo non è un miracolo da poco!»[5]. Tale situazione non è però sinonimo di incapacità da parte dei religiosi africani di vivere pienamente il voto di castità. Non significa accettare una vita sessuale disordinata[6]. Per i religiosi africani, come per tutti gli altri religiosi del mondo, è necessario assumere nella verità ciò per cui si sono liberamente impegnati. Per i religiosi africani non ci sono mezze misure. La loro pratica della castità per il Regno di Dio deve essere una testimonianza concreta anche contro «una cultura edonistica che svincola la sessualità da ogni norma morale oggettiva, riducendola spesso a un gioco e a una merce e cedendo a una sorta di idolatria dell’istinto» (Vita Consecrata, 88). Se il voto di castità non concede la possibilità di vivere come esseri incorporei, allora questo voto costituisce una sfida, una provocazione per chi vi si impegna.

            La sfida del voto di povertà

In un continente in cui una larga fascia della popolazione è sottoalimentata, non ha un alloggio decente e non ha accesso alle cure mediche o ad altre strutture fornite gratuitamente in altre parti del mondo, i religiosi non possono prendere alla leggera il voto di povertà. Quindi, in che modo i religiosi, e in particolare i monaci, dovrebbero abbracciare la povertà? Avvicinandosi ai monasteri, le persone dovrebbero essere in grado di capire che i monaci vivono il voto di povertà rinunciando radicalmente al diritto di proprietà individuale e all’uso personale dei proventi del loro lavoro, ma anche praticando la condivisione dei beni con gli altri. In ogni caso, questo appello di uno dei nostri anziani nella vita monastica in Africa ci interpella tutti: «Che i nostri fratelli non possano mai dire, quando vedono che ci occupiamo di affari, “Come amano il denaro!”. O che non possano far proprio il commento di una suora nei confronti di una consorella: “Pensa a far soldi prima di pensare alla salvezza delle anime!”»[7].

La sfida del voto di obbedienza

Il professor Michael Hochschild, dopo un’indagine in diversi monasteri europei, ha fatto la seguente costatazione: «Un osservatore esterno vorrebbe trovare umiltà e obbedienza nella vita monastica, ma in realtà troppo spesso l’autonomia individuale e la realizzazione di sé sono sovrane»[8]. Questa osservazione può essere applicata anche alla realtà di alcuni monasteri in Africa e più in particolare nell’Africa occidentale. L’individualismo sta prendendo piede, soffocando la dimensione della testimonianza profetica relativa al voto di obbedienza, come agli altri due voti. Tuttavia, dobbiamo riuscire a conciliare il dinamismo, lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità con lo spirito di obbedienza. È necessario arrivare a un’obbedienza cristiana matura, libera dalla propria volontà, non timorosa, servile o ipocrita o con riserve per il futuro come: «Quando sarò professo perpetuo, potrò fare quello che voglio». Da questo punto di vista è indispensabile che la formazione monastica aiuti il candidato ad arrivare a un’obbedienza adulta, pensata e volontaria.


La sfida della vita fraterna

La vita fraterna rimane un terreno di combattimento quotidiano. Vi sono molte sfide e non mancano molti ostacoli. Una delle minacce alla vita fraterna e comunitaria è l’individualismo. Quando si pensa solo a se stessi e al proprio lavoro, la vita comunitaria diventa rapidamente secondaria, persino imbarazzante per l’uso del tempo. In effetti, ci sono monaci convinti che, lavorando sodo, rendono un servizio agli altri. Ma fino a che punto questo modo di pensare è vero? Non sono interessati agli altri o alla propria vita. Il problema è che così facendo la comunità perde il suo slancio vitale, «la comunicazione si deteriora e di conseguenza c’è sempre meno interesse generale per la comunità»[9]. In realtà, dobbiamo capire che la vita monastica cenobitica non può in alcun modo essere compresa e vissuta senza tener conto degli altri, senza tener conto delle relazioni interpersonali nella comunità. Nella vita comunitaria possono sorgere anche altre difficoltà: difficoltà di comunicazione a volte legate a differenze generazionali, rivalità, desiderio di dominio, mancanza di ascolto e di accettazione reciproca. In questo ambito delle relazioni interpersonali, dovremmo tutti riflettere sull’osservazione del domenicano Sidbe Semporé: «Siamo presi come esempio e quando si parla di santità, ci si rivolge spontaneamente a noi. Ma siamo almeno veri cristiani?»[10].


La questione dell’autonomia economica

nei monasteri dell’Africa occidentale

I monasteri dell’Africa occidentale continuano ad affermare che, per quanto riguarda le necessità della vita quotidiana, ogni persona può essere autosufficiente con il proprio lavoro, ma che il problema si presenta in caso di spese eccezionali, come ad esempio una costruzione o l’acquisto di materiali[11]. C’è un problema di organizzazione e di formazione da risolvere. Il monachesimo in Africa non può aspirare all’autonomia trascurando la questione economica. Il progetto economico per il futuro dei monasteri in Africa deve essere fatto oggetto di uno studio più approfondito. I monasteri europei in Africa sono stati spesso presentati come fiorenti dal punto di vista economico. Sarebbe forse interessante presentare anche monasteri con un livello economico molto basso, spesso indebitati, che tuttavia ci convivono e non sono sempre pronti a dare una mano. In ogni caso, al giorno d’oggi possiamo contare solo su benefattori – siano essi l’AIM o un’altra organizzazione o singoli individui – per sostitui-re macchinari o costruire nuovi edifici. Ciò significa che le comunità devono essere in grado di mettere a bilancio e ammortizzare ciò che un giorno dovrà essere sostituito.

Laboratorio di tessitura nel monastero di Toffo (Bénin).© AIM.

Parlando di aiuti, i monasteri dell’Africa hanno ricevuto molto dall’AIM-International. Oggi sarebbe interessante pensare a un’AIM-Africa, come auspicava padre Boniface Tiguila, fondatore del monastero dell’Incarnazione di Agbang, in Togo, intervenendo alla celebrazione del giubileo d’oro dell’AIM nel 2011. L’intenzione non è quella di abbandonare l’AIM-International. Quando si tratta di dare e ricevere, anche i monasteri dell’Africa possono e devono dare il loro contributo. Internamente, in Africa, questa struttura può fornire un aiuto, magari minimo, ai monasteri in difficoltà (pensiamo all’obolo della vedova). I monasteri africani non possono aspettare di essere fiorenti per creare una struttura del genere. Questa proposta merita una considerazione particolare. E speriamo che AIM-Africa veda presto la luce!


Un modello di monastero per l’Africa

L’Africa vive una situazione di povertà che non può essere ignorata. In tale situazione, un tenore di vita austero può sembrare borghese. La ricchezza, anche quella relativa, lungi dall’essere compresa, verrà amplificata. È necessario essere attenti alle condizioni di sviluppo di ogni regione e cercare di far sì che la testimonianza collettiva della povertà interpelli la popolazione (cf. Perfectae Caritatis, 13, can. 640). Se la vita monastica vuole essere profetica, questa realtà deve essere presa in considerazione.

In questo senso, non dovremmo forse ripensare le fondazioni e il funzionamento dei monasteri in Africa occidentale? Non potremmo inventare in Africa la possibilità di vivere pienamente la vita monastica in numero esiguo, in piccole comunità? Ogni nuova fondazione è necessariamente chiamata a diventare una comunità numerosa perché sia garantita la possibilità di una vita monastica autentica? Accanto ai grandi monasteri di tipo classico, non potrebbe esserci un posto per opzioni più leggere, comunità più piccole, con una prospettiva limitata di investimento e di crescita? Queste domande sono state poste in modo mirabile nel corso del primo incontro dei superiori monastici africani a Bouaké nel 1964[12].

Una simile prospettiva esige riflessioni serie, ma anche esperimenti audaci. Piccole comunità monastiche situate vicino ai villaggi, con uno standard di vita e degli alloggi identici, per quanto possibile, a quelli dei loro vicini, potrebbero lasciar trasparire il vero volto del monachesimo e lo scopo che esso persegue. Con un habitat meno schiacciante e uno stile di vita più semplice, queste piccole comunità potranno dare testimonianza efficace di una vera povertà, che rimarrà agli occhi di tutti coloro che le vedranno vivere, il segno più sensibile della caducità delle cose di questo mondo. Come comunità di preghiera e di lavoro, potranno avere una grande irradiazione tra le popolazioni che le circondano.


Le relazioni del monaco africano con la sua famiglia

Di fronte alla famiglia biologica, i consacrati africani sperimentano gioie e dolori nella ricerca di un’armonia in linea con la loro consacrazione. Anche se hanno lasciato tutto per seguire Cristo, non è meno vero che i problemi familiari li colpiscono fortemente. In queste circostanze, alcuni religiosi africani, che provengono da famiglie povere, soffrono per il fatto di vivere in una situazione un po’ più confortevole mentre le loro famiglie rimangono a uno stadio primitivo, incapaci di provvedere ai loro bisogni materiali. A causa di questa sofferenza alcuni se ne vanno, altri rubano per aiutare le loro famiglie e altri ancora non raggiungono mai il loro pieno potenziale. I monaci non sono risparmiati. Si constata che spesso, dopo una visita della famiglia, alcuni fratelli o sorelle sono turbati per un certo periodo di tempo a causa dei problemi e delle difficoltà della famiglia. Si tratta di una questione molto delicata che merita una particolare attenzione e una risposta concreta. È vero che la Regola non contempla nulla a questo riguardo, ma non si può ignorare questa situazione, che in Africa è un problema reale.


Le esigenze monastiche di fronte all’invasività del mondo odierno

Il mondo vive oggi una trasformazione molto particolare, determinata dalla globalizzazione, che vuole essere una visione del mondo nel suo insieme. La globalizzazione non riguarda solo l’economia, ma si estende anche alla sfera culturale, creando una sorta di cultura globale che non lascia nessuno indifferente. Il nuovo contesto socio-culturale che si è così generato, ha esercitato un’influenza immediata sulla vita consacrata e, più in particolare, sulla vita monastica. Alcuni comportamenti e costumi che i monaci hanno sempre considerato essenziali per il loro stile di vita vengono messi a dura prova. Se da un lato le opportunità del mondo moderno sono di enorme utilità, dall’altro costituiscono una minaccia permanente per la clausura e per il silenzio, sia interiore che esteriore. Ci si potrebbe chiedere cosa ne sarà del silenzio monastico in un mondo in cui la comunicazione ultraveloce è pervasiva. E la clausura? Come possiamo evitare di diventare dipendenti dai cellulari, da WhatsApp, da Facebook... da Internet? Senza volersi chiudere alle ricchezze e ai vantaggi della globalizzazione, è opportuno considerare con lucidità i problemi che essa solleva (cf. Vita Consecrata, 99).

Il monaco non può in alcun modo rinnegare i valori essenziali e le usanze importanti del suo genere di vita. Deve essere saldamente radicato nella sua vita monastica. È quindi invitato a rendere conto della sua identità essendo realmente ciò che deve essere. Allora la vita monastica testimonierà le esigenze del regno di Dio e la sua presenza tra gli uomini e sarà capace di interrogare il mondo di oggi.

Le varie sfide sopra menzionate mostrano l’urgenza di una risposta efficace da parte dei monaci e delle monache della sub-regione dell’Africa occidentale, risposta che deve partire dalla maturità dei monaci e dal loro radicamento nella vita monastica stessa.

L’Africa ha bisogno di uomini e donne capaci di testimoniare le Beatitudini e il primato dell’Assoluto fino al dono totale di sé. Questa aspettativa può essere soddisfatta solo nella misura in cui i monaci diventano sempre più consapevoli della ricchezza della vocazione che il Signore ha loro donato e quindi della missione che è stata loro affidata nella Chiesa e nel mondo. Devono riaffermare costantemente il loro carisma specifico, sforzarsi di averne una visione chiara e viverlo quotidianamente. Solo così potranno fornire la risposta che il nostro tempo si attende, senza cessare di essere ciò che essi sono.


[1] La tesi è intitolata: «Vita monastica e legislazione canonica: la questione dell’identità benedettina di fronte alle sfide contemporanee nell’Africa occidentale» (Vie monastique et législation canonique: la question de l’identité bénédictine face aux défis contemporains en Afrique de l’Ouest).

[2] A. Ouédraogo, «Chemin pour l’accueil et pour le discernement des vocations dans la vie monastique», in A. Ouédraogo - R. Ferrari, “Si revera Deum quaerit”. Linee guida per il discernimento monastico, Mamma, Parma, 2018, p. 46.

[3] Cf. D. Martin, «Formation des postulants au monastère», in Rythmes du Monde, n. 39, 1965, p. 61. L’autore intende parlare qui di tutti coloro che non hanno ricevuto alcuna formazione scolastica.

[4] Cf. G. Mbida, «Les voeux de religion dans le contexte culturel africain. Enjeux et défis pour un droit ecclésial particulier», in Revue de Droit Canonique, n. 65, 2015, p. 208.

[5] E. Mununu, «Des dispositions intérieures et des structures de la communauté», in Rencontre monastique, 31 ; M. Defourd, «Le défi de la vie religieuse aujourd’hui», in Pentecôte d’Afrique, 6 (1995), n. 2, p. 60.

[6] Cf. E. M’Veng, L’Afrique dans l’Église. Paroles d’un croyant, L’Harmattan, Paris, 1985, pp. 109-110. Si è spesso sostenuto che gli africani sono incapaci di vivere il voto di castità. Se è vero che in Africa si dà valore alla fecondità, è anche vero che nella società tradizionale, e ancora oggi, il controllo della sessualità è un valore importante a cui tutti (donne e uomini) tengono. Il controllo della sessualità era una delle dimensioni utilizzate per misurare il grado di umanizzazione (l’uomo non può comportarsi come un animale che non riesce a controllarsi). La comprensione della cultura africana mostra che la promiscuità sessuale non è permessa in nessuna circostanza. Fin dalla più tenera età si insegna a vivere in modo casto.

[7] Una suora africana, «Problèmes économiques des fondations missionnaires», in Rythmes du Monde, n. 39, 1965, p. 103.

[8] M. Hochschild, «Les Bénédictins entre la continuité et le changement, intuitions et perspectives à partir d’un projet international de recherche». Congresso degli Abati 2012, p. 6 (documento fotocopiato).

[9] M. Hochschild, «Autonomie et communauté. Essai sur la précarité de la vie monastique d’aujourd’hui», in Bollettino dell’AIM, n. 46, 2013, p. 28.

[10] S. Semporé, «La vie religieuse interpellée», coll. Pentecôte d’Afrique, s. e., Cotonou, 1995, pp. 8-9.

[11] Cf. Incontro dei superiori monastici francofoni dell’Africa occidentale. «Compte rendu de la session du 20-26 janvier 2014», in Bollettino dell’AIM n. 47, 2014, pp. 88-90.

[12] D. Martin, «Problèmes économiques des fondations missionnaires. Comptes rendus des débats», in Rythmes du Monde, n. 39, 1965, pp. 98-99; cf. A. Ouédraogo, Chemin, pp. 99-100: questo autore che approva la possibilità di piccole fraternità collegate a comunità grandi, propone anche l’idea di una vita monastica temporanea per tutti coloro che vorrebbero vivere un’esperienza monastica per un periodo limitato. Tuttavia, come riconosce lo stesso autore, questa esperienza non può realizzarsi senza comunità radicate nella loro vita monastica.

L'ecosistema monastico francese

7

Articolo non tradotto. Vedere in francese, inglese o tedesco.

La liturgie syro-malabare

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Articolo non tradotto. Visualizzazione in francese, inglese o altra lingua.

Madre Pia Gullini

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Grande Figure della Vita monastica

Suor Maria Augusta Tescari, ocso

Monastero di Vitorchiano (Italia)

 

Una grande badessa del 20° secolo:

Madre Pia Gullini[1]

 

 

 

Nelle realtà della storia e della vita delle nostre comunità, ci sono percorsi che sfuggono a un’analisi superficiale: bisogna scavare in profondità per riconoscere le vie segrete di cui la Provvidenza si serve per farsi strada tra le contraddizioni umane.

A volte ci si stupisce della fecondità della comunità di Vitorchiano che ha dato vita a numerose fondazioni. Questa vitalità miracolosa può essere spiegata con la legge evangelica del chicco di grano che muore e che, morendo, porta molto frutto. Tutti conoscono il sacrificio di suor Maria Gabriella, ma nella complessa storia della comunità che è stata a lungo la Cenerentola dell’Ordine per le sue origini e per la sua povertà materiale e intellettuale, c’è stato un altro grano meno noto, di una qualità in qualche modo straordinaria: Madre Pia Gullini, Badessa di Grottaferrata dal 1931 al 1940 e dal 1946 al 1951. In lei l’umiltà, la maternità e il senso della Chiesa hanno raggiunto, a nostro avviso, un grado eccezionale.

Sappiamo che Madre Pia ha sempre avuto il desiderio di fare una fondazione; paragonava questo desiderio a un albero che aveva coltivato e che altri (superiori e circostanze) avevano continuamente tagliato, ma che era ancora vivo. Nel 1948 scriveva a un abate dell’Ordine:

«Quando il Signore vorrà, dirà a quest’albero: “Fai crescere i tuoi fiori”, sarà la sua primavera e nessuno potrà fermarne la fioritura».

E allo stesso, sempre, scriveva quattro anni dopo:

«Il Signore procede dolcemente, ma riesce sempre. Sono sicura di Lui e gli lascio la sua infinita libertà. Se sarò già con Lui quando esaudirà questo desiderio, lo aiuterò doppiamente»[2].

Profeta, Madre Pia lo era stata in diverse occasioni: in relazione all’allora nascente ecumenismo e all’utilità di diffondere il semplice messaggio di amore e donazione di suor Maria Gabriella, ma anche in relazione alla propria morte e all’impossibilità per lei di raggiungere la sua comunità che, nel 1957, si era trasferita da Grottaferrata a Vitorchiano. E sappiamo bene che i profeti non hanno mai avuto vita facile…

La sua vita

Nacque il 16 agosto 1892 a Verona, dove la sua famiglia risiedette per diversi anni a causa del lavoro del padre. Maria Elena Gullini apparteneva a una famiglia dell’alta borghesia bolognese. Suo padre, Arrigo, era un ingegnere ferroviario: lavorò in Italia e in Montenegro. Si stabilì con la famiglia a Roma, probabilmente a causa degli studi universitari dei suoi tre figli. Fu vicedirettore delle Ferrovie dello Stato, presidente e amministratore dell’importante Società dei Cantieri di Genova, la Ansaldo.

Sua madre, Celsa Rossi, si distingueva per la sua eccezionale bellezza, per una straordinaria gentilezza e intelligenza; in gioventù aveva pensato a una vocazione religiosa, ma non era riuscita a realizzarla; molto pia, visse intensamente la sua fede e cercò di trasmetterla ai suoi figli. Riservata, non amando tutto ciò che era vanità, si lasciò sostituire volentieri negli impegni mondani dalla figlia maggiore, bella e intraprendente: Maria accompagnò quindi il papà ai vari ricevimenti e pranzi dell’alta società.

Una amica riferisce che, nello studio dell’ingegner Gullini, c’era un grande ritratto a olio di Maria in abito da sera bianco e nero, molto scollato e con le braccia scoperte – con grande dispiacere della madre –, un ritratto che rivelava il posto che la maggiore occupava nella vita sociale del padre. Madre Pia racconta che proprio durante un ballo, sperimentando la sua insoddisfazione per le cose banali e passeggere, prese la decisione di seguire la vocazione religiosa.

Dagli 8 ai 18 anni studiò a Venezia, presso le Dame del Sacro Cuore, ricevette l’educazione data allora alle ragazze di buona famiglia. L’insegnamento fu trasmesso in francese. Con il suo temperamento artistico, Maria eccelleva nella musica e nella pittura. A dieci anni ricevette la prima comunione dalle mani del patriarca Giuseppe Sarto, futuro san Pio X. A dodici anni si trovò in pericolo di morte a causa di una peritonite tubercolare che le lasciò per tutta la vita una spiacevole predisposizione alla stanchezza. Era molto vivace, orgogliosa e ribelle, anche violenta, desiderosa di libertà, con evidenti doti di leader; amava la natura, compativa le sofferenze degli altri e le necessità dei poveri, retta e leale. Trascorreva le vacanze estive nella villa della tenuta di famiglia vicino a Bologna o in Montenegro. A causa del lavoro del padre, fu madrina durante l’inaugurazione di tratti ferroviari e le foto di famiglia la ritraggono con mazzi di fiori in mano mentre taglia un nastro. Parenti lontani o contadini ricordano ancora l’arrivo della “Signorina” nella casa di campagna dei nonni e di quanto fosse attenta alle loro necessità materiali e spirituali.

Studiò con il padre inglese e tedesco con il metodo Berlitz – una novità per l’epoca! – e con un maestro che veniva a casa per le lezioni pratiche. Sportiva, amava il pattinaggio e l’equitazione, frequentò i maneggi di Roma. Dopo la dichiarazione di guerra, seguì il corso di infermiera presso «La Samaritana», con il desiderio di andare al fronte a curare i soldati feriti. Suo padre si oppose al progetto. Maria andava a messa quasi tutte le mattine con la madre e insegnava il catechismo ai bambini dell’elegante parrocchia di San Camillo e di quella, periferica, di Sant’Elena, al Prenestino, che lei amava. La frequentazione delle Piccole Sorelle dell’Assunzione di via Nino Bixio l’aveva portata ad accompagnarle spesso, esercitandosi con loro nell’aiuto dei poveri.

Alle proposte di matrimonio che le venivano fatte opponeva rifiuti che angosciavano la famiglia: «No, non è bello! Manca di finezza! È troppo alto! È troppo piccolo!…». Spinta a riflettere in favore di un partito “ideale”, aveva accettato di fidanzarsi, ma non ufficialmente, con un simpaticissimo giovane ingegnere di Venezia, ma quando quest’ultimo, ufficiale al fronte, volle chiarire il loro legame, Maria, che aveva preso coscienza della sua vocazione religiosa, rispose che non lo avrebbe sposato.

Suo confessore e direttore spirituale fu un noto padre del Santissimo Sacramento, padre Di Lorenzo; fu lui a opporsi con accanimento al suo ingresso a La Trappa (secondo lui, con il suo temperamento, esuberante e incline all’autonomia, non era possibile per Maria scegliere il silenzio e l’obbedienza dei trappisti), ma divenne in seguito un ospite assiduo di Grottaferrata. Del resto Maria Gullini, in un primo momento, non aveva avuto la minima intenzione di entrare a La Trappa. Il servizio e l’assistenza ai poveri l’attirarono verso una congregazione attiva e, nonostante l’opposizione della sua famiglia, chiese di essere ammessa alle Piccole Sorelle dell’Assunzione.

Alta, bella, piena di vita e intelligente, aveva troppe qualità eccezionali per essere accettata sic et simpliciter. Madre Teresa, la superiora, la invogliò a consigliarsi prima con dom Norbert Sauvage, procuratore dei trappisti il quale le fece fare otto giorni di ritiro a La Trappa di Grottaferrata, in clausura.

Era il 14 novembre 1916 e Maria scriveva:

«Sto facendo questo ritiro pregando per i peccatori: quanto al risultato, Signore, ispira il padre e farò esattamente quello che mi dirà».

E Dom Norbert che, all’inizio del suo ritiro le aveva annunciato: «Parleremo di Gesù Cristo», le disse:

«Signorina, mi sembra che siate chiamata a una vita d’amore; Gesù sembra volere da voi il sacrificio completo. La vostra natura vuole la vita attiva, la vostra anima esige e invoca la vita contemplativa»

e le propose La Trappa in maniera decisa. Ma non qui.

«A Laval, uno dei primi monasteri dell’Ordine, ci sono ottanta monache, tra cui molte giovani. Un diavolo come voi, in una tale massa di religiose, non risalterà troppo».

È molto probabile che Dom Norbert avesse pensato di assicurare alla signorina Gullini una buona formazione monastica per farla poi tornare a Grottaferrata alla guida della comunità, ma i documenti non consentono di affermare che ci fosse un accordo con la badessa di Grotta su questo argomento.

Ma è certo che da quel momento iniziò per Maria un periodo di combattimento: con i suoi genitori, con il suo confessore e altri sacerdoti che accusavano Dom Norbert di averle fatto montare la testa, ma soprattutto con se stessa, che non voleva arrendersi alla grazia. Il risultato di questa lotta fu la vittoria del suo «dolce Signore» e l’ingresso di Maria a Laval il 28 giugno 1917. Il modo di agire, senza inibizioni, della fanciulla sconcertò le monache di Laval, come già aveva stupito le monache di Grottaferrata, ma la vocazione era evidente, come pure la buona volontà della candidata, e per questo ci si armò di pazienza da ambo le parti. Il 29 settembre 1917 suor Pia – questo nome le era stato dato in memoria del Papa che le aveva dato la prima comunione a Venezia – vestì l’abito cistercense; il 16 luglio 1919 emise i primi voti e, tre anni dopo, nella stessa data, emise la professione perpetua.

Nel 1923 fu nominata maestra delle suore converse, che erano una quarantina. Ecco Madre Pia, a Laval, come la evocano le suore converse:

«Madre Pia è diventata Madre Maestra quasi subito dopo la sua professione. Ma la Reverenda Madre Lutgarde[3] si fidava di lei; diceva che, a parte qualche difetto esteriore, la nostra Madre Pia era perfetta. Lei è quella che ho amato di più; era lei che mi faceva il bene più grande: mi piaceva sentirla parlare di Gesù e vedere il suo spirito di fede…».

Era un’anima ardente dell’amore di Dio; amava la Regola. Lavava le sorelle anziane, le cambiava ogni quattro ore. Non aveva mai lavorato all’orto, ma veniva a zappare con le sorelle e dopo le ringraziava… Era portata per tutto, la sua Madre Maestra ricordava la sua estrema semplicità e la descriveva come un’anima magnanima, ardente, capace di spirito di sacrificio.

A partire dal 1923, Madre Agnese Scandelli, badessa di Grottaferrata, aveva chiesto a Laval un aiuto personale per la poverissima comunità italiana; ma Madre Lutgarde non aveva potuto darlo – a malincuore – che solo tre anni dopo! E questo aiuto fu naturalmente l’italiana Madre Pia: «Stiamo facendo un bel sacrificio e anche Madre Pia; ma non vogliamo negare nulla al buon Dio»[4]. C’era un altro motivo per il rimpatrio della giovane monaca: Madre Pia era affetta da un principio di tubercolosi e si sperava che un cambio d’aria le facesse del bene, cosa che in effetti avvenne, anche se lentamente. Madre Pia arrivò a Grottaferrata il 9 novembre 1926. La dura partenza dal «suo» monastero di Laval fu molto dolorosa e l’inserimento nella sua nuova comunità tutt’altro che facile. La nuova arrivata, di cultura e formazione differenti, malaticcia, con doti umane eccezionali, provocò delle reazioni di rifiuto. La decisione, l’anno seguente, di fare la sua stabilità a Grotta, fu qualcosa di eroico, viste le circostanze.


Lavoro nei campi della communità di Grottaferrata.

Le Cronache parlano di pressioni dei suoi genitori per trattenerla in Italia[5], ma da alcune lettere o altri documenti è possibile intuire una discreta insistenza da parte delle superiore maggiori, preoccupate per il futuro di Grotta, priva di monache capaci di succedere alla badessa, anziana e malata. Avendo lasciato il suo monastero nelle disposizioni interiori di totale sacrificio – «un sacrificio non si può mai rifiutare... andrò dove Dio mi chiama» – Madre Pia vinse il suo desiderio di tornare a Laval e l’insistenza di Laval di riaverla: proseguì, tuttavia, la corrispondenza con la sua carissima Madre Lutgarde fino al 1942 e con la comunità, fino a tre anni prima della sua morte.

La difficilissima situazione della comunità di Grotta, molto legata alla sua badessa, gravò pesantemente sulla già fragile salute di Madre Pia che, nel 1928, vide peggiorare i suoi attacchi di fegato al punto da costringerla a sottoporsi a un intervento chirurgico – in quel momento abbastanza delicato – che la mise in pericolo di morte per alcuni giorni.

In quel tempo, una sorella conversa tra le anziane offrì la sua vita per la guarigione della sua giovane sorella. Costei si riprese dopo un soggiorno presso la sua famiglia, fu vice-priora, infermiera, poi priora, mostrando totale obbedienza a Madre Agnese, pur soffrendo di molte cose che, in comunità, avrebbero dovuto essere cambiate e che non lo furono.

Nel 1931, Madre Agnese Scandelli, dopo trentatré anni da superiora, si dimise. Madre Pia fu poi nominata badessa per decisione pontificia, a seguito di un decreto del cardinale Lega, vescovo di Frascati, che porta la data del 30 dicembre 1931. Era stato impossibile, infatti, procedere a una regolare elezione, dato l’affetto che le monache nutrivano per la loro precedente badessa. Non è difficile immaginare il coraggio e la fede necessari in una situazione così particolare: ma Madre Pia seppe conquistarsi la stima e l’amore della comunità che la confermò, quasi all’unanimità, durante le elezioni del 1935 e del 1938. Volle fare di Grotta una Trappa come l’aveva vista lei stessa, alludendo alla sua amata Laval.

Sebbene le stesse mura del convento fossero intrise di preghiera e spirito di sacrificio, Grottaferrata sembrava più una comunità francescana che una comunità cistercense. Intraprendere una trasformazione fu difficile a causa della povertà – molte volte il conto mensile del fornaio veniva pagato dalla famiglia Gullini –, anche per le ridotte dimensioni e produttività della proprietà (due ettari e mezzo), e ancora per la casa non idonea, l’esiguo numero di coriste, la presenza di alcune sorelle a lei ostili e, successivamente, le ripercussioni della seconda guerra mondiale.

Nel 1939 morì suor Maria Gabriella e iniziò allora per Grotta e la sua badessa un periodo molto fecondo, ma anche molto burrascoso. Nel dicembre 1940, quindi prima della fine del suo terzo mandato, Madre Pia fu costretta a dimettersi. Le difficoltà – il caso non era nuovo, essendo una donna intelligente e di forte volontà – provenivano principalmente dai superiori maschili. Nelle decisioni che portarono alle sue dimissioni, oltre ai punti di vista divergenti riguardanti il modo di guidare la comunità, pesarono senza dubbio anche la corrispondenza riguardante l’ecumenismo e la pubblicazione della biografia di suor Maria Gabriella, apertura che non fu compresa né approvata da tutti[6]!

La bravissima Madre Tecla Fontana, che le succedette nel governo della comunità, le affidò il noviziato e Madre Pia, da buona educatrice qual era, si dedicò con gioia alla formazione delle giovani, pur continuando la sua fitta corrispondenza e le sue relazioni ecumeniche.

Sei anni dopo, nel 1946, fu rieletta badessa e confermata, con voto quasi unanime, nel primo scrutinio del 1949. In quegli anni rimase anche incaricata del noviziato. Le opposizioni inconciliabili, sebbene pochissime, tuttavia persistevano: Madre Pia sperava nell’appoggio del nuovo Abate generale e del superiore delle Frattocchie, da poco nominato, per avviare una fondazione che sognava da anni; ma nel 1951, prima della fine del suo triennio, scoppiò una crisi che covava da tempo. Il 19 aprile, il superiore (che non era ancora eletto abate) e il Padre immediato, l’abate di Mont-des-Cats, riunirono la comunità dopo l’ufficio di Nona e annunciarono che Madre Pia si era dimessa «per motivi speciali» e che aveva già lasciato la comunità.

Madre Tecla assunse le redini della comunità come superiora ad nutum. Fu un fulmine a ciel sereno: quasi tutta la comunità non capì mai i veri motivi di questa partenza.

Madre Pia rimase a Roma, presso le suore Orsoline, finché le fu concesso il passaporto. L’ho vista, quei giorni che dovevano essere molto tristi, calma e tranquilla: dava l’impressione di un’ospite regale e non di una sorella in viaggio d’esilio[7]! Partita per l’abbazia di La Fille-Dieu, vi rimarrà otto anni, fino al suo richiamo in Italia. Nel 1953 non gli fu permesso di tornare in patria, né per la elezione abbaziale, né per le elezioni politiche, anche se altre due sorelle italiane presenti nel suo stesso monastero poterono tornare.

Lasciamo, adesso, le sorelle di La Fille-Dieu descrivercela durante il suo soggiorno:

«Madre Pia era la bontà stessa: la sua amabilità, il suo viso sorridente ci faceva bene. Ci piacque conoscerla, perché i suoi grandi gesti sembravano avvolgerci nel suo cuore. Aveva una pietà immensa per coloro che soffrivano: avrebbe voluto consolarli, aiutarli... Il suo spirito di fede la portava a Gesù-Ostia: sarebbe rimasta per ore presso il Tabernacolo. Era una molto silenziosa, rimanendo unita al buon Dio e vivendo alla sua presenza. Il suo talento di artista ci fu di grande aiuto... – Trascorse otto anni a La Fille-Dieu, dando l’esempio di una religiosa perfetta; era un’anima generosa, con un grandissimo spirito di fede, una carità perfetta e piena di una delicatezza veramente materna, un cuore d’oro che pensava solo a compiacere. Era un’anima silenziosa: per lei il silenzio era un’udienza d’amore con Nostro Signore. Per tutta la vita Lo ringrazierò per aver vissuto a contatto con lei. Svanì, cercando di passare inosservata. Di tutte le virtù ha dato esempio e anche l’eroismo. Una grande monaca: la nostra Te Deum vivente…»[8].

Intanto in Italia, la badessa, eletta nel 1953 e alla quale si deve il trasferimento della comunità da Grottaferrata a Vitorchiano, si dimise nel 1958 per motivi di salute. Fu nominata una superiora ad nutum. Nel 1959 si stava preparando un’elezione abbaziale e Madre Pia fu ufficialmente richiamata a Vitorchiano dal Padre immediato; non sappiamo se il richiamarla fosse stato ai fini di una sua eventuale elezione a badessa o per l’esercizio di un incarico subordinato; la comunità la reclamava prepotentemente e i superiori che l’avevano destituita, ora sostenevano il suo ritorno. Ma chi si era accorto che Madre Pia era allora in punto di morte? Che, visto il suo stato di salute, il viaggio dalla Svizzera sarebbe stato già molto faticoso? In ogni caso non spettava a lei decidere, ma solo obbedire: partì, molto stanca, ma serena.


L’abbazia di Vitorchiano. © AIM.

Il 22 febbraio 1959 lascia il monastero che l’aveva accolta e dove avrebbe desiderato morire; il 25, su intervento del fratello medico, impressionato dal suo brutto aspetto, viene ricoverata al policlinico di Roma, dove ricevette numerose trasfusioni. Le venne diagnosticato un mieloma in uno stato molto avanzato: inoltre i reni, il cuore e gli altri organi avevano subìto danni irreparabili. Madre Pia accolse le cure e le attenzioni che le furono riservate con distaccata gratitudine, con calma, col sorriso.

Il 15 aprile uscì dall’ospedale e fu accolta dalle suore betlemite per continuare, sotto controllo, una terapia ormai inutile, in attesa di raggiungere Vitorchiano. Era ben consapevole che non avrebbe potuto assumere incarichi di responsabilità; sentiva che si stava avvicinando alla sua morte. Vedeva chiaramente – e lei diceva con regale calma e distacco – che non sarebbe mai rientrata viva nella sua comunità: «Andremo alla casa del Signore prima di andarci», diceva.

Sapendo che era ricoverata, l’ho visitata; era seduta su una poltrona. Questa visita mi ha davvero colpito. Nessuna parola dal passato, nessuna parola dal futuro. Nessun segno di gioia – anche discreto – che una persona nel suo caso avrebbe il diritto di provare; perché, qualunque cosa si possa dire, questo richiamo in Italia fu una riabilitazione.

Il suo ritorno a Vitorchiano era previsto per il 5 maggio, solennità dell’Ascensione. Morì di arresto cardiaco il 29 aprile, giorno in cui l’Ordine celebrava, secondo il calendario liturgico dell’epoca, l’anniversario della nascita al cielo di san Roberto, suo prediletto tra i fondatori di Cîteaux. Probabilmente si identificava con la sua ricerca, il suo desiderio di fondare e la sua rinuncia.

Madre Pia aveva 67 anni e 40 anni di professione. Fu la prima sorella a essere sepolta nel nuovo cimitero di Vitorchiano, secondo la predizione che aveva fatto a una monaca italiana di La Fille-Dieu.


[1] Per gentile concessione dell’Associazione Arccis.

[2] Questa citazione e le successive, che non hanno riferimenti espliciti, sono tratte dagli appunti e dai documenti conservati nell’archivio di Vitorchiano.

[3] Lutgarde Hémery, badessa di Laval dal 1900 al 1944.

[4] Lettera di Madre Lutgarde al Reverendissimo Abate generale – 24/10/1926.

[5] Vitorchiano – Cronache – 1875/1975, p. 142.

[6] M. Della Volpe, La strada della gratitudine, Jaca Book, Milano, II ed., 1996, p. 92.

[7] E. Francia, Lettere e scritti di Madre Pia, Roma 1971, p. 92.

[8] Lettere delle sorelle di La Fille-Dieu, 1959.

Lo Studium del priorato Sainte-Marie di Bouaké

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Notizie

 

Lo Studium del priorato

Sainte-Marie di Bouaké (Costa d’Avorio)

Segretariato dell’AIM

 

 

Ci piace presentare qui l’iniziativa di formazione nel monastero di Bouaké come esempio di una proposta di grande equilibrio tra la formazione alla vita monastica e la formazione filosofico-teologica. Questi due elementi sono infatti ambedue necessari per la vita futura delle nostre comunità in un mondo in continua mutazione.

 Nel 2016, per favorire la formazione dei monaci in vista dell’avvenire della comunità, padre Jean-Luc Molinié, superiore del monastero di Bouaké e monaco dell’abbazia di En Calcat (Francia) ha realizzato uno Studium di formazione filosofico-teologica collegato al corso di studi della Facoltà di teologia dell’UCAO (Università cattolica dell’Africa Occidentale di Abdjan).

È stata redatta una convenzione tra lo Studium e la Facoltà per quanto riguarda il corso di studi (programma e monte ore), i professori della Facoltà coinvolti, come pure la questione dei gradi accademici. La convenzione prevede anche una formazione più centrata sulla vita monastica tenendo conto del fatto che lo Studium forma dei monaci (studi biblici, patristici, teologia spirituale, liturgia). Il ciclo di studi previsto a l’UCAO in due anni diventa di cinque per lo Studium. Alla fine del percorso di studi, l’Università rilascia un riconoscimento ufficiale dei crediti conseguiti come pure il baccalaureato canonico per gli studenti di teologia.

Per ridurre al minimo le spese di viaggio, sono stati creati dei legami con la Facoltà di filosofia dell’università Alassane Ouatarra, a Bouaké in accordo con la Facoltà di filosofia dell’UCAO.

Il ciclo di teologia dello Studium si svolge ogni anno da febbraio ad aprile e il ciclo di filosofia da ottobre a dicembre.

Proposto dapprima ai fratelli in formazione a Bouaké, lo Studium si è aperto nel 2020 ai monaci e alle monache, religiosi e religiose di altre comunità francofone africane. Questa diversità è una bella opportunità per gli studenti al fine di arricchire la loro esperienza di vita e di approfondire la loro riflessione sulla vita religiosa e monastica in Africa.

Il numero degli studenti si aggira tra i dieci e i venti e provengono dalla Costa d’Avorio, Burundi, Congo-Brazzaville, Gabon, Togo, Rwanda. I partecipanti appartengono non solo a comunità benedettine, ma anche altri Istituti come la Fraternità monastica Gesù Eucaristia (di Gagnoa), i chierici di Saint-Viateur e la comunità fondata da p. Zacharie in Burundi.

Il finanziamento dello Studium è assicurato da un contributo da parte degli studenti e dal sostegno dell’AIM: spese di viaggio dei professori delle Facoltà, vitto e alloggio degli studenti e costo dei corsi.

Professori

Per assicurare la continuazione del progetto dello Studium è necessario che qualche fratello possa garantire una parte della formazione oltre a quanto viene fatto dai professori delle varie facoltà. Poiché lo Studium è sotto la responsabilità accademica dell’UCAO, solo i fratelli che hanno una licenza possono insegnare. Il direttore dello Studium deve invece aver conseguito un dottorato. Alcuni fratelli della comunità di Bouaké, che hanno già terminato gli studi di teologia, continuano i loro studi al Centro di formazione dei domenicani di Yamoussoukro oppure all’Istituto di Teologia dei gesuiti dell’Africa Occidentale di Abidjan per poter, a suo tempo, assicurare alcuni corsi allo Studium.

Dove si tengono i corsi

A partire dal 2004, dopo i violenti scontri che hanno scosso il Paese, la comunità ha cercato di rilanciare il dispensario per la popolazione circostante. Su invito delle autorità sanitarie del Paese, il progetto si è trasformato in un grande centro di salute pubblica: maternità, laboratorio, dispensario… Purtroppo tutta una serie di difficoltà non hanno permesso di proseguire questo progetto: mancanza di fondi, cattiva gestione da parte del personale, manutenzione dei locali, spese di gestione, ecc. Per questo la comunità ha deciso di abbandonare questo progetto e di trasformare i due immobili in centro di accoglienza degli studenti dello Studium di formazione filosofica e teologica. L’AIM ha partecipato a livello economico al riadattamento dei locali attualmente in uso. Durante i sei mesi annuali di formazione, i due immobili accolgono questi studenti per la loro vita e la frequentazione dei corsi; per il resto dell’anno, i locali sono a disposizione di gruppi di giovani per ritiri spirituali.


L’anno propedeutico

L’arrivo di nuovi studenti ogni anno rende necessaria una riflessione adeguata per il loro inserimento nel corso di studi in quanto si aggiungono a studenti che hanno già a loro attivo un certo numero di corsi. Inoltre, l’esperienza dei primi anni di Studium ha mostrato come fosse necessario prevedere un tempo di formazione in filosofia e teologia propedeutico a corsi più approfonditi, anche quando lo studente sceglie solo il percorso di teologia. In effetti, le sfide attuali della società unitamente alle questioni e problematiche che nascono nelle comunità religiose rendono necessaria l’acquisizione di un minimo di formazione filosofica per poterle comprendere e avviare un corretto lavoro di riflessione. Per questi due motivi – e a condizione di avere almeno cinque nuovi studenti per l’anno – lo Studium sta per organizzare un tempo propedeutico obbligatorio di circa nove mesi per tutti gli studenti che sopraggiungono. Questo tempo comprende una sessione di filosofia di tre mesi consecutivi (introduzione alla filosofia, metodologia, ermeneutica, antropologia, politica, filosofia antica, sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino), una sessione di teologia di tre mesi consecutivi (introduzione alla Bibbia, al Nuovo Testamento, alla teologia, metodologia, teologia fondamentale, i sacramenti, articolazione di filosofia e teologia, vita intellettuale e spirituale, introduzione al Diritto canonico, i primi secoli…), cui segue un periodo di revisione e di eventuali esami. Questa formazione di base può essere utile per quei fratelli e sorelle che non possono impegnarsi per più anni nel percorso dello Studium.


Avvenire

Lo Studium sembra ormai ben organizzato e il suo funzionamento è assicurato.

Sarà utile rendere accessibile agli studenti dello Studium i testi della biblioteca di Bouaké. È in corso una riflessione per costruire un locale-biblioteca adatta al loro lavoro e per le loro ricerche.



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