La formazione monastica oggi
(2a parte)
Estratto del Bollettino dell’AIM • 2021 - No 120
Riepilogo
Editorial
Dom J.-P. Longeat, osb, Presidente dell’AIM
Allenarsi nella corsa della vita monastica
Lectio divina (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Siamo formati “stando con”
Dom Maksymilian R. Nawara, osb
Prospettive
• La formazione alla vita monastica
Dom Gregory Polan, OSB
• Il terreno fertile della formazione monastica (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Dom Mauro-Giuseppe Lepori, OCist
• L'Istituto monastico benedettino di BECAN (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
P. Peter Eghwrudjakpor, OSB
• Formazione Ananie
Suor Marie Ricard, OSB
• Formazione monastica in Vietnam (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Suor Marie-Lucie, OCist
• Formazione monastica in Tanzania (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Fr Pius Boa, OSB
• Sessioni di formazione presso il monastero di Mvanda (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
M. Anna Chiara Meli, OCSO
• Una risposta benedettina inglese alla sfida della formazione continua (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Padre Chad Boulton, OSB
Testimonoanze
Gli studi teologici in monastero
Suor Claire Cachia, OSB
Apertura sul mondo
Sfide per i cristiani e per la vita consacrata in un mondo turbolento
Prof. Italo De Sandre
Une pagina di storia
Il monastero San Benedetto di Volmoed
Fr. Daniel Ludik, OHC
Monaci e monache, testimoni per il nostro tempo
• Madre Marie-Chantal Modoux
La comunità di Encontro (Brasile)
• Charles de Foucauld (Non pubblicato nel bollettino, vedi in francese, inglese o germano)
Padre Michael Davide Semeraro, OSB
Notizie
• La fondazione di Vitorchiano in Portogallo (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Le sorelle di Palaçoulo, OCSO
• La fondazione al Cairo (Non tradotto in italiano, vedi in francese, inglese o germano)
Fr Maximillian Musindal, OSB
• Abbazia Sainte-Marie-du-Désert
Le Village de François
Editoriale
Il tema della formazione è inesauribile. All’inizio non pensavamo certo di dedicare a questo tema due numeri del Bollettino, ma a quanto pare non basteranno. Il fatto di parlare della formazione monastica implica necessariamente un certo approccio al fenomeno monastico in quanto tale e, più ampiamente, si tratta di un modo di considerare la fede cristiana e la sua trasmissione.
[…].
Il Padre Abate Primate ci offre il suo punto di vista sul tema della formazione come pure il Padre Abate generale dei cistercensi.
Vengono poi presentati vari esempi di esperienze concrete di formazione unitamente ad alcune testimonianze, come pure si evocano alcune iniziative.
Italo de Sandre condivide le sue preoccupazioni circa i rapporti tra la vita monastica e il mondo attuale.
[…]
Lasciamoci dunque “informare” in modo profondo, così da poter realizzare la nostra vocazione. In questo tempo di crisi, è giunto il momento – mai come adesso – di coltivare quegli aspetti fondamentali che ci permettono di superare gli ostacoli e di costruire un mondo nuovo.
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Articoli
Allenarsi nella corsa della vita monastica
1
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Allenarsi nella corsa della vita monastica
Nell’ultima parte del prologo della sua Regola, san Benedetto presenta il monastero come una scuola del servizio del Signore. Questo significa che Benedetto intende fare della vita monastica un ambito di formazione permanente. Nello stesso prologo, Benedetto offre qualche materia dell’insegnamento che viene impartito in questa scuola; la prima e la più importante di queste materie è proprio l’ascolto esercitato in vista della messa in pratica, in modo efficace, del comandamento della carità.
Mi si permetta di evocare a questo punto uno dei versetti del prologo che, così mi sembra, offre un utile aiuto per il tema della formazione. San Benedetto non mira semplicemente alla perfezione di un’osservanza esteriore, che sarebbe in realtà il segno di riuscita alquanto illusoria nella cornice propria del tempo in cui viviamo; Benedetto si sofferma soprattutto su una prospettiva che integra la dimensione della vita eterna già attiva nell’ora presente ed è in continuo divenire aldilà del limite dell’oggi in cui si vive. È questa la ragione per cui Benedetto cita questo versetto giovanneo che sembra caratterizzare al meglio il fine della vita benedettina:
«Correte mentre avete la luce della vita, perché non vi sorprendano le tenebre della morte» (Gv 12,35 citato in RB, Prol. 13).
In san Giovanni, quando si parla della luce viene indicato il mistero di Cristo stesso, mentre le tenebre indicano l’avversario. San Benedetto interpreta questo versetto in modo un poco diverso e quasi lo deforma aggiungendovi qualcosa: «della vita» in riferimento alla «luce» e «della morte» in riferimento «alle tenebre». In tal modo insiste fortemente sul dramma della scelta che l’essere umano è chiamato a fare cogliendo l’opposizione tra il breve tempo della vita terrestre e il lungo «tempo» della morte eterna. Così Benedetto insiste in modo particolare sulla corsa necessaria e in tal modo ne accentua il carattere di urgenza.
1. Conseguenze di una prospettiva escatologica
I monaci sono chiamati a vivere in modo assai particolare: in una prospettiva escatologica. Lo stesso san Benedetto ammette che i doni dell’eternità sono in parte già offerti quaggiù (cfr. RB 7; 72 e 73) e così delinea l’attività del monaco proprio in questa tensione verso quel non-ancora accolto nel suo eterno divenire. Un certo numero di versetti della Regola evoca concretamente questa prospettiva. Infatti, san Benedetto invita il monaco a «desiderare con tutto l’ardore dell’animo la vita eterna» (4,46) come pure ad agire con «uno zelo buono che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita» (72,2); proprio per questo i monaci «nulla assolutamente antepongano al Cristo il quale ci conduca alla vita eterna» (72,11). Per questo san Benedetto si rivolge ai monaci in maniera pressante: «Corriamo e operiamo all’istante tutto ciò che ci può giovare per sempre» (Prol. 44). Di fatto, nella vita monastica, non facciamo altro che formarci e prepararci alla vita sovrabbondante del Regno eterno. Quanto all’abate: «Sempre si deve ricordare che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto…» (2,6.34.37.38.39-40).
Bisogna ricordare a questo punto la preghiera caratteristica della vita monastica, quella delle Vigilie che è un tempo di veglia teso verso la venuta di Cristo nella speranza della luce. Non c’è niente in questo che non sia semplicemente cristiano, ma i monaci accentuano in modo particolare questa dimensione. Del resto, è ciò che caratterizza al meglio la particolarità della vita monastica attraverso questo modo di rapportarsi al tempo e allo spazio che si differenzia dal modo consueto con cui gli umani vivono, appunto, il tempo e lo spazio. È una delle ragioni che rendono più difficile comprendere e persino accettare la vita dei monaci.
2. Correre
Il fatto di considerare la vita di quaggiù come un breve passaggio, in vista di una vita eterna già ora e dopo la morte, rappresenta per i monaci un invito a non perdere tempo e quindi a correre verso il fine ultimo. San Benedetto ritorna più volte su questo tema. Prima di tutto troviamo una sorta di principio generale:
«Se poi, fuggendo il castigo dell’inferno, noi desideriamo giungere alla vita eterna, mentre c’è ancora tempo per farlo, mentre cioè siamo in questo corpo e perdura l’oggi della vita presente, corriamo e operiamo all’istante tutto ciò che ci può giovare per sempre» (Prol. 42-44).
Questo passo è molto vicino alla citazione di Gv 12,35 (vedi sopra). In concreto, se si vuole vivere così, bisogna avere a cuore il desiderio di abitare nella dimora del Regno sapendo che non vi si potrà arrivare «senza correre con ardore nel compiere il bene» (Prol. 22). Così proprio «avanzando nel cammino di conversione e di fede, si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti» (Prol. 49). Possiamo cogliere la conseguenza di questa disposizione interiore nella quale il monaco ha messo il proprio desiderio: ha rivolto il suo cuore verso la vita eterna e ciò produce una tale dilatazione da farlo correre ormai sulla via dei comandamenti di Dio; il comandamento si ritrova ad essere quello che è in realtà. Non un ordine da compiere come imposizione esterna, ma come orientamento secondo il termine greco entolé, da en telos: ciò che conduce verso il fine.
Dopo aver posto questo principio di base, san Benedetto può delineare delle situazioni particolari il cui senso non lo si può cogliere se non in relazione a questo fine. L’abate, per esempio, «sia estremamente sollecito (currere) e si prodighi con tutta saggezza e perspicacia per non perdere nessuna delle pecore che gli sono affidate» (RB 27,5).
Il capitolo quinto della Regola si delinea interamente nella prospettiva di una vita sollecita nel rispondere all’appello ricevuto. Il verbo currere non viene impiegato, ma si trovano espressioni particolarmente forti che mettono il soggetto nella stessa disposizione della corsa in un continuo slancio verso la vita eterna:
«Questi dunque – sia pure consapevoli dell’impegno assunto con la professione monastica, sia perché presi dal timore (metum) dell’inferno e accesi dal desiderio della vita eterna, appena (mox) un superiore ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono sopportare alcun indugio nel compierla. Costoro interrompono dunque all’istante le loro occupazioni; si staccano dalla loro propria volontà, subito (mox) pronti con le mani libere, lasciano incompiuto ciò che stavano facendo, e con una obbedienza che mette le ali ai piedi, seguono immediatamente la voce di chi comanda. Avviene perciò che, prendendo impulso dal timore di Dio, l’ordine dato dal maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi, con una simultaneità sorprendente. E questo si verifica in quelli che, premuti dall’amore, sentono l’urgenza di raggiungere la vita eterna» (5,3.7-10).
Il dinamismo dell’obbedienza vale anche per la risposta del monaco ai segnali che chiamano alla preghiera:
«Così i monaci si tengano sempre pronti, e appena è dato il segnale, si alzino senza indugio e si affrettino cercando di prevenirsi a vicenda nell’andare all’Opera di Dio; sempre però con contegno pieno di gravità e di riserbo» (22,6).
Per due volte troviamo questo riferimento nella Regola:
«Quando è l’ora dell’Ufficio divino, appena udito il segno, si lasci tutto quanto si ha tra mano e si accorra con grande premura, ma insieme con gravità, per non offrire pretesto alla dissipazione» (43,1-2).
La prima citazione è tratta dal capitolo in cui si parla del modo in cui dormono i monaci e la seconda dal capitolo in cui si tratta di coloro che arrivano in ritardo per la preghiera o alla mensa. Bisogna riconoscere che possiamo riconoscervi una caratteristica della vita benedettina. È sempre molto toccante vedere come nei nostri monasteri i monaci accorrono in chiesa per l’ufficio divino aldilà delle ragioni per cui vi ci si recano; non è poi così sicuro che lo facciano per non perdere l’accesso alla vita eterna!
Infine, vi è un’altra dimensione dell’accorrere nella vita del monaco che san Benedetto evidenzia: l’accoglienza di un ospite o di qualcuno che bussa alla porta del monastero:
«Appena un ospite viene annunziato, subito gli vadano incontro (occurratur) l’abate e i fratelli, con ogni premurosa attenzione suggerita dalla carità» (53,3).
«Appena (mox) uno bussa alla porta, o un povero chiama […]. Risponda davvero con tutta la mansuetudine che infonde il timore di Dio e con quella prontezza (festinanter) che deriva dal fervore della carità» (66,3-4).
Ecco qui un’altra caratteristica della nostra vita benedettina, anche se oggi è talvolta ben difficile far fronte con trasporto a tutte le domande tanto che, spesso, un minimo di distanza si impone, perché si possa offrire al meglio il servizio della carità.
Questo tema della corsa trova le sue radici nella Bibbia. La stessa Parola di Dio si lancia gioiosamente per fare la sua corsa (Sal 18). Si lancia dal trono regale (Sap 18,5); Dio manda la sua parola che corre veloce (Sal 147,15). Gli uomini di Dio, i veri profeti, i sacerdoti santi e i re giusti corrono per mettere in pratica la Parola: «Come sono belli i piedi dei messaggeri di pace».
Le folle accorrono dal Battista nel deserto come pure verso Gesù lungo tutto il suo ministero pubblico. Maria parte in tutta fretta per visitare sua cugina Elisabetta dopo l’annunciazione. Con Gesù, in certi momenti, non si ha più neanche il tempo di mangiare.
I discepoli corrono verso la tomba e ritornano sempre di corsa per annunciare la risurrezione del Signore.
Dopo la Pentecoste, i discepoli corrono da tutte le parti per proclamare il Vangelo fino agli estremi confini del mondo. San Paolo corre verso la meta (Fil 3).
È urgente correre per la Buona Novella, sia per ascoltarla che per proclamarla, poiché il tempo si fa breve:
«Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, non c’è più tempo da perdere, convertitevi e credete al Vangelo».

3. Correre senza fretta in questi tempi che sono gli ultimi
In conclusione, ecco qualche sottolineatura su questo tema di una formazione, di un esercizio nella pratica monastica così caro a san Benedetto.
I monaci corrono e accorrono: è una cosa evidente in tutti i monasteri. Ma di quale corsa si tratta? Si tratta della corsa di chi ha preso coscienza che la vita è talmente breve che non c’è più tempo da perdere?
La nostra agitazione è spesso il risultato della pressione della società contemporanea: lavoro, amministrazione e persino lo svago sono sottoposi a dei ritmi che sono da tenere a tutti i costi per non rischiare di essere messi fuori gioco e persino marginalizzati. In molti settori si è costretti a scadenze molto dure. Ma possiamo accontentarci di questo? La nostra corsa non si deve continuamente volgere verso il desiderio più grande che è quello del compimento della vita in Dio nella comunione della fraternità umana?
I monaci sono essenzialmente, come tutti i cristiani ma forse in modo ancora più sensibile, uomini dell’ottavo giorno. L’ottavo giorno si pone aldilà dei giorni: l’aldilà della storia nella storia.
Il senso della vita monastica sta proprio nell’uscire dal secolo, nel duplice senso della parola. Detto altrimenti suona come una presa di posizione, più o meno detta, che permette di vivere nel mondo senza essere del mondo.
Questa presa di posizione viene fatta in vista di un’esperienza di Dio attraverso la liberazione dalla tirannide delle passioni e per mezzo della preghiera, attraverso cui ci si sottrae alle costrizioni di un’epoca in cui il tempo e lo spazio non sono più organizzati in vista di questa priorità.
Se bisogna correre bisogna farlo proprio in questa direzione sulle vie dell’amore compiendo quelle buone opere di cui si parla nel capitolo quarto della Regola, sulla via dei comandamenti con cuore dilatato, nella preghiera, alle ore degli Uffici, nell’obbedienza, nella sollecitudine verso i peccatori, per non perdere nessuna delle pecore del gregge, nell’accoglienza degli ospiti o di quanti bussano alla porta del monastero.
Si tratta di rompere con la mentalità del mondo e questo senza nessun disprezzo, ma coltivando una gerarchia di valori diversa.
Da parte nostra ci diamo veramente i mezzi per un simile apprendistato di un esercizio interiore come questo e di una formazione che vada in questo senso?
Nous sommes formés en « étant avec »
2
Lectio divina
Dom Maksymilian R. Nawara, osb
Abbé Président de la congrégation de l’Annonciation
Nous sommes formés en « étant avec »
« Le lendemain encore, Jean se trouvait là avec deux de ses disciples. Posant son regard sur Jésus qui allait et venait, il dit : “Voici l’Agneau de Dieu”. Les deux disciples entendirent ce qu’il disait, et ils suivirent Jésus. Se retournant, Jésus vit qu’ils le suivaient, et leur dit : “Que cherchez-vous?” Ils répondirent : “Rabbi – ce qui veut dire Maître, où demeures-tu ?”. Il leur dit : “Venez et vous verrez”. Ils allèrent donc, ils virent où il demeurait et ils restèrent auprès de lui ce jour-là. C’était vers la dixième heure (environ quatre heures de l’après-midi). » (Jean 1, 35-39)
Jean-Baptiste est le messager venu comme témoin de la lumière (Jn 1, 6), il a rendu droit le chemin pour le Seigneur (Jn 1, 23), afin de faire connaître l’Agneau de Dieu (Jn 1, 29). Il connaissait Jésus et l’attendait, mais il avait besoin de temps avec Jésus pour se former.
Dans l’évangile de Jean, le Baptiste en conversation avec les pharisiens révèle son identité : « Je ne suis pas le Messie » (Jn 1, 20-27). Très peu de temps après, l’Évangile dit : « Le lendemain », Jean rencontra Jésus et le reconnut, rendant ce témoignage à ses disciples : « Il est le Fils de Dieu » (Jn 1, 34). Malgré cela, après avoir entendu les nouvelles au sujet de Jésus, alors que Jean était en prison, il envoya des messagers à Jésus pour lui demander : « Es-tu celui que nous attendons ? » (Mt 11, 3). Nous voyons clairement qu’il avait besoin de temps avec Jésus pour se former.
Nous vivons à un moment de l’histoire où le progrès technologique nous permet de faire beaucoup de choses plus efficacement et plus rapidement. Nous avons accès à diverses choses beaucoup plus facilement. De plus, l’accès au savoir est à portée de main et l’enseignement à distance est disponible à l’intérieur de la clôture. Dans le même temps, un jour est toujours fait de vingt-quatre heures et une semaine, de sept jours. Il semblerait que nous ayons plus de temps et pourtant… nous vivons à une époque où nous manquons encore de temps. Même dans les monastères, on entend souvent des moines ou des moniales se plaindre de ne pas avoir assez de temps pour faire tout ce qu’ils voudraient.
L’Évangile nous arrête et attire notre attention sur les fondements de toute formation humaine. Il faut du temps pour qu’une rencontre devienne une connaissance. Il faut du temps pour qu’une connaissance soit un témoignage. Sans ce temps-là, le témoignage n’a aucune valeur car il manque d’expérience.
Allez avec Jésus
Deux disciples de Jean ont entendu leur Maître parler de l’Agneau de Dieu et sont allés à la suite de Jésus. Une nouvelle étape commence pour eux : les disciples de la Voix deviennent des disciples de la Parole.
Suivre Jésus, suivre le même chemin que le Fils, est une synthèse de l’expérience chrétienne. Le christianisme n’est pas un recueil de belles histoires ou d’impératifs moraux ; c’est la réalité de la personne de Jésus qui est suivie parce qu’elle est aimée : « Qui me suit aura la lumière de la vie et il ne marchera jamais dans les ténèbres » (Jn 8, 12).
En Jean 1, 36, Jésus se tourne vers ceux qui le suivent, et pour la première fois (dans l’évangile de Jean) il ouvre la bouche et prononce ses premières paroles, sous la forme d’une question : « Que cherchez-vous ? ». Cette question est cruciale pour de nombreuses raisons. Qu’est-ce que je recherche dans ma vie, dans mon travail, dans mes relations ? Qu’est-ce que je recherche dans l’Église, dans ma communauté monastique ? Toutes ces questions et bien d’autres sont importantes à poser à tous les niveaux de la formation monastique. La question de Jésus est également liée au temps, elle est très juste : « Je passe du temps sur ce que je recherche. Qu’est-ce que je recherche pour lequel j’investis du temps ? ».
La réponse des disciples n’est pas directe. Ils ne disent pas : « Nous cherchons ceci et cela », ils ne disent même pas : « Nous cherchons le Messie ». Ils posent une autre question : « Où demeures-tu, Rabbi ? ». Cette question exprime leur profond désir d’être avec Jésus. Et Jésus répond : « Venez et vous verrez ».
C’est là que commence le chemin du disciple de la Parole. Passer des idées, théories, déclarations, manifestations et slogans au partage de la vie. Partager ma vie, c’est partager mon temps avec quelqu’un, avec ce Quelqu’un que j’ai rencontré, avec Jésus. Il n’y a pas d’autre moyen de vraiment connaître Jésus que de partager du temps avec lui : dans la prière, la lectio divina et la fraternité. Mais cette vérité est étroitement liée à une réponse honnête à la question : « Qu’est-ce que je recherche ? » Qu’est-ce que je cherche pour lequel j’accepte de perdre du temps ?
Partage
L’Évangile dit : « Ils allèrent donc, ils virent où il demeurait et ils restèrent auprès de lui ce jour-là ». Encore une fois, nous revenons à ces affirmations clés : il faut du temps pour qu’une rencontre devienne une connaissance. Il faut du temps pour qu’une connaissance soit un témoignage. Le fruit du temps passé avec Jésus est le témoignage : « Nous avons trouvé le Messie », nous avons trouvé la lumière de la vie.
La formation monastique est principalement axée sur le partage. Partager la vie quotidienne, le temps, le travail, tout. Comment pouvons-nous apprendre à vivre ensemble si nous ne partageons pas quotidiennement du temps avec nos frères et sœurs ? Comment pouvons-nous connaître Jésus si ce n’est en partageant notre temps avec lui ? Une connaissance deviendra un témoignage avec le temps. Sur le chemin monastique, nous sommes formés en étant avec lui, ainsi qu’avec nos frères et sœurs.
« Venez et vous verrez, je veux tout vous dire. Je vous guiderai jour après jour. »
La formazione alla vita monastica
3
Prospettive
Dom Gregory Polan, OSB
Abate Primate
La formazione alla vita monastica
Lo sforzo essenziale della formazione monastica è la trasformazione del cuore. Per parlare del cuore umano la prospettiva biblica può essere un buon punto di partenza. Nella Bibbia, il cuore è il luogo di ciò che attualmente potremmo descrivere come la risultante della capacità mentale combinata con la coscienza emozionale.
La filosofia dell’antica Grecia, che ha fondato e influenzato il pensiero occidentale per molti secoli, separava il cuore e la mente in due funzioni distinte della persona. In quanto segue vorremmo adottare la visione biblica e considerare che il cuore e la mente possono funzionare in armonia.
Durante la formazione monastica acquisiamo molte informazioni concernenti le antiche tradizioni, i personaggi storici e il modo in cui alcuni uomini e donne hanno sviluppato e fatto evolvere la vita monastica lungo i secoli.
Quanto è così ricevuto deve certamente essere meditato affinché ognuno se ne appropri nel corso del tempo per farne una disposizione interiore. Non scegliamo forse di integrare le tradizioni, i valori e gli insegnamenti della formazione monastica nella nostra vita proprio per apportarvi i cambiamenti utili al bene della nostra anima? Questa unione armoniosa della mente e del cuore ha un’importanza duratura nella misura in cui consideriamo il processo di formazione come un’opera di tutta la vita. I suoi inizi sono dunque particolarmente importanti poiché stabiliscono il ritmo richiesto per la conversione e la trasformazione del nostro cuore lungo tutta la vita.
Accordare un ruolo centrale al nostro cuore è l’impresa di tutta la vita; si potrebbe dire che la formazione è un viaggio del cuore che, una volta iniziato, rimane attento al sussurro discreto della voce di Dio nella nostra vita. L’Antico e il Nuovo Testamento offrono entrambi degli esempi che possono aiutare a trovare un senso al cammino di formazione.
Nell’Antico Testamento, il popolo ebraico, nel deserto, ha progredito dalla schiavitù in Egitto verso la libertà nella Terra Promessa, sotto lo sguardo provvidente di Dio. Nel corso di questo viaggio ha conosciuto tutti gli aspetti dell’esperienza spirituale: tentazioni, frustrazioni, tradimenti, paura, misericordia, compassione, conversione e, infine, compimento della promessa di Dio (Dt 8,1-18). Avendo vissuto questi incontri con il proprio peccato e beneficiato della redenzione, è stato costituito da Dio come popolo della fede.
Nel Vangelo, Luca racconta la storia del mistero pasquale di Gesù nel contesto di un viaggio, una specie di racconto di pellegrinaggio spirituale. «[Mosè ed Elia] parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. […] Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,31.51). Lo stesso Gesù ha vissuto le medesime esperienze conosciute dai suoi antenati nella fede al tempo dell’Esodo: tentazione, frustrazione, tradimento, paura, misericordia, compassione, accettazione e infine compimento della promessa di Dio. Avendo condiviso totalmente la nostra condizione umana (eccetto il peccato), Gesù ha fatto il viaggio umano dalla nascita alla morte e infine alla risurrezione.
Chi vuole compiere veramente questo viaggio, chi vuol seguire Gesù sulla via della croce, deve subire una serie di trasformazioni, sempre più profonde, del proprio cuore. Il cuore è il luogo in cui il credere, il fervore e la convinzione iniziali devono infine fare spazio a un impegno a vita per questo viaggio.

La formazione alla vita monastica deve prendere in considerazione il mondo nel quale viviamo, la cultura nella quale siamo cresciuti, i valori che abbiamo inconsciamente assunto. I progressi tecnologici che accelerano il ritmo della vita, la civiltà dei consumi con la quale ci siamo forse involontariamente integrati, il livello di rumore al quale ci siamo abituati, tutto questo fa talmente parte della nostra vita che neppure ce ne rendiamo veramente conto. Ma se qualche problema tecnico rallenta od ostacola il nostro senso di progresso o di produttività, allora capiamo quale impatto può avere la tecnologia sulla nostra vita quotidiana. È solo quando dobbiamo fare a meno di qualcosa che realizziamo quanto ne fossimo dipendenti quando l’avevamo sempre a disposizione. È solo quando ci troviamo in un luogo o in un clima di silenzio assoluto che realizziamo il peso che aveva il rumore ora assente.
Queste prese di coscienza possono divenire occasioni di scoperta e di conoscenza di sé, momenti in cui possiamo fare a noi stessi delle domande di approfondimento: «Che cosa faccio della mia vita? Dove sto andando? In che modo penso di raggiungere i miei scopi? Ho in me quella pace interiore che mi permette di rispondere a queste domande tanto profonde?».
Penso che il periodo di formazione per noi più importante sia quello che si colloca tra i 20 e i 30 anni. Usciti dall’adolescenza, entriamo nell’età adulta; cominciamo a guardare verso l’avvenire e intravediamo le domande e i problemi che avranno un impatto sulla nostra vita in futuro.
È in questi anni che si producono in noi dei cambiamenti nel modo di vivere, di comportarci, di credere. Ci siamo diretti verso la vita monastica nel corso di questi anni di formazione, oppure più tardi, dopo che c’era già stata una formazione significativa; questi anni hanno un effetto duraturo sul modo in cui noi vediamo noi stessi, in cui vediamo il nostro mondo e, soprattutto, in cui vediamo Dio.
Sono gli anni in cui cambiano molte cose: nella nostra vita, nel nostro corpo, nella nostra visione del mondo, nelle nostre capacità intellettuali, nel modo di concepire certi valori. Nel mondo d’oggi, il termine «conversione» è carico di significato. Una conversione è spesso percepita come un altro modo di concepire la vita e il suo senso, di vederla in modo ormai molto diverso; il termine suggerisce un cambiamento radicale nella vita e nello sguardo.
Ma ci sono anche delle “piccole conversioni”, delle modifiche più discrete nel modo di vivere, dei leggeri cambiamenti di direzione che si vedranno solo dopo un lungo periodo, a volte soltanto alla fine di una vita. Alcune persone scelgono di non sposarsi e non formare una famiglia prima di essersi assicurati una solida carriera. Altre decideranno di conseguire dei titoli di studi universitari per avere un impiego prima di scegliere il matrimonio o la vita monastica. Ciò che è importante, è sapere fino a che punto la persona ha scrutato il proprio cuore per prendere queste decisioni. Conosce se stessa? Ha una vita interiore? Si è data il tempo e i mezzi (attenzione, cura) per conoscere il proprio cuore?
C’è una virtù che deve essere praticata durante il viaggio monastico nelle profondità del cuore: la fiducia. La virtù della fiducia non è scontata oggigiorno, in questo mondo di promesse non mantenute, di inganni, di corruzione di persone che occupano posti importanti, in questo mondo imperniato sulla tecnologia e che cambia profondamente a una velocità prima inimmaginabile. Tuttavia per il lavoro e il processo di formazione, la fiducia rimane essenziale.
La fiducia deve innanzitutto permetterci di fare un atto di fede importante: contare su, affidarsi a, e sottomettersi a un Dio il quale, pur rimanendo invisibile allo sguardo umano, compie meraviglie agli occhi di chi ha fede.
Abramo è uno dei modelli principali quanto alla fiducia. Sapendo soltanto che qualcosa nel suo intimo lo chiamava a dei cambiamenti importanti nella sua vita, Abramo si è fidato di quella voce interiore discreta; nostra ferma convinzione è che la voce interiore che l’ha spinto fosse la voce di Dio (Gen 12-14; 22,1-19). La Vergine Maria è pure un modello di fiducia in ogni istante della sua chiamata e della sua vita di credente (Lc 1,38; 2,19; 2,51b).
Impegnarsi in un cammino di formazione e rimanervi esige quel livello di fiducia che accetterà gli insegnamenti che ci vengono dati; essi provano gli spiriti e scrutano le profondità nel processo di appropriazione che lascia sempre il tempo per trovare il luogo del cuore. In questo processo di esplorazione interiore, la fiducia è una componente sempre essenziale: all’inizio si presentano inevitabilmente delle difficoltà, ma è normale, perché passiamo dalla prospettiva laica della vita a quella della tradizione monastica. Le due presentano gioie e difficoltà, ma si deve almeno prendere la decisione di partire fiduciosi per questo nuovo viaggio, quello della formazione monastica. Il salmista, d’altronde, offre un insegnamento semplice e diretto a tutti coloro che si trovano in questa situazione: «Se ascoltaste oggi la sua voce [di Dio]! Non indurite il cuore…» (Sal 94[95],7b-8a).
Quando una persona è pronta a fidarsi, ciò la fa crescere. La fiducia ci incoraggerà a prendere il tempo sufficiente per potere assimilare i nuovi e importanti valori che ci sono proposti. Ma spesso la fiducia esigerà anche di abbandonare certe cose di questo mondo. Affinché possa prodursi un’autentica evoluzione del cuore, dovremo abbandonare certi comportamenti e atteggiamenti del passato, anche se erano attraenti e seducenti. La fiducia può costituire una vera e propria sfida: può accadere che l’accettazione di quanto ci è chiesto sia esitante e transitoria perché abbiamo paura di perdere per sempre quanto ci era familiare e confortevole. Ciascuno di noi dovrà far fronte a dei momenti difficili in cui solo la fiducia e l’amore, che crescono lentamente ma sicuramente, ci faranno avanzare. Situazioni di questo tipo ci obbligano sovente a riconoscere che occorre obbedire.
La radice della parola «obbedienza» è latina: audire = ascoltare. Alcuni lessicografi suggeriscono una sfumatura: «ascoltare dall’interno». Sappiamo quanto questo «ascolto interiore» fosse importante per san Benedetto per quanto concerne la vita monastica: è il primo imperativo della Regola. Di più, san Benedetto ci ordina di «ascoltare con l’orecchio del cuore». Non è forse un ascolto di questo tipo ciò che costruisce le fondamenta dell’edificio interiore della fiducia? Attraverso il modo in cui ne parla nella Regola, possiamo capire quanta importanza san Benedetto accordasse alla virtù dell’obbedienza per assicurare la crescita e lo sviluppo della vita monastica. Scrive nel Prologo: «Attraverso il lavoro dell’obbedienza, potrai così ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato cedendo alla pigrizia della disobbedienza» (v. 2). E verso la fine della Regola, al capitolo 71 – «L’obbedienza reciproca» – scrive: «L’obbedienza è una benedizione; i fratelli (le sorelle) devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di scambiarsela tra di loro, convinti che unicamente per questa via dell’obbedienza andranno a Dio».
San Benedetto inizia la Regola descrivendo l’obbedienza come un lavoro, ma la termina descrivendola come una benedizione.
Dopo avere eseguito un compito veramente importante, si può considerare l’obbedienza come una benedizione, come qualcosa che ci ha fatto crescere nella virtù, un’esperienza di vita nuova. Gradino per gradino, esperienza dopo esperienza, cresciamo verso un’obbedienza del cuore, favorita dalla fiducia che cresce in noi.
La Lettera agli Ebrei presenta l’obbedienza di Gesù per ispirarci e incoraggiarci: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). È sorprendente dover meditare su questo: Gesù ha dovuto imparare l’obbedienza! Il testo ci insegna anche che l’obbedienza di Gesù è per noi redentrice. Non è difficile capire che anche la nostra obbedienza può essere redentrice, nella nostra vita e in quella degli altri. Nella sua umanità, Gesù, come noi, ha compreso e accettato l’obbedienza verso colui che egli chiamava Abbà, come pure verso i genitori ai quali il Padre lo aveva affidato. Riprendiamo il brano in cui il giovane Gesù resta a Gerusalemme per intrattenersi con i dottori della Legge e i suoi genitori lo cercano ansiosamente per tre giorni. Quando, preoccupati per lui, i suoi genitori lo interrogano, egli afferma che quanto è avvenuto fa parte del piano di Dio su di lui, il che è sovente tradotto: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49). Il testo conclude: «Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Ci colpiscono due elementi: l’obbedienza di Gesù, uomo-Dio, ai suoi genitori umani, e l’identificazione del cuore di Maria come il luogo della sua meditazione su questo avvenimento, avvenimento carico di mistero sia per le parole scambiate che per l’esperienza vissuta. Gesù, nella sua umanità ci è presentato in modo tale che possiamo constatare la crescita avvenuta in lui verso quella maturità perfetta che lo porta a confidare nella volontà di Dio come la via buona per la propria vita. La nuova umanità di Gesù è quaggiù il nostro fine ultimo.
Predicando i ritiri, ho spesso spiegato quanto sia importante trascorrere delle giornate di tranquilla riflessione per ascoltare il proprio cuore. Tuttavia, ed è sorprendente, il cuore, il centro del nostro essere, è il luogo in cui a volte scegliamo di andare, a volte di evitare di andare, e perfino, in certi casi, di resistere alla possibilità di andarvi. Ma è essenziale fin dagli inizi della formazione discendere nel più profondo del proprio cuore, darsi un ritmo di vita che ci spinga a ritornarvi; altrimenti corriamo il rischio di separare la nostra vita esteriore dal nostro io più profondo, e anche da Dio… Una delle cose più tristi che possa capitare nel viaggio della vita consiste nell’evitare e perfino nel rifiutare la conoscenza di se stessi. Cadere in questa situazione può renderci stranieri a noi stessi. Torniamo invece tante e tante volte al nostro cuore, nella preghiera, nelle prove, nelle benedizioni, ricerche, smarrimenti, dubbi e – sì! – anche nei nostri peccati: vi troveremo il Dio che ci ama infinitamente.
Questo amore si rivelerà nel conforto divino che ci porta, nella consolazione e nell’insegnamento, altri benefici e benedizioni. Ci mette in relazione con quel Dio che ci ha dato la vita e continua ad aiutarci. Il vero cammino della formazione è ben espresso nella preghiera del salmista: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26[27],8-9a). Anche nei momenti in cui il volto di Dio può sembrare nascosto, possiamo volgerci verso il cuore e trovarvi il Dio d’amore e di misericordia sempre pronto a riceverci e a rinnovarci.
La terre féconde de la formation monastique
4
Perspectives
Dom Mauro-Giuseppe Lepori
Abbé général OCist
La terre féconde de la formation monastique
Je visitais récemment une communauté de moines, et pendant mon séjour j’ai pu participer à un colloque communautaire. Le sujet du colloque était l’expression très originale d’un artiste chrétien. On partageait surtout sur des images de ses œuvres, mais on avait aussi regardé ensemble, quelques jours auparavant, une vidéo sur lui, sur son parcours humain et artistique. L’échange entre les frères fut très profond, car chacun s’était laissé provoquer très personnellement par le témoignage de cet artiste. À la fin du colloque l’abbé dit, en passant, que cette année, aussi à cause de la situation créée par la pandémie, ils avaient eu très peu de moments de formation structurée, par exemple en invitant des professeurs pour leur donner des cours ou des sessions. Il se demandait ce qu’il en était de leur formation permanente. Dans la formation initiale, il se rendait compte aussi qu’on avait très peu su respecter la ratio studiorum prescrite par l’Ordre. Un malaise que je vois partagé par beaucoup de supérieurs et de communautés, surtout si elles sont petites et fragiles.
Mais il était évident qu’après ce colloque communautaire, cette communauté ne manquait pas du tout de formation permanente, justement parce qu’elle a développé au long des années une très belle culture du partage, du dialogue, de l’écoute et de la parole.
J’ai pris alors encore plus conscience que la formation monastique est vivante et efficace si elle trouve dans la communauté un champ labouré, un champ qui se laisse travailler pour accueillir la semence, la laisser germer, pousser et porter du fruit. Ou bien, pour utiliser une autre image peut-être encore plus expressive de l’enjeu de la formation, si la communauté se dispose à être une argile bien mélangée, trempée d’eau, avec une juste consistance, pour permettre aux mains du potier de lui donner la forme belle et utile qu’il veut lui destiner.
Bref, quand une communauté travaille à sa propre conversion, quand elle se forme en tant que communauté filiale et fraternelle, quand elle est, comme dirait saint Benoît, un espace de stabilité obéissante – c’est-à-dire de silence à l’écoute, dans la conversatio morum, sur un chemin de conversion de communion qui la rend vivante, alors tout contribue à sa formation, tout devient pour elle et chaque membre qui la compose une occasion pour grandir, pour s’approfondir et se dilater dans la forme parfaite du Christ, le Fils bien-aimé que le Père veut imprimer en nous par le don de l’Esprit. Seule, une communauté qui accepte d’être un chantier peut devenir une maison, une demeure, et surtout un temple de la présence de Dieu. Sans cela, même les meilleurs cours et sessions des plus hauts maîtres et professeurs n’arrivent pas à former et à faire grandir une communauté et ses membres.
Je connais des communauté petites et fragiles qui ne peuvent plus obtenir des formateurs extérieurs de qualité, mais qui sont tellement unies dans l’humilité du désir de conversion que chaque miette de vérité et de beauté leur venant de n’importe qui ou n’emporte quoi devient semence de formation et d’édification. Tout nous forme si nous avons un cœur humblement ouvert à la conversion que la conversatio monastique et communautaire nous offre et nous demande. Cela fait des communautés où l’on perçoit le cœur méditatif de la Vierge Marie, toute éveillée à ne rien perdre de l’événement du Verbe-Époux. Si cette attitude fait défaut, une communauté peut disposer de la formation la plus abondante et raffinée sans que cela la forme vraiment. La meilleure semence reste stérile si, au lieu de tomber sur un champ labouré, elle tombe sur du marbre, même précieux et poli jusqu’à briller.
Pour que n’importe quelle formation soit féconde, on ne doit donc pas négliger l’humus. Qui ne travaille pas la terre, n’aura pas de fruits au temps voulu. Et c’est cela la grande sagesse de la formation monastique : elle commence par le bas pour que même ce qui vient du plus haut, comme la Parole Dieu et son Esprit, puisse trouver accueil, ouverture, c’est-à-dire une liberté qui demande et désire, et qui ouvre la porte lorsque le Verbe frappe.
Saint Benoît a compris, à l’école de l’Évangile et des Pères, que rien ne laboure la terre mieux que la vie communautaire. Vivre en communauté rend la conversion vraiment formatrice. Sans un milieu communautaire guidé, on cède à la grande tentation, vieille comme le péché originel, de vouloir se modeler par ses propres mains. Mais nos propres mains arrivent seulement à nous maquiller, en nous regardant narcissiquement au miroir de nos ambitions et vanités. Lorsque, au contraire, notre liberté consent à ce que la vie communautaire et l’obéissance nous travaillent pour nous former selon le dessein de Dieu, alors lentement nous nous découvrons modelés du profond de nous-mêmes pour que le don véritable de notre vie porte ses fruits.
Dans ce sens, ce temps de pandémie est une grande provocation pour les communautés monastiques. D’une part, comme tout le monde, nous découvrons des moyens de formation partagée à distance qui offre aux communautés plus fragiles de nouvelles opportunités de formation. Mais cette opportunité révèle aussi sa grande limite : elle favorise la communication formatrice mais non la communion formatrice. La formation en ligne est excellente pour nous informer, mais elle n’arrive pas à nous façonner. C’est comme si on apprenait la théorie de la poterie, mais sans se salir les mains avec l’argile. Mieux encore : c’est comme si un potier montrait à l’argile les gestes qui la façonnent, sans pouvoir la toucher. Il faut alors que l’argile trouve des mains qui se chargent de la travailler. Et là on revient à la nécessité d’une réelle conversatio communautaire, qui, d’ailleurs, est redevenue particulièrement sensible lorsque le confinement a obligé les communautés monastiques à vivre dans une vraie clôture.
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Lorsqu’on a dû annuler en 2020 le Cours de Formation Monastique, que depuis presque vingt ans nous tenons pendant un mois à la Maison généralice cistercienne à Rome, nous nous sommes demandé s’il ne fallait pas le remplacer par des cours en ligne. Mais, mise à part la difficulté pratique de rassembler virtuellement des étudiants disséminés de l’Asie aux Amériques, pour nous c’était évident que nous ne pourrions pas réduire ce cours de formation aux simples leçons. Il manquerait toute l’épaisseur communautaire qui permet aux enseignements de commencer tout de suite à germer dans la vie réelle des participants, en leur apprenant la dynamique intégrale de la formation monastique qui n’est pas seulement semence, mais aussi terre qui l’accueille, qui n’est pas seulement parole, mais aussi cœur qui écoute pour vivre en communion.
Quand on médite le premier chapitre de la règle de saint Benoît, sur les genres des moines, on se rends compte que la vraie différence entre les deux bons modèles de moines, les cénobites et les anachorètes, et les deux mauvais modèles de moines, les sarabaïtes et les gyrovagues, porte sur le choix ou le rejet de se laisser former par un autre que soi-même. Les cénobites et les anachorètes confient leur désir de plénitude de vie et de sainteté aux mains de Dieu et d’une communauté guidée par une règle et un abbé ; les sarabaïtes et les gyrovagues suivent par contre leur tendance individualiste, celle qui nous hante depuis le péché originel, sans se confier à la formation par les mains d’un autre. Tous sont argile destinée à prendre une forme belle et utile, mais les premiers permettent à Dieu et à la communauté de les façonner, tandis que les autres se laissent glisser là où ils sont, prenant passivement la forme sans forme de la pente par où ils glissent. Les premiers confient leur désir de vie et de joie à un chemin qui l’accomplit ; les autres, confondant le désir profond de leur cœur avec la tendance de leur instinct, se laissent guider par la tendance elle-même qui ne conduit nulle part. Car la tendance instinctive est un désir détérioré qui se renferme sur lui-même, renonçant à l’infini vers lequel il est tendu.
La formation monastique, comme toute vraie formation humaine et chrétienne, est alors une question grave, car l’enjeu n’est pas la perfection du savoir, y compris le savoir-faire, mais la plénitude de la vie, celle pour laquelle nous sommes créés par le Père, rachetés par le Fils et animés par l’Esprit ; celle pour laquelle nous est donné le Corps du Christ qu’est l’Église, jusqu’à l’appartenance immédiate à la communauté qui nous est accordée pour que la forme de Jésus devienne la substance de notre vie en toutes ses relations.
L'Institut Monastique Bénédictin (BMI)
5
Perspectives
Père Peter Eghwrudjakpor, osb
Prieur de Ewu Ishan (Nigeria)
L’Institut Monastique Bénédictin (BMI)
BECAN (Benedictine and Cistercian Association of Nigeria)
Après de nombreuses années de préparation et de planification, nous avons enfin lancé un programme d’études et de formation pour les moines et les moniales des monastères du Nigeria. Les cours ont débuté en août 2018. Ils ont duré quatre semaines pendant cette première année que l’on peut considérer comme expérimentale. La deuxième année, 2019, ils ont duré huit semaines et, avec la grâce de Dieu, nous espérons atteindre dix semaines à l’avenir. Ainsi, cette première promotion aura été réunie pendant trois périodes en trois ans.
On notera qu’après avoir consulté l’université catholique du Nigeria (Madonna University), qui a accepté notre demande d’affiliation, il a été décidé que le prochain programme d’études pour nos futurs étudiants durerait deux ans au lieu de trois comme actuellement.
L’université délivrera également aux étudiants un certificat valablement reconnu. Chaque année les étudiants, après avoir passé deux mois d’études et d’examens, retourneront dans leurs différentes communautés puis reviendront l’année suivante pour les autres modules, ce qui fera quatre mois en tout.
Ce programme en deux ans débutera en 2021 avec la prochaine promotion, c’est-à-dire lorsque les actuels étudiants auront terminé leur cycle, en octobre 2020.
Liste des cours :
1- Initiation à la grammaire anglaise.
2- La spiritualité monastique.
3- Introduction à l’Écriture.
4- Les Pères du monachisme.
5- La spiritualité de la règle de saint Benoît.
6- Histoire du monachisme.
7- Les Pères de l’Église.
8- Initiation à la philosophie.
9- Latin.
10- Histoire de l’Église.
11- La liturgie.
12- Méthodologie de recherche et de rédaction de documents.
13- La doctrine de l’Église ; les dogmes.
14- Le droit canonique pour les religieux.
15- Les vœux.
16- La sexualité humaine.
17- La prière.
18- La théologie morale.
19- Les sacrements.
20- Le monachisme en Afrique.
21- Musique.
22- Le monachisme en Terre Sainte.
23- Initiation à la logique.
24- La philosophie africaine.
25- Initiation à l’épistémologie.
26- Métaphysique.
27- Le monachisme syrien et byzantin.
28- La vie consacrée.
29- Initiation à l’informatique.
30- Le développement humain.
Nous avons commencé la première série de cours avec vingt-quatre étudiants provenant des dix-sept monastères de notre région BECAN, quatorze professeurs et trois non-enseignants ; tous moines ou moniales de monastères nigérians.
L’équipe organisatrice comporte cinq membres. Trois restent avec les étudiants pendant tout le déroulement des cours, et deux, représentants des supérieurs monastiques, font le lien entre l’autorité du BECAN et les supérieurs, et supervisent le programme.
Notre espoir est d’ouvrir à terme ces cours à des moines et moniales provenant d’autres communautés monastiques et d’autres régions d’Afrique, du moins ceux qui peuvent communiquer en anglais. Cela garantira également la continuité à long terme de notre programme.
Financement
À l’heure actuelle chaque monastère y contribue en réglant une certaine somme par étudiant ; il donne aussi des produits alimentaires ou offre certaines choses : ceci permet d’assurer l’alimentation et le bien-être de tous les participants (étudiants et personnel). Ici, les communautés de l’association BECAN font preuve d’une très belle générosité. À la fin des stages on n’a en général manqué de rien. Les enseignants ne touchent rien mais sont remboursés de leurs frais de transport.
Il faut signaler que l’AIM-USA nous a fait un merveilleux cadeau : trois caisses de livres sont récemment arrivées. C’est une des façons dont l’AIM peut soutenir notre programme. Nous constituons progressivement une bibliothèque : tous les dons de livres sont donc bienvenus.
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La formazione «Anania»
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Prospettive
Suor Marie Ricard, osb
Comunità di Martigné-Briand, Francia
La formazione «Anania»
A partire dal 2014 esiste un programma di formazione dei formatori monastici per i paesi francofoni. Le sessioni hanno luogo ogni due anni in Francia e in Belgio.
«Anania» si definisce come una grande immersione spirituale, centrata sulla Parola di Dio e vissuta in un corpo fraterno: tale è la proposta rivolta a monaci e monache già maturi nel loro cammino comunitario!
Chi partecipa? Le sessioni si rivolgono ai monasteri benedettini e cistercensi francofoni di tutti i continenti. Le iscrizioni riguardano monaci e monache con già una formazione monastica e una certa esperienza comunitaria, fratelli e sorelle che pensano di avere delle capacità per svolgere un compito di responsabilità.
Durata: tre mesi.
Numero: tra venti e venticinque. È importante rispettare l’equilibrio monaci/monache (ma la realtà non obbedisce sempre a questo principio!).
Contenuto: più “poli”.
– Vita monastica ed Evangelo (il discepolo di Cristo vive con la Parola).
– San Benedetto.
– Il salterio.
– Storia del monachesimo.
– Accompagnamento spirituale.
– Vita comunitaria.
– Sviluppo umano. Psicologia e vita spirituale, ecc.
– La liturgia, esperienza monastica.
La formazione non ha evidentemente alcun obiettivo universitario! Il suo compito è aprire delle porte. Non si può dire o dare tutto, si tratta di formare la persona ad affrontare il suo compito di formatore o di comunicatore fornendogli degli strumenti di ricerca. L’essenziale della formazione è trasmettere la vita.
Come? La vita e lo svolgimento delle sessioni:
– I partecipanti sono stimolati a creare tra di loro una vera fraternità durante i tre mesi di vita comune: è la base necessaria per tutto ciò che deve essere vissuto. Sono sessioni di vita, non solo d’informazione.
– I primi due o tre giorni sono consacrati allo scambio, alla condivisione dei cammini di vita di ciascuno, sotto la guida di un accompagnatore competente. Ciascuno è invitato anche a esprimere quali sono le sue attese, le sue domande.
– I partecipanti vengono accolti in differenti monasteri. Per il 2018: La Pierre-qui-Vire, La Coudre (Laval), Martigné-Briand e Bellefontaine.
– Sono previsti pellegrinaggi ed escursioni.
– Un “anziano” (fr. Cyprien della Pierre-qui-Vire) accompagna il gruppo per tutto il periodo dei tre mesi. Presenza discreta ma “fondamentale per fare l’unità del gruppo”.
– Complementare, la partecipazione del pastore Pierre-Yves Brandt, professore di psicologia religiosa all’università di Losanna, eccellente conoscitore e amico della vita monastica, è stato anch’egli giudicato indispensabile; per tre volte viene a incontrare il gruppo per qualche giorno.
– Gli insegnanti sono principalmente monaci e monache; vi è anche qualche professore laico o dei professionisti di questa o quella disciplina.
Il percorso vuole offrire, attraverso dei corsi, ma anche dei gruppi di riflessione, un’intelligenza globale della nostra vita monastica. Vuole aiutare ad assumere al meglio delle responsabilità formative, così come altre responsabilità di fronte allo sguardo dei nostri fratelli/sorelle o di persone esterne. Dopo l’ultima sessione, mettiamo un accento particolare sull’accompagnamento personale offerto a ogni partecipante.
Le tappe si dispiegano nei quattro monasteri; secondo una modalità sperimentata, si comincia dalla Pierre-qui-Vire. Ogni tappa sviluppa un aspetto fondamentale:
– La Parola di Dio, zoccolo delle nostre esistenze. Al centro: il mistero pasquale.
– Trasmettere la Tradizione. È il momento di rivisitare la Regola e i grandi fondamentali: autorità-obbedienza; disappropriazione ed economia; accompagnamento spirituale.
– Affettività e celibato. Una tappa più personale che può raggiungere ciascuno in ciò che ha di più profondo, nelle sue forze e fragilità.
– Vita comune. La Chiesa-fraternità; inculturazione; vita fraterna-voti. Introduciamo un intervento tenendo presente la dimensione di ecologia integrale.
– Segnaliamo anche la ricchezza delle uscite proposte a ogni tappa.
È importante che ogni iscrizione sia sostenuta da una chiara motivazione, tanto da parte del/della superiore/a che del fratello/sorella iscritto/a. Una lettera personale del/della superiore/a accompagna l’iscrizione definitiva. Anche ogni fratello/sorella invia una lettera indicando cosa attende da questi tre mesi.
I tre mesi formano un tutt’uno, nel senso che non si possono fare delle scelte “à la carte”. Il percorso di formazione è globale: si tratta di formarsi, e non di acquisire soltanto delle conoscenze o un metodo: ciò presuppone un investimento personale, nel tempo e insieme a un gruppo stabile.
La conoscenza della lingua francese è un aspetto su cui ci permettiamo di insistere. L’esperienza ha mostrato che il fratello o la sorella che non dimostrano una sufficiente padronanza della lingua non possono ricavarne profitto, anche se questo richiede talvolta un impegno supplementare.
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La sessione del 2018
L’ultima sessione si è svolta dal 6 settembre al 28 novembre 2018 e ha visto la partecipazione di diciannove monache e sette monaci. Il gruppo era accompagnato da fr. Cyprien della Pierre-qui-Vire, che ha ascoltato ognuno e ha sorvegliato l’organizzazione. Riprenderà questo servizio alla prossima sessione… che speriamo possa esserci.
Il gruppo era caratterizzato nella sua composizione da una forte presenza africana: sedici partecipanti venivano da un paese africano. Soltanto nove provenivano dalla Francia (ma quattro non erano di origine francese e tra queste due erano africane). Si aggiunga che il solo monaco francese veniva da Latroun, in Israele.
La dimensione interculturale non era una teoria. Il bilancio ha sottolineato che le reciproche scoperte sono state arricchenti, senza cancellare le inevitabili difficoltà, malintesi, incomprensioni che ogni vita in comune genera, a maggior ragione quando i contesti culturali sono differenti. La forza del gruppo è stata il suo spirito fraterno che, dai primi giorni, si è manifestato. Sicuri di poter costruire su questa roccia, i fratelli e le sorelle non hanno esitato a parlarsi in verità quando delle tensioni potevano rovinare la fraternità. Questo aspetto ci ha colpito e va detto.
Non c’è dubbio che la danza, il canto e il ritmo non hanno mancato di colorare questi mesi! In modo molto naturale, i monasteri d’accoglienza hanno saputo integrare questo gioioso apporto durante le celebrazioni liturgiche.
Per quanto riguarda il contenuto, abbiamo tenuto conto dell’esperienza delle due sessioni precedenti, con un accento particolare all’accompagnamento personale.
Segnaliamo anche la ricchezza delle uscite, una per tappa:
– Taizé, questa volta con la possibilità di trascorrere due giorni sulla collina, in mezzo ai giovani e accolti così fraternamente dai fratelli. Una tappa a Cluny ha permesso un’apertura sulla storia monastica in Francia.
– Il monastero ortodosso di San Silvano, nella Sarthe, dove i fratelli e le sorelle hanno partecipato alla liturgia eucaristica e avvertito un po’ più intensamente la divisione dei cristiani che non possono comunicare insieme. Ma l’accoglienza è stata gioiosamente fraterna.
– Ligugé, il monastero di San Martino, conosciuta come la più antica abbazia della Gallia, fondata nel quarto secolo da san Martino. Rientrando, si è passati dall’abbazia della Santa Croce, molto vicina, che possiede una reliquia della vera Croce: la si è venerata durante il vespro.
– Candes, dove è morto san Martino, quindi l’abbazia di Fontevrault, divenuta centro culturale. Ancora una bella fetta di monachesimo da scoprire.
La sessione del 2021
All’inizio del 2020 avevamo cominciato a preparare la sessione del 2021. A motivo del contesto sanitario difficile da prevedere, ci è parso prudente rimandarla all’anno successivo. La prossima sessione avrà quindi luogo dal 7 settembre al 1° dicembre del 2022.
La formation monastique au Vietnam
7
Perspectives
Sœur Marie-Lucie, OCist
Monastère de Vinh Phuoc (Vietnam)
La formation monastique au Vietnam
Il existe au Vietnam une grande vitalité monastique. Les monastères sont au nombre de vingt-et-un dont deux monastères de bénédictines de la congrégation de Vanves, six de bénédictins de Subiaco-Mont-Cassin, trois de cisterciennes de la Sainte-Famille et neuf de cisterciens, ainsi qu’un monastère de Bernardines ; donc six monastères féminins et quinze masculins, sans compter les maisons dépendantes ou les fondations en préparation…
Tous les deux ans, une rencontre de formation de trois jours est organisée en commun pour les bénédictins et cisterciens vietnamiens portant sur l’étude d’un document du Saint-Siège concernant la vie monastique ou la vie consacrée en général.
La formation initiale est bien sûr prise en charge par chaque monastère tant pour les bénédictins que les cisterciens. Des sessions pour les formateurs ont lieu régulièrement.
La Province vietnamienne de la congrégation de Subiaco-Mont-Cassin organise une formation permanente. Chaque année, la Province a une semaine de session sur les sujets spirituels ou monastiques.
La formation philosophique et théologique se fait au monastère ou au grand séminaire ou dans un studium (franciscain, salésien,…).
La congrégation de la Sainte-Famille a mis en place une commission de formation qui se réunit régulièrement et accompagne les initiatives dans ce domaine. Pour la Congrégation, il y a des rencontres internoviciats de deux ou trois jours tous les deux ans, pour les moines d’un côté et pour les sœurs de l’autre. De même, il y a aussi des rencontres entre profès temporaires. Il y a également des sessions pour les profès perpétuels de tous les monastères de la Congrégation. La Congrégation possède aussi un studium pour les études de philosophie et de théologie pour les moines.
En 1992, pour la première fois, les cours de théologie pour les religieuses ont pu être organisés à Hô-Chi-Minh Ville grâce aux efforts de Mgr Paul Nguyen van Bình (archidiocèse de Hô-Chi-Minh Ville). Les sœurs étudiantes des trois communautés cisterciennes (Vinh Phuoc, Phuoc Thien et Phuoc Hai) habitent dans une maison à Hô-Chi-Minh Ville, aménagée en 2007 avec l’aide de l’AIM. Vingt-quatre sœurs sont en étude cette année : quinze en troisième année de théologie et neuf en deuxième année. Le lieu est aussi utilisé pour des sessions ouvertes à diverses congrégations religieuses. Durant l’année, la maison est occupée par une quinzaine de sœurs professes perpétuelles cisterciennes. La maison sert aussi comme port d’attache pour les sœurs ayant des affaires à traiter en ville.
On peut noter que des rencontres sont également organisées pour les professes perpétuelles. Enfin, il y a des sessions dans la congrégation de la Sainte-Famille pour différentes catégories de personnes, en responsabilité ou non : hôteliers, hôtelières, cellériers, bibliothécaires, profès âgés, profès d’âge mur, ou jeunes profès de moins de 40 ans.

La formation monastique en Tanzanie
8
Perspectives
Frère Pius Boa, OSB
Abbaye de Ndanda (Tanzanie)
La formation monastique en Tanzanie
Il y a quatre abbayes bénédictines de la congrégation de Saint-Ottilien en Tanzanie : Peramiho, Ndanda, Hanga et Mvimwa. Cette brève contribution présente la formation monastique reçue dans ces communautés.
Pour ce qui est de la formation initiale pendant le temps où les nouveaux venus sont regardants ou postulants, il n’y a pas de programme réunissant tous les candidats.
Concernant le noviciat et le juniorat (après la profession temporaire), il y a un programme qui rassemble tous les moines concernés pour un séminaire de travail organisé par l’Union Bénédictine de Tanzanie (Benedictine Union of Tanzania, BUT). Les novices reçoivent aussi la possibilité de participer à un séminaire en commun, une fois par an.
Les jeunes qui ont fait leur première profession et spécialement ceux qui se préparent aux vœux définitifs font une formation en commun pendant un mois. Ils sont instruits avec des thématiques données par différents professeurs autour de la règle de saint Benoît, la spiritualité, la sainte Bible, les ressources humaines pour le développement de la personne, et la comptabilité.
Il y a aussi une session d’une semaine pour les moines âgés (prêtres et frères) organisée par le centre spirituel de Ndanda (Zacheo) tous les ans.
Les formateurs ont pour la plupart suivi le programme des formateurs monastiques en anglais à Rome (Monastic Formators’ Programme - MFP). Certains d’entre eux ont suivi le cours de spiritualité monastique à Saint-Anselme, à Rome.
Beaucoup d’abbés, de prieurs ou d’administrateurs ont suivi le cours de Leadership à Rome durant ces dernières années.
Les sessions de formation au monastère de Mvanda (RDC)
9
Perspectives
Mère Anna Chiara Meli, ocso
Prieure de Mvanda (RDC)
Les sessions de formation
au monastère de Mvanda (RDC)
Le monastère Notre-Dame de Mvanda a été fondé par l’Étoile Notre-Dame (Parakou, Bénin) en 1991. Depuis l’an 2000, l’abbaye de Vitorchiano a envoyé cinq sœurs pour assumer la responsabilité du développement de cette communauté. Mvanda a été érigé en prieuré simple le 15 février 2010.
Depuis quelques années, le besoin se fait sentir à Kikwit d’offrir à de jeunes candidats à la vie monastique ou religieuse apostolique la possibilité d’une année de remise à niveau et de pré-formation. En effet, les formateurs de différentes communautés se trouvent de plus en plus confrontés au problème d’un manque de fondements solides, à la fois du point de vue intellectuel et de la structure personnelle des candidats. De ce fait, les personnes engagées dans la formation se voient contraintes de se focaliser sur des aspects qui devraient être acquis auparavant tels que la connaissance du français, un minimum de connaissance de soi, une formation catéchétique de base, etc., au lieu de se concentrer sur la formation purement monastique. Ce qui entraîne chez nombre d’entre elles un vif découragement. Et du côté des personnes en formation, le risque est réel de grandir avec des lacunes humaines et spirituelles qui seront comblées artificiellement par l’accumulation d’un savoir reposant sur des bases que la première crise risque d’emporter.
Le projet, porté par les moniales trappistines de Mvanda, a pris une forme concrète au cours du mois de mars 2014.
Début 2014 ont commencé les travaux de construction du centre destiné à accueillir les activités. Le 19 mars 2014, une première réunion de concertation a eu lieu en présence de dom Jean-Pierre Longeat, osb, président de l’AIM, Mère Anna-Chiara, ocso (Mvanda), sœur Patrizia, ocso, sœur Catherine-Noël et frère Benoît (Tibériade).
L’école est ouverte aux jeunes qui vivent depuis au moins une année complète en communauté en tant que aspirants ou postulants. La première année d’étude a commencé le 15 septembre 2014 et s’est terminée le 19 juin 2015.
Le temps de formation est prévu sur les matinées, du lundi au vendredi. Un programme est élaboré sur trois trimestres avec une progression dans l’approche de la personne :
– premier trimestre : « L’histoire et mon histoire » ;
– deuxième trimestre : « Me connaître pour me construire » ;
– troisième trimestre : « Entrer en alliance avec la Bible ».
Des cours de géographie, biologie, histoire, français, etc., sont aussi mis en place.
Depuis de nombreuses années, le prieuré de Mvanda organise aussi des sessions pour les postulants et novices des congrégations religieuses de la région, dont les monastères.
Nzonkanda ya lutondo : école de charité
Ce projet de créer une école de formation pour religieux est né d’un besoin ressenti sur place de proposer aux jeunes moines et moniales un programme de formation plus spécifiquement orientée vers la fin de leur vocation contemplative.
Toutefois, en l’ouvrant aux autres congrégations prêtes à envoyer quelques jeunes, nous espérons correspondre aux appels formulés dans le beau document de la CIVCSVA sur « La dimension contemplative de la vie consacrée », et donner ainsi aux jeunes religieux et religieuses apostoliques une assise solide à leur mission. Il est clair que nous nous inspirons de l’expérience faite en Belgique et en France avec l’Institut Théologique Inter-Monastique (ITIM) et le Studium théologique Inter-Monastères (STIM). Cependant, nous tentons d’adapter les programmes et le niveau des cours à la réalité et au rythme africains qui sont les nôtres.
Nous ne voulons pas offrir à nos jeunes une formation de type universitaire. Pour cela existent des universités ! Si nous ne pouvons pas non plus former des saints puisque c’est là une œuvre divine, nous voudrions au moins que nos religieux/ses désirent le devenir. Qu’à travers une formation humaine et théologique équilibrées, ils puissent devenir profondément amoureux du Christ et de son Église. Notre approche voudrait permettre à nos jeunes de « goûter et de voir combien le Seigneur est bon ». Une approche rigoureuse qui s’enracine dans l’Écriture et la Tradition, soucieuse de transmettre intelligemment l’enseignement de l’Église. Il ne faut pas simplement faire répéter mais assimiler pour « com-prendre » (prendre avec soi) et « con-naître » (renaître avec), faire l’expérience intime de la beauté de Dieu et de son Église.
Les enseignant/es s’efforcent de transmettre autant une méthode de travail qu’une connaissance. On exige d’eux qu’ils procurent aux étudiants une copie de leur cours et une bibliographie mise à jour autant que possible. Le parcours durant ces deux premiers cycles (surtout le premier) est, autant que faire se peut, basé sur les Écritures saintes, le catéchisme de l’Église catholique, le concile Vatican II et les dernières encycliques pontificales. En effet, nous proposons deux cycles. Le premier s’adresse aux jeunes aspirant/es, postulant/es et novices, voire jeunes profès et professes. Le deuxième est destiné aux profès et professes simples ou perpétuels. L’avenir montrera si un troisième cycle est envisageable.
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Qu’est-ce qui vous empêche de devenir « obsolètes » ?
10
Perspectives
Père Chad Boulton, OSB
Abbaye d’Ampleforth (Royaume-Uni)
Qu’est-ce qui vous empêche
de devenir « obsolètes » ?
Une réponse de la congrégation bénédictine anglaise
au défi de la formation continue
En cas de pandémie, l’horizon peut se rétrécir pour passer les jours. Dans la vie monastique, il devient peut-être de plus en plus important de se souvenir d’une perspective plus large et sur le long terme. Que signifie appartenir à une Congrégation ? Non seulement adhérer à ce qui est exprimé dans les Constitutions mais aussi à un état d’esprit favorisé par le soutien mutuel ; non seulement l’aspect formel d’une visite canonique mais le dynamisme des liens fraternels entre les maisons. Que signifie grandir tout au long d’une vie monastique ? Non seulement intégrer les exigences de la formation initiale, mais aussi la nécessité d’un développement continu, individuel mais aussi collectif.
Ces deux questions centrales ont été abordées lorsque le Chapitre général de la congrégation bénédictine anglaise a établi une Commission de formation continue en 2017, afin de « soutenir nos communautés dans le discernement des moyens nécessaires pour le développement de la formation continue ». Ils ont souligné « l’importance de la collaboration entre les monastères, (...) croyant que cela est important pour leur bien-être et même pour leur survie ».
Avant cela en cette même année 2017, la Congrégation pour les religieux (CIVCSVA) avait publié un document intitulé : « À vin nouveau, outres neuves » qui a contribué à façonner cette Commission. Le risque existe que l’on parle beaucoup de formation continue mais que très peu de choses soient réellement faites.
« Il ne suffit pas d’organiser des cours théoriques sur la théologie et d’aborder des thèmes de spiritualité ; il est urgent que nous développions une culture de formation permanente... pour revoir et vérifier l’expérience réelle vécue au sein de nos communautés. »
Le Chapitre général cherchait à s’appuyer sur le travail effectué par le Forum 2015, qui avait réuni les jeunes membres de la Congrégation, pour rassembler leurs idées et propositions sur le renouveau monastique dans la congrégation bénédictine anglaise, en particulier sur les thèmes de la « communauté » et de la « formation ». Leurs documents ont été présentés lors d’un Chapitre général extraordinaire qui a suivi immédiatement le Chapitre en cours. Ces mêmes documents ont été ensuite discutés dans chaque monastère. Le Chapitre de 2017 apportait également sa propre réflexion sur le ministère abbatial et souhaitait un travail plus approfondi sur la nature du leadership dans la Congrégation.
Il s’agissait d’un nouveau type de Commission[1] à laquelle il était demandé de ne pas produire de documents, mais d’engager les monastères dans le processus de développement d’une culture de la formation, en mettant l’accent sur un élargissement du sens de la vitalité spirituelle qui ne peut consister simplement à une mise à jour théologique ou à une formation professionnelle. Une tâche aussi vaste exigeait une certaine flexibilité dans la méthode. Six participants ont été choisis durant le Chapitre afin d’apporter l’ampleur et l’expérience nécessaires.
Dès le début, nous avons décidé de nous réunir régulièrement, dans une maison à chaque fois différente de la Congrégation. Ces rencontres nous ont permis, en tant que Commission, de développer notre propre approche et la confiance mutuelle. Nous avons toujours commencé par un tour d’horizon approfondi de ce qui se passait dans notre vie individuelle ou communautaire. À notre grande surprise et pour notre plus grand plaisir, nous avons constaté que nous nous entendions bien et que nous aimions réellement les moments passés ensemble. Chacun a apporté son expertise et son expérience, que ce soit dans l’exercice de fonctions officielles comme président, secrétaire, trésorier ou dans des rôles informels mais essentiels de « conscience », de « sage », de « scribe ».
Ces réunions nous ont également permis de rencontrer la communauté que nous visitions, de prier, de partager les repas, de discuter avec elle, et d’entendre le point de vue de ses membres sur la formation. Il est encourageant de constater que ces sessions ont attiré un grand nombre de participants et ont donné un aperçu fascinant des différents monastères. Nous commencions généralement par la question : « Qu’est-ce qui vous empêche de devenir “obsolètes” ? », ce qui a rapidement donné lieu à des réponses sur la formation individuelle et communautaire. Nous avons eu une idée des communautés dont les moines ou les moniales avaient l’habitude de se rencontrer et de celles pour lesquelles ces rencontres étaient des moments pleins de réticence et de tension.
Une partie de notre tâche consistait à organiser deux conférences par an pour cette Commission, comme « moments forts » dans le processus de développement d’une culture de la formation. La première a eu lieu en 2018. Après de nombreuses discussions sur le leadership, nous avons choisi le thème : « Prendre la responsabilité de sa communauté », en invitant non pas les supérieurs mais un échantillon plus large de quatre membres de chaque maison, en particulier ceux qui ne participent pas habituellement aux événements de la Congrégation.
Nous avons été grandement aidés par le soutien et les encouragements de l’Abbé Président, et par une consultante externe, Caryn Vanstone, qui avait déjà travaillé avec des monastères. Elle a apporté fraîcheur et rigueur à nos discussions et nous a permis d’atteindre une clarté et une cohérence qui n’auraient pas été possibles autrement. Elle a particulièrement insisté sur la nécessité de considérer cette conférence comme faisant partie d’un processus global, impliquant à la fois la préparation et le suivi. L’un des outils qui s’est avéré remarquablement utile est l’art de « l’enquête appréciative ». Cela a inversé la dynamique monastique habituelle qui consiste à se concentrer sur les problèmes : elle invitait les participants à la conférence à commencer par ce qui allait bien et à envisager comment cela pouvait se développer. Cette approche a été encouragée à la fois en interrogeant les communautés avant la conférence et en partageant leur contribution pendant la conférence.
L’événement lui-même a été généreusement accueilli par l’abbaye de Buckfast, et superbement facilité par Caryn et son mari Bruno. Il y a eu quelques discussions formelles, mais l’accent a été mis sur l’engagement des délégués, regroupés en ateliers, avec une progression sur les quatre jours, stimulant les contributions, puis en laissant le temps de donner du sens et de faire le point, afin de dresser un plan d’action. Un élément central de l’ensemble de la réunion était la question héritée des abus sexuels sur les enfants auquel la Congrégation est confrontée par le biais de l’enquête publique IICSA (Independent Inquiry into Child Sexual Abuse). Les participants ont donc fait preuve à la fois d’honnêteté et d’humilité dans la planification des partages à l’intérieur des communautés. Les résultats ont été présentés aux supérieurs qui ont assisté à la dernière journée. Après la conférence, les communautés ont été invitées à sélectionner un de leurs délégués pour un programme de formation à la facilitation organisé par Caryn et incluant la congrégation Saint-Ottilien.
La deuxième conférence pour 2020 devait se concentrer sur les supérieurs, mais aussi impliquer ceux que les communautés avaient élus comme délégués pour le prochain Chapitre général. L’objectif était double : doter les supérieurs « d’outils faciles » de leadership et développer une nouvelle façon de se réunir en tant que Congrégation qui pourrait ensuite influencer le processus du Chapitre général. Cependant, toutes nos discussions et tous nos plans ont été dépassés par les restrictions de la COVID et nous avons dû repenser tout cela. Forcés de nous réunir « en ligne », nous avons continué à nous rencontrer tous les quinze jours, et avons finalement décidé d’offrir une série de webinaires[2] à toute la Congrégation, avec un exposé de vingt minutes débouchant sur quarante minutes de questions et de commentaires. Il y avait une variété d’intervenants, monastiques, religieux, laïcs, mais ils ont tous abordé des aspects différents de la crise pandémique. Ceux-ci ont eu beaucoup de succès et ont permis aux différentes maisons de se voir et de s’entendre, ne serait-ce que sous forme de fenêtres sur un écran Zoom. Nous venons également de commencer des rassemblements mensuels en ligne pour ceux qui doivent aller au Chapitre général, les supérieurs, les délégués et les officiels, en petits groupes. Nous espérons que cela permettra aux capitulaires de mieux se comprendre et de collaborer plus étroitement les uns avec les autres afin de permettre un Chapitre général plus fructueux.
Les douze derniers mois ont été particulièrement difficiles, mais les quatre années de notre mandat ont été tout aussi exigeantes. Notre travail s’est ajouté à nos engagements déjà existants, qui ont eux-mêmes changé au cours de cette période, puisque certains ont pris de nouvelles fonctions, comme celles de supérieur, de chef d’établissement, de prieur. Dans cette phase finale, nous réfléchissons maintenant à la manière de transmettre notre travail. En réfléchissant à ce récit, je voudrais proposer quelques conclusions générales.
L’ouverture à l’Esprit
Cette commission n’a jamais été simple. Il y a eu de nombreux moments de frustration où nous avons dû faire preuve de patience, car la compréhension de notre tâche a évolué. Au milieu de toutes ces fluctuations et de toute notre activité, nous avons dû faire confiance à l’Esprit et ne pas saisir les choses de manière trop rapide comme par une lumière prématurée, préemptant ou empêchant le débat et l’échange nécessaires. Des circonstances changeantes, comme celle de la COVID, ont mis à l’épreuve cette ouverture au changement, alors que nous cherchions comment nous adapter et modifier nos projets les plus chers.
Modéliser le message
Cette tâche a été formatrice pour nous, et nous avons nous-mêmes fait l’expérience du type de « fertilisation croisée » que nous cherchons à encourager dans la Congrégation. Il y a eu une véritable communion à l’œuvre, un sentiment que le tout est plus grand que la somme des parties. L’importance de profiter de nos rassemblements, l’investissement humain dans la constitution de l’équipe ont été contrebalancés par une saine responsabilité dans le maintien de l’honnêteté de chacun.
Enracinement de la tâche
Nos visites dans chaque communauté ont été essentielles pour nous permettre de rester en contact avec la réalité de l’expérience vécue dans nos monastères. Les groupes qui se réunissent trop séparément peuvent développer leur propre langue, s’éloignant de plus en plus de leur contexte premier. En plus de leur propre communauté, chaque membre était responsable d’une ou deux communautés « de liaison », ce qui a garanti la connexion de l’ensemble de la Congrégation.
Des choses anciennes et nouvelles
Comme le maître de maison qui tire de son trésor des choses anciennes et nouvelles, nous avons essayé de combiner les forces de notre tradition monastique avec les idées de l’Église et du monde en général. Nous nous sommes recommandés mutuellement des conférenciers, des livres et des sites web. Notre consultante externe a joué un rôle crucial en partageant son expérience au sens large, dans la bonne mesure et au bon moment.
« Congrégationnalité »
La dernière réflexion revient sur les deux premières questions concernant la finalité d’une congrégation et la nature de la formation. Notre commission a développé sa compréhension de la formation, en nous faisant passer de l’individu à la communauté et enfin à la Congrégation. L’une des découvertes surprenantes a été celle de la « congrégationnalité », vécue lors de nos visites de communautés, à la conférence de Buckfast et dans les webinaires. Tout comme un rassemblement de cousins se réunissant pour la première fois peut découvrir un sens de la famille, nous avons découvert une identité commune grâce aux liens entre nos différentes maisons. Cela n’a jamais été aussi vrai qu’au cours de notre collaboration au sein de la Commission.
[1] La Commission est composée de Fr. Chad Boulton (Ampleforth), Fr. Mark Barrett (Worth), Mère Anna Brennan (Stanbrook), Fr. Cuthbert Elliott (St Louis), Fr. Francis Straw (Buckfast), Fr. Brendan Thomas (Belmont).
[2] Webinaire est un mot-valise associant les mots web et séminaire, créé pour désigner toutes les formes de réunions interactives faites par internet généralement dans un but de travail collaboratif ou d’enseignement à distance. Inscrites en ligne ou contactées par messagerie, les personnes reçoivent un lien leur permettant de se connecter et de profiter d’une plateforme dédiée proposant des échanges en visio, audio.
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Gli studi teologici in monastero
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Testimonoanze
Suor Claire Cachia, osb
Monastero di Martigné-Briand (Francia)
Gli studi teologici in monastero
Non si entra in monastero per studiare teologia, ma per affrontare un cammino di liberazione interiore che ci condurrà a non avere nulla di più caro al mondo di Cristo. Tuttavia può succedere che le circostanze permettano questi studi, e che essi siano di beneficio per la vita monastica.
Questa piccola testimonianza vorrebbe esserne l’eco. Gli studi teologici possono cominciare fin dal noviziato, grazie ai corsi ricevuti e alle letture personali, che è sempre bene poter compiere in modo approfondito all’inizio della formazione monastica.
Dopo la professione temporanea è d’uso presso di noi che un anno sia riservato all’inserimento in comunità attraverso il lavoro e la vita fraterna. Tuttavia, durante questo periodo, ho potuto realizzare un lavoro molto arricchente su sant’Ireneo, una bella porta d’ingresso nella teologia, in collegamento con un professore dell’Università Cattolica di Angers.
In seguito ho potuto partecipare allo STIM, ciclo comune di studi di tre anni di durata, che, oltre a corsi di alto livello, mi ha permesso di vivere degli scambi e degli incontri con altri giovani monaci e monache, e certi legami intessuti in quell’occasione continuano anche oggi. Successivamente ho seguito il ciclo di studi per il Baccalaureato in collaborazione con il Centro Sèvres e la sua metodologia pedagogica molto efficace. E poi ho potuto frequentare il secondo ciclo di Teologia all’università Cattolica di Angers, strutturato in un quadriennio, che mi richiedeva un solo pomeriggio alla settimana di presenza alla facoltà. Fino al conseguimento della licenza canonica.
Infine i miei studi si sono conclusi con la realizzazione della tesi all’Università Cattolica di Angers, che si concentrava sullo statuto della percezione sensibile nelle Questioni a Talassio di Massimo il Confessore. A mio parere, tutti gli studi teologici fino alla licenza canonica mirano a ottenere una certa cultura in teologia, il che rappresenta un grande lavoro vista l’ampiezza di pensiero della nostra tradizione cristiana. Ma l’elaborazione della tesi, è veramente un impegno personale e creativo nel quale è possibile aggiungere il proprio piccolo mattone all’edificio dello studio teologico, potendo così fornire una piattaforma di lavoro ad altri che ne continueranno l’impresa. Ho svolto questi lunghi studi in parallelo con i compiti che mi erano affidati in comunità, prima la cucina, poi il laboratorio delle marmellate, quello della ceramica, l’orto e il frutteto.
Vorrei ora riassumere brevemente quali sono gli apporti degli studi di teologia per la vita monastica.
Il primo punto riguarda la nostra tradizione monastica. La Regola di san Benedetto consiglia di dividere il tempo che non è dedicato all’Opus Dei tra la lectio divina e il lavoro manuale. La lectio divina è lo studio della Bibbia e dei Padri, uno studio orante e nutriente, ed è assolutamente possibile trovare questo alimento dell’anima negli studi teologici, a patto che li si affronti per una sete del mistero, e non con la segreta intenzione di trarne una gloria personale. Questo tranello d’altronde è anche presentissimo nel lavoro manuale, e san Benedetto non manca di sottolinearlo. Bisogna anche aggiungere che è nei monasteri che la cultura dell’antichità ha potuto essere conservata in Occidente e così sopravvivere agli imprevisti della storia e agli sconvolgimenti politici. Ai giorni nostri, gli scossoni che agitano la nostra società forse richiedono ancora che i monasteri siano i luoghi che permettono la trasmissione di una cultura e particolarmente quella delle lingue antiche, il cui insegnamento si è assai repentinamente rarefatto negli ultimi tempi.
Il secondo vantaggio degli studi di teologia è quello di un equilibrio umano. La nostra natura è fatta per svilupparsi in tutte le sue facoltà, e come l’esercizio fisico permette di dispiegare armoniosamente le forze del corpo, così lo studio permette di esercitare le energie dello spirito in modo proporzionato. Gli studi permettono dunque di conseguire un equilibrio, a patto che se ne possieda il gusto. Concentrarsi su un tema e approfondirlo è una disciplina che permette di decentrarsi dai propri problemi personali, di aprirsi al pensiero di altri e di ampliare il proprio mondo interiore.
Infine, il terzo aspetto che vorrei sottolineare è il più importante. Gli studi teologici possono essere un sostegno necessario alla stessa vita monastica. Nell’epoca in cui viviamo la vita monastica deve misurarsi con la sfida di repentini mutamenti culturali. È quindi assolutamente necessario essere consapevoli delle motivazioni per cui abbiamo scelto questa vita, di ciò che in essa è essenziale e di ciò che può essere completamente cambiato senza tuttavia snaturarla. Per fare questo discernimento, gli studi di teologia sono preziosi sotto molti punti di vista. Mediante il confronto con il pensiero di cristiani appassionatamente impegnati nella loro fede, questi possono suscitare un’esperienza di fede personale e intensa. Permettono ugualmente l’espressione di quest’esperienza, poiché ci danno la possibilità di dire delle parole sulle realtà interiori, dando loro così più forza, più convinzione, e rendendole comunicabili ad altri.
Concludendo, essi possono diventare un nutrimento per la fede e un “motore” per il progresso nell’unione con Dio. Confrontarsi con un autore in modo regolare e approfondito, con la prospettiva di dover rendere conto del proprio lavoro, obbliga a entrare in una struttura di pensiero molto più consistente di quando si leggono libri solo in base ai propri gusti personali. Si tratta della costruzione di una sorta di edificio interiore capace di resistere alle tempeste e ai venti contrari, che permette la strutturazione di una personalità intellettuale; una ricchezza che è anche possibile trasmettere a propria volta ad altri che ne hanno sete.
Sfide per i cristiani e per la vita consacrata in un mondo turbolento
12
Apertura sul mondo
Prof. Italo De Sandre
Sfide per i cristiani e per la vita consacrata in un mondo turbolento[1]
«Il Signore disse: Ho osservato la miseria del mio
popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7).
1. Osservare e ascoltare per conoscere: i cristiani dovrebbero sapere che sono l’inizio di ogni azione di misericordia; mutatis mutandis sono anche il cuore del lavoro delle scienze sociali. Un primo problema, una questione non sempre risolta nella Chiesa di oggi, è l’essere davvero disponibili e attivi nel vedere, ascoltare, conoscere la realtà della vita delle persone e delle società, non solo quella che va bene o quella che si vorrebbe, senza aver paura di esserne messi in questione. L’osservazione sociologica non propone un’ideologia della società (come certi ambienti cattolici anche di primo piano dicono o lasciano intendere), ma cerca di contribuire a “vedere” le cose quanto meglio possibile nella loro complessità, utilizzando metodi attendibili (ripetibili) e validi (capaci di rappresentare la realtà studiata) in forme trasparenti, sottoposte a controlli e critiche. Con questo spirito, per fare un esempio, negli anni ’90 gli istituti religiosi maschili e femminili del Nord Est avevano costituito con l’Osservatorio socio-religioso della Conferenza episcopale triveneta un “Osservatorio sulla vita consacrata” che ha prodotto tra l’altro una ricerca su Giovani e vita consacrata. Una strada diversa pubblicata in un lavoro collettivo. Le rappresentazioni dei giovani rispetto ai religiosi e ai preti erano già disincantate, in tensione con gli aspetti più istituzionali della vita dei consacrati, soprattutto dei preti («Hanno le risposte prima che tu faccia le tue domande»). Ma anche quel periodo di attenzione e di apertura del mondo dei religiosi si è presto chiuso.
Altro esempio. Di recente, in preparazione al Convegno ecclesiale di Aquileia (Italia Nord Est) del 2012, i vescovi del Triveneto hanno commissionato una importante e complessa ricerca socio-religiosa all’OSReT[2] i cui risultati, molto interessanti e critici, sono stati presentati e discussi in modo coinvolto da molti responsabili diocesani della pastorale, ma i vescovi non hanno ritenuto di doverla pubblicare in libro e non ne hanno pressoché tenuto conto nelle loro conclusioni finali. Molti sono i cattolici, vescovi, religiosi, laici, che ritengono di “sapere già”, che non c’è bisogno di ulteriori “complicazioni sociologiche”. Oggi, al contrario, un papa come Bergoglio ha voluto che prima e nell’intervallo tra le sessioni del Sinodo su matrimonio e famiglia fossero ascoltate tutte le Chiese e tutte le persone che volessero portare una propria testimonianza di vita: una decisione inedita, importante forse più nel metodo che non nei contenuti, che si collega ai risultati prodotti: chissà quando e quanti vorranno ripeterla e dar valore all’esperienza di fede e di vita che cresce nelle coscienze delle persone fedeli. Complessità di esperienze che non può essere liquidata senza far violenza sia alle persone che all’intelligenza delle cose. Personalmente, ritengo che anche le famiglie monastiche dovrebbero costituire nei diversi paesi dei piccoli gruppi di ricercatori e di monaci e monache (o più in generale di religiosi/e) per conoscere e comprendere la loro realtà in cambiamento.
2. Da diverse ricerche è emerso da tempo che tra madri/padri e figli vi è uno slittamento inter-generazionale forte nei valori creduti (es.: verità dei vangeli, Cristo) e nelle pratiche, soprattutto in campo morale in generale e affettivo-sessuale in particolare. L’immagine di Chiesa era già molto problematica per i messaggi di severità, e la simpatia personale di cui gode papa Bergoglio non deve far credere che si trasformi in una simpatia e fiducia generalizzate verso la Chiesa-istituzione. La religiosità sta trovando strade che implicano “poca Chiesa” ma – per ora – non “senza Chiesa”: vedi l’affluenza a certi santuari o luoghi speciali di culto, frequentati non più soltanto da persone inattive o poco istruite secondo i vecchi canoni della pietà popolare, ma da persone attive e colte che cercano una strada personale di relazione di fiducia-fede in ambiti diversamente accoglienti.
Gli atteggiamenti delle donne non differiscono più molto da quelli degli uomini. Anzi, tra le donne, più aumenta il livello di istruzione più aumentano le posizioni critiche verso cattolicesimo e Chiesa. Questo implica che la trasmissione tradizionale della fede per “via femminile” non può più essere data per scontata. La presenza attiva più matura e critica delle donne, consacrate e laiche, esige una riflessione dialogica e un coinvolgimento profondi e comuni, e il senso tradizionale del “servizio” deve essere rivisitato con intelligenza in tutta la sua ampiezza, per le donne e per gli uomini.
3. La centralità dei soggetti come individui almeno in Occidente ha portato le persone a sentirsi e pretendersi autonome dalle istituzioni, sociali civili e religiose (non certo da quelle economiche, il cui mercato spinge in mille forme i consumi). Le tecnologie della comunicazione hanno fatto esplodere il fenomeno. La maturazione delle persone avviene attraverso un percorso più lungo e incerto, favorito dal prolungarsi dei percorsi scolastici, e reso meno direttivo dalle molte opportunità e indefinite aspirazioni possibili. In misura crescente le stesse vocazioni alla vita consacrata emergono in età in cui le persone hanno già maturato una propria personalità, meno (o con più difficoltà) adattabile allo stile dell’istituto cui accedono, rendendo più complessa l’identificazione e l’organizzazione della vita comune. L’unitarietà della vita personale anche della monaca e del monaco non può essere data per scontata, né risolta nella osservanza dei ruoli e dei gesti.
Questa autonomia sentita e pretesa dalle persone ha messo al centro anche il loro corpo, il corpo, non più vissuto come negativo, da nascondere, svalorizzato rispetto allo “spirito”, ma anzi come strettamente tessuto con la mente-spirito, in senso attivo e positivo. I consumi spingono a fare esperienze, sperimentando i cinque sensi in quante più occasioni possibili, per cui non si compra una cosa solo per poterla avere in mano, per utilizzarla, ma si vuole poter vivere con essa un’esperienza emotiva, fisica, individuale o di relazione.
I corpi-menti hanno una sessualità e dei ruoli di genere che in parte si sono trasformati (e non è corretto focalizzare tutto sulla omosessualità, come hanno fatto di recente in Italia ideologie contrapposte), non si accettano più le disuguaglianze tradizionali donna-uomo, in tutti gli ambiti della vita e della società. Le discussioni e gli scontri (anche certe manifestazioni politiche di piazza), emersi nella cornice del dibattito sollevato dal Sinodo recente, hanno mostrato che anche all’interno della gerarchia e dei “fedeli” della Chiesa cattolica vi sono differenze a volte radicali nel pensare, nel regolare, nel vivere il corpo e il genere. Corpi-generi che riguardano anche i consacrati, donne e uomini, presbiteri e religiosi, le cui scelte verginali, celibatarie, nel Sinodo non sono state tematizzate (forse non si è voluto farlo) mentre nella vita concreta interagiscono con laiche e laici il cui senso del corpo e del genere vive elaborazioni diverse, con problemi per la costruzione delle relazioni e dell’educazione nella Chiesa e nella società. Nelle relazioni tra istituzioni religiose e società, tra donne-uomini consacrati e donne e uomini laici, le espressioni di ciascuno come persona hanno delle dimensioni anche non verbali in cui la corporeità è comunque centrale come risorsa o debolezza nel vivere, nel comunicare ed essere in relazione, nell’aiutare altri e/o nel dover essere aiutati.
4. In tutte le società, gli stili di vita (modi di essere, pensare, credere, agire, relazionarsi) diventano centrali, sono un medium fondamentale di comunicazione verbale e non-verbale dei propri valori attraverso le pratiche della vita. L’importanza degli stili di vita è data dalla personalizzazione di ciò in cui si crede e che si pensa per vivere quotidianamente: va tenuto conto che nella realtà attuale coloro che si definiscono cattolici di fatto risultano avere stili di vita tra di loro diversissimi, anche contraddittori (infatti molti che si definiscono cattolici non seguono né la morale sociale né la morale affettiva-sessuale indicata dalla Chiesa, hanno opzioni politiche diverse, ecc.). Questo rende necessario soprattutto in campo religioso uno sguardo realistico e un discernimento dialogico seri sulla vita quotidiana, per responsabilizzarsi insieme e non solo ammonire “gli altri”, tenendo ben conto che il declino crescente della religiosità-di-Chiesa si accompagna a una ricerca di senso spesso confusa ma assai presente, certamente tra i giovani. Questi da alcuni teologi sono stati definiti in modo semplicistico “prime generazioni incredule”, “piccoli atei” in crescita, spingendo magari involontariamente molti anche tra preti e religiosi a dire che non c’è più niente da fare: questa prospettiva non sempre mette in luce il problema di una nuova spiritualità (non necessariamente anti-religiosa) che valga la pena vivere ed esprimere: spiritualità da studiare, da capire e con cui dialogare. Moltissime persone sono già uscite dalla Chiesa perché ignorate in questo percorso.
5. Ricordando riflessioni fatte negli anni ’90, ritrovo attuale l’invito paradossale pensato per gli istituti religiosi femminili e maschili, non solo di “uscire” secondo la spinta di papa Bergoglio, quanto ancor prima di aprire, in forme appropriate ma concrete e non solo “museali”, le porte dei propri spazi quotidiani, perché più persone conoscano gli stili di vita, umana e cristiana oltre che identitaria, delle comunità consacrate (il back e non solo il front office), ne apprezzino l’umanità, la vicinanza. Essere prossimi anche in questa trasparenza da testimoniare. Essere prossimi anche tra istituti religiosi, tra monasteri, tra comunità che dovrebbero forse condividere di più esperienze e testimonianze di vita, tanto contemplativa che attiva. Forse sono auspicabili se non necessarie forme di cooperazione in passato impensabili data una prevalente preoccupazione per la salvaguardia dell’identità dei singoli istituti, piuttosto che per una testimonianza della scelta religiosa-monastica, se non della vita cristiana tout-court (come non può non essere in certe società).
Questo è rafforzato (almeno in Occidente) dall’assottigliarsi o dallo spegnersi di nuove vocazioni, dall’invecchiamento e dalla riduzione dei componenti di molte comunità, che porta a un prevedibile compimento della parabola storica di alcune singole comunità o famiglie religiose e comunque a una loro più difficile vita piena.
6. Pensando alla Chiesa in generale, riprendiamo un momento il tema prima sfiorato del “servizio”, che oggi – ancora una volta nelle parole e nei gesti del papa, non di rado molto criticati – sembrano indirizzare a un servizio vero e proprio più che a una riaffermazione di autorità: essere d’aiuto in concreto a chi è debole, povero, marginale, a chi è in condizioni di sofferenza e anche al di fuori di vite “regolari”. “Autorità”, in senso istituzionale, religioso, morale viene comunemente intesa come forma legittimata del potere di ordinare, di far fare agli altri ciò che chi detiene personalmente l’autorità ritiene giusto e conveniente realizzare, con azioni e strutture che funzionano in rapporti esclusivamente top-down mediante comandi, regole, uffici. In realtà tale forma del potere non è l’unica, è tendenzialmente rigida e con pochi o nulli controlli. Da un punto di vista sociologico sembra che si utilizzi volentieri l’espediente retorico di associare a priori a tale modello verticale il termine “servizio”, che può non essere percepito come tale dagli altri. Oggi infatti, per tutte le osservazioni fatte fin qui, tale legittimazione è del tutto in crisi, evidente in campo civile, meno gridata ma altrettanto presente in campo religioso ed evidenziata dalle ricerche. E quando l’autorità non è né creduta come legittima (quindi non più investita di consenso-fiducia) né amata, ciò che essa fa è interpretato ed eventualmente accolto con altri occhi: il fatto che essa “serva”, faccia azioni e dica parole che “servono” alla vita delle persone e della comunità è definito di fatto anche dalle persone interessate. L’autorità dev’essere riconosciuta in modo nuovo, in un rapporto non più solo alto-basso, comando-obbedienza, come in passato, ma in relazioni di rispetto e di non-umiliazione, di ascolto reciproco e quindi di dialogo su bisogni e aspettative, risorse e limiti. Tra autoritarismo e autorevolezza oggi, ad esempio, viene valorizzata la competenza (i laici in molti campi sanno di essere più o altrettanto “competenti” dei religiosi), l’empatia, il senso della ricchezza del saper lavorare e camminare insieme. Il servizio dovrebbe essere meglio riconoscibile come tale, dar ragione della propria validità, senza indossare vesti non autentiche.
7. A tutto quanto si è andati dicendo sottende un filo rosso, un modo di pensare le cose e le persone che dobbiamo riconoscere come “pensiero complesso”. Un senso metodico, sistematico, della complessità della conoscenza e della vita è stato sviluppato nelle scienze lungo tutto il ’900, ed è maturato soprattutto quando si è cercato di analizzare con strumenti nuovi proprio le società, le persone, il nostro mondo e l’universo come sistema. Papa Francesco stesso – pur con un linguaggio teologico-pastorale – ne ha dato implicitamente una sua espressione nella prima esortazione apostolica, e ne dà esempi continui, nei discorsi fatti nelle visite negli Stati Uniti, in Africa, nella Laudato si’, nell’esortazione post-sinodale, nelle conferenze-stampa dialogiche che dà nei suoi viaggi, e via via. Dire complessità vuol dire non essere riduttivi, semplicistici, non prendere scorciatoie, di quello che si sa non utilizzare soltanto quello che conviene. Significa saper cogliere riflessivamente le implicazioni di ogni azione che si fa. Vuol dire voler mostrare l’intreccio tra ordine e disordine, tra bene e male, giusto e ingiusto, che bisogna saper vedere realisticamente e su cui bisogna far discernimento per poi progettare e agire insieme cose migliori, che sappiano riconoscere anche i limiti e i conflitti per costruire ponti. Capire che un tutto è più delle sue parti, ma che – quando, ad esempio, si tratta di persone famiglie società – paradossalmente è anche meno della somma delle parti, perché ogni persona e famiglia vale di per sé, al di là del valore del gruppo in cui sono inserite. Un tutto (es. una famiglia, una comunità religiosa, una Chiesa), ha un suo DNA, un suo “codice-sorgente”, che è anche dentro a ogni parte di quel tutto (la concezione cristiana della persona è così). La complessità attuale delle esperienze religiose è prodotta – come si è cercato di dire – da mutamenti intrecciati tra di loro di enorme portata: assoluta centralità a) dei soggetti, dell’autonomia delle scelte delle persone, b) delle innovazioni tecnologiche di uso personale e di massa, che hanno direttamente e indirettamente spinto anche c) all’inedita mobilità di migliaia e migliaia di persone e quindi d) alla compresenza di una grande pluralità di esperienze e istituzioni religiose e) sottoposte sempre più all’accettazione o al rifiuto da parte dei singoli.
Se si preferisce mantenere visioni riduttive ci sembrerà di essere al sicuro, ma inevitabilmente ci si chiuderà: non si ascolterà ma nemmeno si sarà ascoltati.
[1] Intervento al Capitolo generale della Congregazione Sublacense Cassinese nel settembre 2016. Italo De Sandre è stato professore di Sociologia all’Università di Padova. Insegnava “Sociologia e Religione” alla Facoltà di teologia del Triveneto e all’Istituto di liturgia pastorale di Padova. Fa parte del Comitato scientifico dell’OSReT, Osservatorio socio-religioso del Triveneto. Le aree di ricerca sono state l’emarginazione, il welfare, la salute, le professioni sociali, con attenzione più generale all’agire dei soggetti nella vita quotidiana. Negli anni più recenti gli studi si sono rivolti maggiormente ai problemi di base dell’agire sociale, in particolare alle implicazioni analitiche dei processi di solidarietà e di comunicazione e delle trasformazioni dei codici simbolici nella cornice del crescente pluralismo culturale, morale e religioso.
[2] OSReT: Osservatorio Socio-Religioso Triveneto. Centro di ricerca fondato nel 1989 sotto forma di associazione tra le diocesi del Triveneto e organo della Conferenza episcopale. Cfr.: https://www.osret.it/it/pagina.php/100. [Nota dell’editore].
Il monastero San Benedetto di Volmoed
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Une pagina di storia
Fr. Daniel Ludik, Ordine della Santa Croce (OHC)
Priorato San Benedetto, Volmoed (Africa del Sud)
Il monastero San Benedetto di Volmoed,
l’ecumenismo in azione
«Mentre non sapete quale sarà la vostra vita domani» (Gc 4,14a).
Il 30 agosto 2019, tre fratelli dell’Ordine della Santa Croce, un ordine benedettino anglicano, sono arrivati al centro di accoglienza Volmoed vicino a Hermanus, nella provincia del Capo-Occidentale in Sudafrica, dopo aver lasciato il loro monastero vicino Makhanda (Grahamstown) nella provincia del Capo-Orientale, con un camion pieno di bibbie, di breviari, di libri, di icone, di statue, di mobili e di un cane.
Una breve storia dell’Ordine della Santa Croce
L’Ordine della Santa Croce (OHC) è stato fondato da padre James Otis Sargent Huntington nel 1884 a New York, come un ordine di preti missionari che lavorano principalmente per la giustizia sociale in favore dei migranti indigenti. L’OHC si è rapidamente concentrato sull’educazione, specialmente fondando scuole per i bambini poveri. In America, l’OHC ha fondato la scuola St Andrews a Sewanee, Tennessee, e la scuola Kent nel Kent, Connecticut. L’OHC è pure impegnato in Africa fin dall’inizio del ventesimo secolo, con una fondazione a Bolahun, in Liberia, dove l’ordine ha creato la scuola St Mary. Questo monastero purtroppo è stato chiuso negli anni ’80 a causa della guerra civile che infieriva nel paese.
Desideroso di continuare con la sua presenza in Africa, e su invito dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu, l’OHC ha fondato il monastero Mariya uMama weThemba presso Grahamstown in Sudafrica, nel 1998. La comunità monastica ha rapidamente lanciato un programma parascolastico e un fondo di borse di studio per i figli degli operai agricoli che vivono nei dintorni del monastero. Tuttavia, uno dei problemi maggiori identificati nel sistema educativo sudafricano è quello di una non adeguata presa in carico degli studi di base. Abbiamo deciso dunque di aprire una scuola primaria che si occupasse dei livelli R sino a 3 (cioè per i ragazzi dai 5 agli 8 anni). Così la scuola Holy Cross ha visto il suo inizio nel 2010.
L’affiliazione benedettina
Con il tempo, e man mano che la società stava cambiando, l’OHC è divenuto più benedettino nello spirito e nel carisma. Con l’incoraggiamento dei camaldolesi americani, in rapporto di alleanza con l’OHC, quest’ultimo è divenuto ufficialmente benedettino in occasione del capitolo annuale del 1984, cent’anni dopo la sua fondazione.
Come benedettini, siamo stati invitati ad aderire alla BECOSA (Comunità Benedettine del Sudafrica) poco dopo il nostro arrivo in Sudafrica ed è stata una risorsa molto preziosa per la nostra comunità. È poco conosciuta l’esistenza di monasteri nella Chiesa anglicana, è dunque molto importante e utile per noi far parte di una famiglia monastica più larga. Grazie a BECOSA, siamo stati avviati al programma di formazione dei monasteri al quale cinque monaci dell’OHC hanno partecipato dal Sudafrica nel corso degli anni. Attraverso l’intermediazione di BECOSA, abbiamo egualmente partecipato a diversi programmi e corsi resi possibili dalla generosità dell’AIM. Il che potrebbe essere oggetto di un articolo a parte, tuttavia, è anche una buona occasione per dire “grazie”, ancora una volta!
Il centro di accoglienza di Volmoed
Il centro di accoglienza di Volmoed è nato all’inizio degli anni ’80, nel momento culminante dell’apartheid in Sudafrica, da una visione comune di Bernhard Turkstra, allora proprietario di un hotel, e di Barry Woods, prete anglicano, con l’intento di creare un luogo apertamente cristiano, ma dove la gente di tutte le razze e appartenenze religiose potesse trovare sicurezza e accoglienza in vista di una guarigione e di una riconciliazione. Hanno finalmente trovato una fattoria chiamata Volmoed (parola afrikaans che significa «pieno di coraggio»), che era in origine, nel XVIII secolo, una colonia di lebbrosi. È allora cominciata in questo luogo meraviglioso una bella avventura di fede che ha dato molti frutti nel corso degli anni.
La comunità residenziale di Volmoed si compone di alcune coppie di pensionati, tutti più o meno coinvolti nelle attività quotidiane di Volmoed. Il centro di accoglienza è gestito da un’équipe professionale piena di dedizione, sotto la supervisione di un consiglio d’amministrazione i cui membri non risiedono tutti nella proprietà. Per finire, Volmoed è sotto il patronato del Vescovo Desmond Tutu, grande amico dell’Ordine della Santa Croce.
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Trasferimento a Volmoed
Allora, che cosa ha portato i monaci a Volmoed? Poco dopo la sua creazione, la scuola Holy Cross è costantemente cresciuta di una classe all’anno. È parso evidente che la scuola dovesse continuare a ingrandirsi, oltre la fase della fondazione, per divenire una scuola primaria completa. In ragione della disposizione degli edifici sulla proprietà, l’opzione meno cara e la più sensata era di convertire gli spazi dei monaci più vicini in aule supplementari.
All’inizio, i monaci si sono trasferiti in una parte dell’abitazione del monastero, ma questa soluzione è presto sembrata insostenibile. Abbiamo allora cominciato a cercare un altro alloggio e, in ragione dei contatti anteriori con la comunità Volmoed, abbiamo chiesto di aiutarci a trovare delle occasioni nel Capo-Occidentale.
Una parte dell’etica di Volmoed è d’avere una presenza orante continua. Questo è quello che ha offerto padre Barry Woods fino alla sua morte all’inizio dell’anno 2019. Così, quando ci siamo informati riguardo alla possibilità di alloggiare presso il Capo-Occidentale, l’équipe di Volmoed ci ha invitato a andare a vivere da loro come presenza orante. È nato così, a Volmoed, il priorato di San Benedetto. Come si può immaginare, passare da un monastero totalmente autonomo a uno spazio ecumenico esistente e ben funzionante offre un insieme tutto particolare di sfide e di opportunità.
La vita a Volmoed
Ho parlato di Volmoed come di un luogo di guarigione e di riconciliazione, è dunque in sé un ministero molto dinamico. Volmoed intrattiene delle relazioni con diverse organizzazioni e comunità locali e internazionali che si dedicano al consolidamento della pace e della riconciliazione, tra le quali la Comunità della Croce di Nails, presso la cattedrale di Coventry.
Tramite il programma di formazione alla leadership dei giovani di Volmoed (VYLTP: The Volmoed Youth Leadership Training Programme) esiste ugualmente una vivace relazione con la comunità di Taizé in Francia. Il VYLTP è un programma residenziale di nove settimane, alla fine del quale uno o due giovani che si sono mostrati adatti sono scelti e mandati a Taizé per tre mesi per farli lavorare nell’ambito del loro programma di volontariato.
Per il culto, Volmoed dispone di un complesso di cappelle con una grande cappella principale, una cappella del santuario più piccola e, al livello inferiore, molteplici altre stanze. Stanze e santuario sono a nostra disposizione. Lo spazio del livello inferiore viene da noi utilizzato come scriptorium, ufficio e da piccola sala del capitolo.
Seguiamo il nostro Horarium monastico quotidiano e siamo spesso raggiunti da membri della comunità di Volmoed e/o da invitati. La nostra eucaristia domenicale è spesso seguita da un certo numero di persone che non si sentono particolarmente legate a una parrocchia o a una congregazione locale.
Da più decenni, Volmoed propone un servizio di comunione ecumenica il giovedì mattina che si è rivelato molto popolare presso la comunità della città di Hermanus in senso largo («Accoglienza di persone con bisogni complessi»). La comunità monastica è stata invitata a dirigere il servizio l’ultimo giovedì di ciascun mese e abbiamo approfittato di questa occasione per presentare all’assemblea diversi canti (via YouTube) che ci hanno aiutato a predisporre le persone in modo da indurle a un maggior raccoglimento, tenuto conto del gran numero delle persone presenti e non solamente dei monaci! Queste celebrazioni eucaristiche del giovedì hanno egualmente permesso di far conoscere meglio, tra di loro, i numerosi partecipanti della domenica.
Ci sono molte altre organizzazioni e persone in questa zona che si sono incontrate o che speriamo di incontrare, con le quali potremmo costruire delle relazioni e dei ministeri. Purtroppo, la maggior parte del tempo che abbiamo passato qui a Volmoed, in Sudafrica, e anche nel resto del mondo, è stata bloccata o soggetta ad altre restrizioni a causa della pandemia COVID-19. Speriamo di continuare a incrementare queste relazioni nella misura del possibile.
Essendo comunità monastica, siamo riconoscenti a Dio di poter offrire una direzione spirituale, soprattutto in questi tempi difficili. Questo ministero è iniziato quasi immediatamente dopo il nostro arrivo e ha permesso, lo speriamo, una crescita per varie persone. Molti lottano veramente per essere presenti quando i loro cari muoiono, o per poter essere con quelli che sono malati e/o soli. Inoltre, c’è tanta incertezza e paura, spesso senza che i media ce ne mettano al corrente. C’è da dire che le forme di comunicazione on line si sono dimostrate preziose in questo ministero, soprattutto per coloro che sono troppo lontani per venire a farci visita di persona.
Come dice san Giacomo, «mentre non sapete quale sarà domani la vostra vita», in questi tempi incerti, ignoriamo molte cose; però, in Cristo, sappiamo che la nostra vita è questa e rendiamo grazie ogni giorno.
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Madre Marie-Chantal Modoux
14
Monaci e monache, testimoni per il nostro tempo
La comunità di Encontro (Brasile)
Madre Marie-Chantal Modoux
1919-2020
Madre Marie-Chantal (Marguerite) Modoux è nata a Promasens, Friburgo, il 21 febbraio 1919, maggiore di quattro figlie. Madre amava le montagne, il cielo e anche il mare. Educatrice nata, ha frequentato la Scuola di Economia Domestica e successivamente ha lavorato come precettrice in una famiglia di diplomatici confinati in Vaticano durante la guerra. Le guardie svizzere avevano notato “la bella rossa”, come lei stessa ci ha raccontato. Ha poi lavorato in Spagna. Un’amica, oblata di Ligugé, le aveva prestato il libro di Dom Marmion: Cristo ideale del monaco. Al termine della lettura ha chiuso il libro affermando: «Questo e niente più». Per trovare il “dove” aveva contattato tre monasteri ma a conquistarla era stata la risposta di Madre Tommaso d’Aquino del monastero di Nostra Signora di Betania, a Loppem, vicino a Bruges, in Belgio.
Tutto era pronto per l’ingresso a Betania, quando la signora Modoux si ammalò di cancro. Marie-Chantal, essendo la maggiore, aveva deciso di rinunciare alla vita monastica per poter curare la mamma, ma il medico l’ha rincuorata: «Signorina, sua madre vivrà ancora per molti anni, quindi segua pure la sua via».
Il 16 ottobre 1951 entra a Betania e il 4 giugno dell’anno successivo inizia il noviziato ricevendo il nome di suor Marie-Chantal. Suor Anne Farcy, che più tardi verrà con lei in Brasile, era la maggiore del gruppo di veli bianchi a cui bisognava obbedire. Suor Marie-Chantal emette la prima professione il 21 agosto 1954 e tre anni dopo, il 23 agosto 1957, la professione perpetua. Sua madre, che era caduta in depressione dal momento del suo ingresso in monastero, ha potuto comunque essere presente a ogni tappa importante di Betania. Il 29 novembre di quell’anno, Madre partiva per il Congo, aggiungendosi alla comunità fondata da Betania a Kikula, Likasi, dove ha vissuto per sei anni.
Nel 1960, papa Giovanni XXIII lancia un appello ai contemplativi per l’America Latina e Madre, il cui cuore ha sempre pulsato con la Chiesa, nel corso di una riunione comunitaria dice a Madre Colomba (all’epoca priora del monastero di Betania e presidente della Congregazione): «Spero che Betania risponda». In Belgio, dove si trovava in vacanza, viene a sapere di essere stata scelta per far parte del gruppo delle fondatrici per il Brasile in qualità di responsabile. Il suo biglietto di ritorno per il Congo viene quindi annullato! Madre conosceva lo spagnolo e avrebbe desiderato che la scelta della Congregazione cadesse su un paese dell’America latina di lingua spagnola, ma Dio aveva altri progetti.
Il primo gruppo di fondatrici, Madre Marie Chantal Modoux, Madre Marie-Claire Willocx e Madre Maria Stoll, parte in nave il 25 novembre 1963. Giungono a Santos in dicembre e in seguito a Curitiba all’inizio del 1964. I Missionari belgi del Sacro Cuore di Gesù (MSC), che avevano accompagnato il discernimento riguardo al luogo di fondazione, avevano una parrocchia a Pinheirinho; sono loro a trovare il venditore di un terreno nella stessa regione. Si trattava di una zona rurale senza energia elettrica, senza acqua corrente, senza telefono, ecc. C’era tutto da fare; ognuna ha trovato ospitalità presso alcune religiose a Curitiba, per iniziare a districarsi con la lingua portoghese. Una volta arrivato il secondo gruppo, inizia la costruzione del futuro monastero, interamente in legno, come le case dei vicini. Le nostre sorelle hanno seguito il «Cenfi», a Petrópolis, un corso di sei mesi organizzato dalla Conferenza Episcopale per i missionari stranieri, un’introduzione alla storia del Brasile, alla cultura del Brasile e soprattutto alla lingua portoghese. Era il metodo della ripetizione, piuttosto difficile per gli adulti, ma che ha funzionato. Da questo periodo del «Cenfi», le sorelle hanno stretto amicizie fedeli con altri missionari: benedettini americani, canadesi, soprattutto padre Roberto Ogle e padre Donaldo Macgillivray.
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L’erezione canonica del monastero, il 1° novembre 1965, è stata segnata dalla prima visita di Madre Colomba. Gli inizi sono stati eroici: il lungo ufficio delle vigilie la sera con sei salmi per ogni notturno; il lavaggio e la stiratura della biancheria della comunità e della sacrestia dei Padri MSC; un viaggio in autobus al giorno, a tre chilometri di distanza, per recarsi in città dove si trovava la casella postale e un unico pozzo che a volte era anche usato per conservare il cibo. Era una vita povera, come quella dei primi monaci.
La posta era lenta, in quel periodo di dittatura militare, con una censura terribile. Quante cose sono state vissute senza poterle condividere con il monastero fondatore! Era anche il tempo successivo al Concilio, un periodo molto difficile per la vita religiosa e sacerdotale. Quanti religiosi, religiose e sacerdoti Madre ha ascoltato, orientato, aiutato ad andare avanti. Aveva il dono dell’ascolto e dell’empatia. La sua memoria la aiutava a ricordare i volti, i nomi e il contenuto dell’incontro. Le persone si sentivano capite, accolte e ritornavano, sentendosi amate e uniche. Intratteneva legami di amicizia attraverso un’abbondante corrispondenza, dormendo a volte solo quattro ore per notte.
Madre è stata anche la formatrice delle vocazioni che si presentavano. Il suo discernimento, la sua fermezza e insieme dolcezza nell’accompagnamento per trasmettere i valori monastici e per aiutare a crescere, hanno segnato coloro che ha accolto. Il suo corso sulla sequela di Cristo, le conferenze alla comunità e il suo modo di correggere gli sbagli sono indimenticabili.
Negli anni ’80, dopo il periodo nel quale la teologia della liberazione era molto in voga e quasi incapace di capire la vita contemplativa, è avvenuta una svolta. Gli operatori pastorali hanno scoperto la lectio divina, il bisogno di un tempo di riflessione per pregare e valutare l’azione e la comunità ha ricevuto tre richieste da altre diocesi che desideravano una comunità monastica. Madre, sempre con il cuore aperto alle necessità della Chiesa, ha deciso di avviare una fondazione. Eravamo dodici: «Bisogna che ognuna faccia la propria parte», diceva. Nello spirito della nostra Congregazione, la comunità ha scelto di rispondere alla richiesta del luogo più povero, più remoto, più “frontiera” ed è stato fondato in Amazzonia, nella prelatura di Itacoatiara, nel 1989, il monastero di Agua viva.
Nel 1998, una visita canonica decide il trasferimento del nostro monastero di Encontro. Il Pinheirinho era diventato troppo affollato, troppo violento e troppo rumoroso. All’età di 80 anni, Madre si è incaricata di cercare un altro terreno, costruire un nuovo monastero, vendere quello vecchio e ricominciare in un’altra zona rurale, montuosa, con un bel panorama, non molto lontano da Curitiba, e soprattutto a 50 km dai monaci trappisti. Ed ecco la comunità a Mandirituba per cantare O Emmanuel il 23 dicembre 1999. Madre rimane in carica come priora fino all’anno 2000. Ha avuto la gioia di vivere la Dedicazione della chiesa del nuovo monastero nel 2008, come coronamento della fondazione.
Il suo motto era: «La gioia del Signore è la nostra forza», dal Libro di Neemia 8,10. Era molto riservata riguardo alla sua vita spirituale, non parlando mai di sé. Ma c’erano dei segnali, come il suo sguardo luminoso e sereno, la sua gioia, la sua fede, la sua presenza a tutti gli uffici, a tutti i lavori comunitari, la sua disponibilità ad accogliere chi la cercava. Dopo aver lasciato l’ufficio di priora era una semplice sorella in comunità, chiedendo la benedizione, i permessi normali nella vita monastica, presentando i conti quando usciva. Il suo programma quaresimale rivelava il suo grande desiderio di conoscere sempre più il Signore, di vivere ogni giorno come l’ultimo della sua vita.
Madre era molto gelosa della propria autonomia, ma è arrivata la vecchiaia con i suoi limiti. Ha perso l’udito, poi a poco a poco la vista ed è stato necessario non lasciarla più sola, né di giorno né di notte. È stata una grande grazia per la comunità, perché ciascuna, a turno, ha potuto essere presente accanto a lei. La sua grande sofferenza era quella di non poter più leggere, lei che aveva costituito la nostra biblioteca, che leggeva tutte le riviste, le recensioni, che seguiva sempre con grande interesse la vita della Chiesa. Non si è mai lamentata. La sua unica parola era: «Grazie».
Alla fine, abbiamo percepito una certa notte della fede, una certa angoscia, la fronte un po’ corrugata, ma sempre calma. La comunità pregava con lei e per lei. Madre amava molto la sua famiglia biologica e quella monastica. È stata una grande monaca, una donna profonda mente libera; era abitata da una presenza, desiderava solo la gioia del suo Signore e al contempo era come un bambino che si stupisce di fronte a tutto.
Ci ha trasmesso l’amore per l’Ufficio divino, per la vita monastica, la gioia della lode, lo spirito di Betania, cioè l’apertura, l’amore per la Chiesa, la disponibilità ad essere mandati, la semplicità, lo zelo per la comunione fraterna e l’accoglienza. La sua presenza era una sorgente di unità; anche quando era assente, perché troppo stanca per venire in refettorio o alla ricreazione, seguiva la vita della comunità e chiedeva quale fosse l’argomento delle riunioni o delle letture in refettorio. Abbiamo accompagnato il suo “abbassamento”, i suoi momenti di angoscia. L’ultima notte eravamo intorno a lei e abbiamo rinnovato la professione cantando insieme il Suscipe.
La sua accoglienza ha creato una rete di amici. Abbiamo ricevuto più di trecento mail di condoglianze. Per tutti questi messaggi vi ringraziamo e siamo certe che dal cielo Madre interceda per ciascuno e ciascuna di voi.
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Charles de Foucauld
15
Moines et moniales, témoins pour notre temps
Père Michael-Davide Semeraro, OSB
Supérieur de Rhêmes Notre-Dame (Italie)
Charles de Foucauld,
prophète de notre défi monastique
La prochaine canonisation de frère Charles est l’occasion de retourner puiser à l’expérience spirituelle de ce chercheur de Dieu. Par sa façon singulière de vivre la suite du Christ, il a été le prophète du concile Vatican II, ce temps d’une intelligence renouvelée de l’Évangile. En conclusion de sa dernière encyclique Fratelli tutti, le pape François écrit :
« Mais je voudrais terminer en rappelant une autre personne à la foi profonde qui, grâce à son expérience intense de Dieu, a fait un cheminement de transformation jusqu’à se sentir le frère de tous les hommes et femmes. Il s’agit du bienheureux Charles de Foucauld ».
Bien que frère Charles soit désigné dans l’Ordo comme « prêtre », il me semble pouvoir dire qu’en réalité il fut et resta toujours un moine et un moine cistercien. Au moment où l’expérience de frère Charles est déjà bien mûre, une lettre écrite de Tamanrasset, le 26 mars 1908, à son beau-frère Raymond de Blic, le montre conscient de son évolution et du défi qu’elle représente pour ses choix à venir : « Je reste moine – moine en terre de mission – moine missionnaire, pas seulement missionnaire »[1].
De ce point de vue on peut dire qu’il y a un chantier à ouvrir, pour mieux saisir comment la spiritualité de frère Charles s’enracine dans la tradition monastique la plus pure, comprise comme ce flux d’eau vive, ce désir de chercher Dieu selon l’Évangile qui en traverse, secrètement parfois, l’histoire longue et complexe. Frère Charles a un sens aigu de son histoire personnelle, liée non seulement au temps qui court, mais aussi aux lieux qu’il parcourt ; il note ainsi dans ses méditations bibliques : « Appliquons ce psaume à nous-mêmes : c’est l’histoire de notre âme. Dieu nous a tirés du monde de sa propre main »[2]. Comme le fait remarquer Raymond Pannikar, la vie de tout homme et de toute femme en ce monde, ce n’est pas seulement sa biographie, mais aussi sa géographie. C’est particulièrement vrai pour frère Charles qui écrivait de lui-même à un ami, presque dans la même ligne que Thérèse de Lisieux dans son autobiographie : « Moine, ne vivant que pour Dieu, aimant en vue de Lui les âmes de toute l’ardeur de mon cœur »[3].
L’écrivain Norman Manea a récemment affirmé qu’en réalité nous sommes tous également le fruit de notre bibliographie, et cela vaut aussi pour frère Charles et pour son itinéraire de lecteur, devenu à son tour écrivain.
Lorsque Charles de Foucauld se convertit à Dieu, sous la sage conduite de l’abbé Huvelin, il ressent spontanément le besoin de devenir religieux et le dit, avec une étonnante clarté, dans une lettre écrite de la Trappe le 14 août 1901 à son ami Henri de Castries :
« Aussitôt que je crus qu’il y avait un Dieu, je compris que je ne pouvais faire autrement que de ne vivre que pour Lui : ma vocation religieuse date de la même heure que ma foi »[4].
Dans la logique de frère Charles, il est clair qu’il faut chercher la forme la plus parfaite de vie religieuse et, selon la sensibilité spirituelle de l’époque et son tempérament qui le porte à l’héroïsme, une telle aspiration à la radicalité et à la perfection s’identifie à l’austérité : « Je désirais être religieux, ne vivre que pour Dieu et faire ce qui était le plus parfait, quoi que ce fût »[5].
Une retraite à Solesmes, suivie d’une autre à Soligny, le mène finalement à la Trappe : « Il me sembla que rien ne me présentait mieux cette vie que la Trappe »[6]. Les motivations sont claires : « Recherche d’une vie conforme à la Vôtre, où je puisse partager complètement Votre abjection, Votre pauvreté, Votre humble labeur, Votre ensevelissement, Votre obscurité »[7].
Au monastère, d’abord à Notre-Dame des Neiges, puis à Akbès, il semble vraiment que frère Charles ait appris à lire deux livres : les Écritures – et très spécialement l’Évangile – et son propre cœur. À une époque où, même dans les monastères, les dévotions étaient de loin préférées à la lectio divina, frère Charles apprend à se plonger dans l’écoute et l’interprétation des Écritures d’où il tirera chaque jour, et jusqu’au dernier soir de son existence terrestre, lumière pour son chemin, en suivant cette règle fondamentale reprise par Dei Verbum : « La grande règle d’interprétation des paroles de Jésus, c’est ses exemples. Il est lui-même le commentaire de ses paroles »[8].
Bien des éléments fondamentaux de la sensibilité spirituelle de frère Charles ont leurs racines dans la tradition monastique bénédictine et, très spécialement, dans l’école cistercienne. La préférence absolue pour les mystères de la vie de Jésus, et la contemplation de son incarnation comme manière de le suivre sont le fruit de l’écoute des textes des pères cisterciens qu’on lisait pendant les vigiles et au réfectoire. Bien des thèmes et des accents qui sont souvent présentés comme des intuitions originales de frère Charles font en réalité partie d’une tradition que frère Marie-Albéric a respirée à pleins poumons à la Trappe et qu’il a ensuite exprimée dans des choix tout à fait personnels. C’est ainsi qu’il écrit, le 24 avril 1897, à Raymond de Blic : « J’ai quitté la Trappe après avoir reçu entière dispense de mes vœux, pour trouver dans une autre sorte de vie ce que j’avais cherché à la Trappe sans l’y trouver ». Aussitôt après, frère Charles affirme : « J’aime et j’estime la Trappe »[9].

Il serait donc très intéressant de chercher à relever les parallèles entre les intuitions de frère Charles dans sa méditation de la vie du Seigneur Jésus – surtout à travers les méditations sur les Évangiles sous forme « écrite » qu’il s’impose – et les commentaires de moines cisterciens comme Bernard de Clairvaux, Guerric d’Igny, Isaac de l’Étoile, Guillaume de Saint-Thierry, Baudouin de Ford… C’est là un grand défi, car cette recherche pourrait réserver bien des surprises et peut-être même conduire à une compréhension plus profonde de frère Charles, comme maillon d’une tradition fidèle mais vivante où il puise la force, le courage et la sérénité des innovations qui sont demandé aux moines et moniales de notre temps.
Dans une récente déclaration, l’Abbé général des trappistes fait remarquer que, depuis un siècle, certaines intuitions perçues de manière prophétique par frère Charles sont devenues communes aux moines d’aujourd’hui :
« Les communautés deviennent moins institutionnelles, liées à des relations personnelles plutôt que formelles, comme on le voit dans les communautés et les monastères de taille plus réduite »[10].
Dans la ligne de la plus pure tradition cistercienne, le rêve de frère Charles est de retrouver une vie chrétienne dans laquelle on fait grande place à cette intimité. Celle-ci engendre à son tour la charité et la bienveillance, qui culmine elle-même dans « l’indulgence tendre et compatissante pour les pécheurs, dont nous avons tant besoin, étant si portés à la sévérité pour autrui »[11]. La racine lointaine de cette charité reste néanmoins une attitude d’intimité priante, passion du désir et de l’imitation, ce qui, dans le langage de l’époque, est décrit comme pur amour.
Frère Charles choisit de se poster sur le chemin des autres pour pouvoir les rencontrer, les connaître et les aimer. Il recherche donc un lieu-frontière, bien avant que nous parlions de « situations de frontière ». Une note de frère Charles est ici très éclairante :
« Qui osera dire que la vie contemplative est plus parfaite que la vie active ou inversement, puisque Jésus a mené l’une et l’autre ? Une seule chose est vraiment parfaite, c’est de faire la volonté de Dieu »[12].
Ce n’est certainement pas un hasard si Notre-Dame des Neiges conserve aujourd’hui la mémoire du bienheureux Charles de Foucauld, comme s’il n’avait jamais quitté son monastère ou comme s’il y était retourné après son long parcours. A-t-il cherché autre chose qu’à demeurer « sous la conduite de l’Évangile »[13], comme le dit saint Benoît dans sa Règle, en se mettant à l’école des autres pour apprendre de tous l’inépuisable art de l’amour ?
[1] Lettre à R. de Blic, 26 mars 1908.
[2] Méditation sur l’Ancien Testament, Ps. 104.
[3] Lettre à H. de Castries, 14 août 1901.
[4] Lettre à H. de Castries, 14 août 1901.
[5] Ibidem.
[6] Ibid.
[7] Lettre à Louis de Foucauld, 12 avril 1897.
[8] Méditation sur l’Évangile, 199e, Mc 6, 7.
[9] Lettre à R. de Blic, 24 avril 1897.
[10] Relation de dom Eamon Fitzgerald au Chapitre général de l’ordre cistercien le 14 septembre 2014 à Assise, Collectanea Cisterciensia, 76 (2014) 4, p. 339-348.
[11] Ch. de Foucauld, Lettre à L. Massignon, 15 juillet 1915.
[12] Ch. de Foucauld, Méd. sur l’Évangile, 194e, vocation.
[13] Saint Benoît, Règle, prologue.
Le monastère Sainte-Marie, Mère de l'Église
16
Nouvelles
Les sœurs de Palaçoulo, OCSO
Le monastère de Sainte-Marie, Mère de l’Église
Une graine de vie monastique
dans la région de Trás-os-Montes (Portugal)
Nous vous écrivons du Portugal, où depuis le mois d’octobre dernier nous avons ouvert un nouveau monastère : Santa Maria, Mãe da Igreja. Pour l’instant, nous vivons dans la nouvelle maison qui sera la future hôtellerie, en attendant de construire le vrai monastère.
Ici, nous avons commencé la vie régulière et nous faisons les premiers pas pour organiser un travail productif. Pour l’instant, nous faisons des chapelets, nous vendons des livrets de prières pour les enfants, préparés quand nous étions encore à Vitorchiano, et maintenant nous commençons une production de biscuits aux amandes. Notre terrain de 28 hectares, au-delà de la partie destinée à la construction, possède déjà une plantation de 500 amandiers (les amandes seront utilisées à l’avenir pour la production des biscuits) et un verger avec divers arbres fruitiers pour les besoins de la communauté et des hôtes. L’hôtellerie est composée de huit blocs reliés entre eux pour former un seul bâtiment ; elle ressemble à une petite aldeia, c’est-à-dire qu’elle reproduit les caractéristiques d’un village typique de la région de Trás-os-Montes où nous nous trouvons.

L’extérieur de l’hôtellerie est en partie recouvert de schiste, pour souligner la proximité avec les caractéristiques des maisons des villages alentours, construites avec cette pierre. Notre terrain lui-même est riche en schiste. Nous avons aménagé une partie substantielle de l’hôtellerie en véritable monastère : au premier étage, en plus des chambres qui nous servent de cellules, nous avons aménagé des lieux pour les services indispensables (buanderie, taillerie et couture, économat, bureau de la supérieure). Au rez-de-chaussée nous avons créé les lieux réguliers : la petite chapelle sert de chœur monastique, la future salle de lecture sert de scriptorium, la salle de réunion, de Chapitre ; il y a également le réfectoire et la cuisine.
Grâce à la présence d’un escalier extérieur, qui maintient une certaine séparation, nous avons aménagé une partie de la maison pour quelques hôtes qui souhaitent déjà partager notre expérience de vie et de prière. Nous demandons au Seigneur de nous bénir avec quelques vocations locales.
Nous sommes situés à Palaçoulo, à environ 2 kilomètres du village, près de la frontière avec l’Espagne, dans la zone périphérique et assez dépeuplée de Trás-os Montes, où les jeunes émigrent ; les nombreux villages disséminés ici et là sont généralement habités par des personnes âgées.
Le paysage ici garde quelque chose de non contaminé et de vaste : il y a peu de maisons et peu d’agriculteurs qui continuent à cultiver la terre. C’est pourquoi le ciel est ample et c’est un étonnement, dans ce petit Portugal, de se sentir enveloppé par un ciel qui suit la voûte de l’horizon sans aucune rupture. La nature, dans de vastes étendues vallonnées, a quelque chose d’intacte. Quelques aigles planent sur les pentes abruptes du fleuve Douro.
D’un point de vue logistique, notre situation est assez inhabituelle : nous vivons dans un pays de la riche Europe et nous nous retrouvons à devoir répondre aux exigences de construction d’un monde en naissance, mais nous sommes quotidiennement confrontées à l’absence de structures et d’infrastructures adéquates et à une certaine inertie de la part des institutions municipales qui répondent difficilement aux services les plus élémentaires.
Les étapes de cette fondation ont été marquées par une expérience difficile : d’un côté c’est un vrai miracle et d’un autre côté, il y a une exigence de patience, de ténacité, dans laquelle nous avons dû nous rappeler pourquoi ça vaut la peine de se dépenser et de risquer de construire une graine de vie monastique dans notre Europe sécularisée et sceptique. Il y a vraiment eu un goût de miracle avec la générosité des paroissiens de ce lieu qui ont voulu nous céder une partie de leur terrain (notre propriété actuelle est composée de 32 anciens lots différents) ; touchante aussi est la générosité de l’évêque et du curé d’ici qui, avec patience, ont tissé des relations, ont permis des rencontres, de l’aide, des contacts pour que la vie cistercienne revienne dans ce pays. Mais aussi de la patience et de la ténacité, car nous avons également rencontré de nombreuses difficultés bureaucratiques, avec le manque de fonds et le manque d’intérêts de certaines grandes entreprises qui nous ont obligées à prendre en charge la ligne électrique, la canalisation d’eau, à construire et à gérer un réseau d’égouts, une installation pour le gaz, les tranchées pour installer internet (qui pour l’instant ne fonctionne qu’avec le système satellite) et aussi le manque de route adéquate pour rejoindre le village. Nous avons en partie construit cette route : elle sera maintenant achevée en terre battue et gravier avec un grand effort de la part de la municipalité d’ici.
Nous travaillons actuellement au projet du monastère, une entreprise encore plus exigeante que l’hôtellerie, à la fois parce qu’il a été conçu pour accueillir quarante moniales et parce que le bâtiment est destiné à inclure à l’intérieur les pièces pour le travail.
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Le bâtiment est conçu pour s’intégrer harmonieusement dans l’environnement naturel et s’adapte à l’aspect vallonné du terrain : pour cette raison, nous avons prévu une répartition des pièces sur plusieurs étages. Le projet réalisé selon la structure d’un monastère traditionnel prévoit le cloître au centre, au cœur de la maison. Autour de lui s’ouvrent tous les autres développements dans lesquels la vie de la communauté monastique va se dérouler. L’église, orientée à l’Est, est positionnée sur la partie supérieure du terrain, de manière à être visible même de loin. Les espaces de travail occupent l’étage inférieur avec les locaux techniques, tandis que le premier étage sera utilisé pour les dortoirs et l’infirmerie.
Pourquoi sommes-nous ici ? Pourquoi avons-nous quitté notre monastère où nous étions heureuses et notre grande communauté que nous aimions ? La réponse est assez simple : l’évêque de Bragança, qui croit à la vie monastique et en sa capacité de témoignage et d’attraction chrétienne, nous a appelées dans son diocèse.
Notre communauté actuelle, composée de dix sœurs, vient du monastère de Vitorchiano, qui a fondé en cinquante ans huit monastères dont le premier en Toscane : les vocations étaient nombreuses à Vitorchiano et il n’y avait plus de place pour tout le monde ; mais immédiatement après, les fondations se firent dans des pays où il n’y avait pas encore de monastères trappistes : en Argentine, au Chili, au Venezuela, en Indonésie, aux Philippines, en République tchèque et maintenant au Portugal. De plus, nous avons aidé un monastère en République Démocratique du Congo, en envoyant cinq sœurs pour aider la fragile communauté du lieu. Dans tous ces cas, l’initiative n’est pas venue de nous : c’est toujours un évêque qui nous invitait ou bien il y avait une proposition venant d’autres personnes pour que nous allions fonder dans un diocèse.
Pourquoi avoir fait toutes ces fondations, souvent dans des conditions difficiles, que ce soit d’un point de vue économique ou en raison d’autres difficultés ? Parce que la mission, le fait de porter le Christ aux autres, caractérise tous les chrétiens et en particulier les instituts religieux et les personnes consacrées dont le charisme a été officiellement confirmé par l’Église.
La vie monastique, qui remonte aux premiers siècles du christianisme et qui au fil des siècles s’est développée sous différentes formes, contribuant également à l’essor de la civilisation et de la culture, a toujours cherché et favorisé la mission pour faire connaître le Christ à travers le témoignage d’une vie priante, fraternelle et laborieuse. Ce témoignage a été reçu dans des lieux et des cultures très divers et s’est énormément répandu, même au travers des difficultés et des drames qu’implique l’histoire humaine.
En plus de la mission et malgré le vœu de stabilité qui lie le moine à sa propre communauté, le monachisme a toujours favorisé la xéniteia, c’est-à-dire le fait d’aller témoigner du Christ dans un pays étranger : là les conditions de vie, la langue et les coutumes en font un témoignage difficile, douloureux ; ainsi le moine, la moniale missionnaire ressemble de plus en plus au Christ, qui a souffert et est mort pour nous.
Moines bénédictins coptes catholiques
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Nouvelles
Frère Maximillian Musindal, OSB
Prieur au Caire (Égypte)
Moines bénédictins coptes catholiques
Célébration des trois ans de notre fondation
Voici quelques nouvelles de la fondation des moines de Saint- Ottilien au Caire (Égypte).
Nos maisons
Notre humble vie a commencé dans un appartement loué au centre du Caire ; il appartenait aux missionnaires Comboniens ; puis nous avons loué une villa franciscaine à Mokattam. Ce fut notre première résidence officielle en Égypte.
Pour accueillir nos hôtes, nous avons mis en place trois « unités », soit six chambres supplémentaires avec salle de bains intérieure et commodités. Nous avons acheté une propriété agricole de quelques douze hectares puis environ six hectares voisins dans la province d’Ismailia : la propriété comportait en plus une petite villa de trois chambres. À la ferme il y a des oliviers et des manguiers.
Au moment de la reconnaissance canonique et du lancement officiel, notre villa possédait une chapelle de style copte, dédiée à saint Benoît et bénie par Sa Béatitude Ibrahim Ishaq, patriarche copte catholique d’Alexandrie.
Finalement un prêtre copte catholique canado-égyptien, abuna Bishoy Yassa, a proposé de nous offrir une propriété qu’il possédait. Après quelques discussions et consultations, nous avons accepté son offre. Ce fut notre première propriété en Haute-Égypte. Il s’agit d’un terrain important avec une villa qui nécessitera quelques rénovations et ajustements pour devenir un monastère. Nous espérons faire de cette maison la pépinière de nos vocations car il y a beaucoup de vocations dans cette région. C’est notre troisième maison en Égypte.
Presque tous nos projets concernent Ismailia. La stabilité financière de notre fondation dépendra de la façon dont nous saurons gérer ce lieu.

Hébergement
Lorsque nous avons acheté la propriété d’Ismailia il y avait une maison comportant trois chambres, une cuisine, une salle à manger, deux salles de bains, une véranda (que nous avons transformée en chapelle) et, derrière, une piscine délabrée. Devant loger de plus en plus de monde nous avons, grâce à nos bienfaiteurs, fait construire deux autres étages. Nous pouvons maintenant recevoir dix personnes, ce qui suffit pour accueillir tous les frères à la fois. Au départ c’était un grand défi.
À côté de l’entrée principale, nous avons disposé une structure permanente permettant de loger l’agent de sécurité, une petite mosquée toute simple pour nos travailleurs et une salle pour les policiers au cas où le gouvernement en enverrait pour assurer la sécurité. En face il y a un petit bâtiment indépendant destiné aux jeunes et qui peut recevoir au maximum quatre personnes. Depuis notre installation à Ismailia, de nombreux religieux du Caire et d’Ismailia apprécient notre maison à cause de son environnement calme pour faire une retraite, une récollection ou simplement se reposer. Ce succès nous a conduits à augmenter le nombre de chambres pour accueillir nos hôtes.
La ferme, les olives et les mangues, les dattes, les citrons et les mandarines
La ferme d’Ismailia est en train de changer. Quand nous l’avons acquise, elle était en très mauvais état. Après un longue période de nettoyage, de changements et de remplacement de l’ancien système d’irrigation (grâce à Missio Muenchen), nous sommes en bonne voie pour en profiter. Sur les douze hectares initiaux, il y a 3 247 oliviers ; l’année dernière nous avons remplacé 200 arbres qui ont tous survécu. Sur la propriété de six hectares récemment acquise il y a 2 292 jeunes oliviers. Cela donne un total de 5 639 oliviers.
Outre les oliviers il y a 1 873 manguiers dont nous avons remplacé une trentaine de pieds. À l’achat de la ferme il y avait 80 orangers, que nous utilisons pour notre consommation domestique. Nous avons planté 100 dattiers saoudiens puis, par la suite, 35 citronniers et 5 mandariniers.
Poste de purification de l’eau
L’un de nos projets essentiels était la purification de l’eau. L’eau dont nous disposons est salée. Grâce à nos bienfaiteurs, nous avons pu ériger un poste de purification de l’eau. Ce projet ne profite pas qu’à nous seuls. Non loin de notre monastère il y a un grand village. Les femmes et les enfants doivent parcourir de longues distances à pied pour aller chercher de l’eau douce. Nous avons déroulé un tuyau pour leur en fournir. Beaucoup de familles musulmanes pauvres viennent s’approvisionner en eau douce au robinet placé à l’extérieur de l’enceinte, près de l’entrée principale.
Jardin potager
L’agriculture maraîchère en Égypte se tourne rapidement vers les OGM. Les gens y investissent pour produire en quantité mais c’est au détriment de la qualité. Après plusieurs essais, nous avons réalisé que nous pouvions produire nos propres légumes dans notre ferme d’Ismailia. Investir dans l’agriculture biologique garantira la qualité de nos légumes.
Grâce à un don de la Société pontificale missionnaire, nous avons maintenant une salle de conférences de 100 places à la fine pointe de la technologie.
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Gymnase et piscine
Pendant la pandémie, nous avons eu l’idée de faire remettre en service la piscine délabrée qui se trouvait à la ferme d’Ismailia lorsque nous l’avons achetée. Puis, après la piscine, nous avons décidé de mettre en place une salle de gymnastique. Ces deux projets sont nés par nécessité. Le confinement nous a été très pénible ; sans espace pour faire du sport et sans rencontre avec le monde, de telles installations sont devenues nécessaires. De plus cela permettait de proposer un espace de détente privé pour les religieux coptes en Égypte.
Le fait qu’un religieux, prêtre, moine ou sœur, ne soit pas autorisé à se détendre dans un lieu public est difficile à comprendre pour un étranger. Une étude a montré que les prêtres, y compris de nombreux missionnaires, n’ont pas cette facilité. Avoir un lieu de sport dans notre monastère serait donc un plus. De fait, une fois les deux installations terminées, de nombreux prêtres, y compris les coptes catholiques, les fréquentent. Cela fait partie d’un apostolat dont nous avons eu l’idée à la suite de « l’écoute » des besoins de l’environnement.
Les moutons
Les bédouins sont connus pour avoir des moutons, des chameaux, des vaches et des ânes. Autour de notre monastère se trouvent des villages de bédouins. C’est d’eux que nous avons appris à quel point l’élevage ovin peut être rentable. Les bédouins qui nous entourent n’ont pas de grands troupeaux de moutons, étant donné leur humble niveau de vie. Néanmoins, chacun d’eux en a de un à cinq. À la fin de l’année dernière, après une étude sérieuse, nous avons envisagé de nous lancer dans l’élevage ovin. Le premier défi à relever était de savoir comment trouver de la nourriture pour les bêtes. Une partie de nos terres agricoles ne convenait pas aux oliviers : nous avons donc déraciné 420 arbres non performants. Cela nous a libéré près d’un hectare sur lesquels nous avons planté du bersim (trèfle d’Alexandrie). C’est une nourriture animale connue et très nutritive employée en Égypte. Ça pousse très bien ; nous en récoltons toutes les trois semaines, le broyons et le stockons. Nous avons acheté dix moutons pour commencer. Ça se passe bien. Cela nous donne l’espoir que, dans un proche avenir, après la rénovation des hangars de la ferme, nous pourrons nous aventurer dans l’engraissement des moutons pour le marché. Il est important de signaler qu’en Égypte, comme dans tous les pays à majorité musulmane, le mouton est nécessaire pour célébrer le Jour du Sacrifice (Aid el-Adha) qui rappelle le sacrifice du prophète Ibrahim. Or l’Égypte n’a pas assez de moutons : beaucoup sont importés. Par conséquent il y a là un marché qui existe déjà. Cette fête intervient un mois après le Ramadan. Selon nos recherches il est conseillé d’acheter de jeunes moutons, de les engraisser pendant quatre mois au maximum, puis de vendre tout le troupeau juste avant l’Aid el-Adha. Notre objectif, pour l’année à venir, est d’avoir 100 moutons. Nous avons un grand hangar où ils pourront tous tenir.
L’aide sociale
Notre monastère d’Ismailia est entouré de plusieurs villages pauvres. Nous n’avons pas négligé les nécessiteux dans ces villages. Dans la culture bédouine, la mère est entièrement en charge des enfants tandis que le père part à la recherche de nourriture et autres besoins. Il est fréquent de voir des mères venir mendier avec leurs enfants. Beaucoup d’enfants ne vont pas à l’école ; l’éducation n’est pas une priorité. Le garçon est élevé pour protéger et subvenir aux besoins de la famille ; la fille est élevée pour être mariée, souvent dès 12 ans, et pour avoir des enfants. Les bédouins n’autorisent pas le mariage en dehors de leur famille élargie. Ils se marient le plus souvent entre cousins germains. Ils ont une culture très peu ouverte et tout étranger est considéré comme une menace pour leur survie. Nous sommes toutefois en mesure d’avoir des rapports avec eux après qu’ils se soient rendu compte que nous n’étions pas contre leurs valeurs culturelles. Une façon de les approcher est de soutenir les veuves nécessiteuses et leurs enfants. Actuellement, avec le soutien que procure Saint-Ottilien, nous versons une allocation mensuelle à treize veuves et aidons à acheter de la papeterie et des sacs pour leurs enfants qui vont à l’école. Selon les besoins de la famille, nous donnons entre dix et quinze euros par mois. Cela peut sembler peu mais sauve des vies.
Au début de l’année 2020, il y a eu une terrible pluie d’orage en Égypte. Presque toutes les maisons des villages voisins se sont effondrées. Les gens n’avaient aucun abri pour dormir. Ce fut un vrai désastre. Tous nos ouvriers étaient sans logement. Certains ont même demandé à venir vivre au monastère avec leur famille jusqu’à ce qu’ils puissent construire une nouvelle maison. Nos frères de Muensterschwarzach étaient en Égypte lorsque cette tragédie s’est produite. Avec l’aide que Muensterschwarzach nous a procuré, tous nos ouvriers ont pu avoir des maisons permanentes. Nous apprécions vraiment ce genre de soutien. Cela a beaucoup de valeur pour nous en tant que communauté de moines entourée de familles musulmanes. Le peu que nous faisons pour toucher leur vie parle plus que de leur réciter la Bible. Outre cela, il y a toujours des gens qui viennent frapper à notre porte pour mendier du pain ou des médicaments ou même une couverture. Si nous le pouvons, nous donnons. Si nous ne pouvons pas le faire, nous avons quand même un mot gentil. Le fait qu’ils viennent frapper chez nous est déjà un signe de confiance.
Il est important de parler du rôle joué par la procure de Muensterschwarzach. L’Égypte connaît un afflux important de réfugiés en provenance d’Afrique et du Moyen-Orient. Les réfugiés érythréens et soudanais sont pris en charge par les pères Comboniens. Au cours des dernières années leur nombre écrasant a dépassé ce que ces pères pouvaient assumer. En ce qui concerne la pastorale, ils ont demandé au père Maximilian de les aider dans les visites à domicile et l’administration des sacrements. Aux moments des plus grands besoins, la procure de Muensterschwarzach a aidé pour leur éducation et leurs besoins fondamentaux. Avec la pandémie de COVID-19, la situation s’est à nouveau aggravée… Depuis, les réfugiés dépendant entièrement des dons, la procure de Muensterschwarzach a beaucoup aidé en donnant de l’argent pour acheter des denrées alimentaires, des lingettes désinfectantes, des masques, etc. Nous apprécions vraiment ce genre d’aide sociale. Le défi demeure. Nous avons constitué un conseil pour voir comment soutenir ces familles de réfugiés qui ne vivent que de dons. Nous avons présenté plusieurs projets mais réalisons qu’il est difficile d’obtenir des autorisations pour certains d’entre eux en raison des restrictions mises en place par les autorités civiles. Les seuls projets viables sont ceux qui peuvent être gérés directement par l’Église, pour que les réfugiés puissent tenir. L’équipe technique travaille sur le projet que nous lancerons avec les organismes qui soutiennent ces réfugiés érythréens et soudanais en Égypte.
Les hommes, les vocations, la formation
Nous sommes une communauté de six membres : un profès perpétuel (père Maximilian), deux frères profès temporaires (frère Bruno et frère Arsanius), deux novices (père Emmanuel et frère Antonius) et un postulant (Mikhail). Nous avons en outre un oblat novice (abuna Bishoy du diocèse d’Asyut). Jusqu’au 23 novembre 2020 nous avions trois profès temporaires.
Parmi les jeunes qui se renseignent et expriment le désir de se joindre à nous, il y a plus d’orthodoxes que de catholiques. Il est évident qu’il existe une tension entre les deux Églises. Certains évêques catholiques ne sont pas favorables au fait que nous admettions des jeunes d’origine orthodoxe. Ils redoutent une invasion. Afin que leur choix de quitter l’Église orthodoxe pour l’Église catholique soit bien clair, il faudra qu’ils aient fréquenté une paroisse catholique pendant au moins six mois sans interruption. La recommandation du curé ne suffira plus. Ils devront également en obtenir une de l’évêque de leur diocèse. Nous avons trois jeunes hommes d’origine orthodoxe qui demandent à se joindre à nous. Nous leur avons conseillé de faire les premiers pas en juillet 2021, ils auront alors atteint l’exigence des six mois. Pendant cette période, ils nous rendront visite « pour voir ».
Tout ce programme de formation est donné en arabe, notre confrère, le frère Arsanius, y a un rôle très important. Il traduit ce que dit l’Abbé Président qui enseigne par Zoom. Il traduit également toutes les leçons sur la règle de saint Benoît que nous utilisons en cours.
Nous ne manquerons pas de mentionner le rôle joué par l’abbé émérite de Muensterschwarzach, le père Fidelis Gerhard Ruppert : ses nombreuses visites en Égypte pour donner de courtes conférences et cours à la communauté ont toujours été une richesse pour notre formation. Malheureusement, la pandémie de COVID-19 a interrompu cette mission. Nous espérons qu’une fois l’épidémie vaincue le Père Abbé Fidelis pourra reprendre ses visites. Il nous manque ! Le père Fidelis a contribué à renforcer nos liens avec les grands monastères coptes orthodoxes de Saint-Macaire et de Saint-Antoine-le-Grand. Nous cherchons comment rendre ces relations plus fructueuses afin que certaines formations puissent être données dans ces monastères puisque nous avons les mêmes racines. C’est une entreprise difficile que nous seuls, moines bénédictins de l’Église catholique, pouvons mener.

La liturgie
Notre liturgie est copte. Depuis un an, nous travaillons sur sa structure. Nous avons fait plusieurs essais avant de définir le style de notre liturgie. L’arrivée du père Emmanuel a été une bénédiction pour la communauté. En tant que prêtre copte catholique, il nous a beaucoup appris en matière de rite copte : messe, offices, liturgies spéciales selon les directives du synode des évêques de l’Église copte catholique. Les deux langues utilisées pour nos célébrations liturgiques sont l’arabe et le copte. Nous célébrons la messe trois fois par semaine : le dimanche, le mercredi et le vendredi. Notre journée commence à 5 h 30 en été et 6 h 30 en hiver. Le livre de prière catholique copte (Agbiyya) prévoit les prières du matin, de la troisième heure (9 h), de midi, du soir, de la nuit, l’office des moines et les prières de minuit. Habituellement, nous prions les offices du matin, de midi, du soir, de la nuit ainsi que l’office des moines (que nous sommes les seuls à célébrer). Les jours où il n’y a pas la messe, nous prions l’office de la troisième heure. Tous les samedis soirs, au lieu de l’office du soir, nous avons la cérémonie de l’encens (une liturgie très solennelle avec beaucoup d’encens) qui comprend une partie de l’office de la nuit.
Découverte de la mission
Découvrir notre mission de bénédictins missionnaires est très important. Certains de nos confrères ont eu la chance d’aller dans une de nos abbayes bénédictines ou de nos prieurés de la congrégation de Saint-Ottilien pour leur formation ou pour faire une expérience. Abuna Emmanuel, juste avant de rejoindre notre communauté, a passé deux semaines à Tigoni, au Kenya. Il avait besoin de cela pour avoir une première expérience de communauté bénédictine afin d’affiner son intention. Son expérience a été positive et à son retour, convaincu que c’est bien ce qu’il voulait, il s’est joint à nous. Le frère Arsanius a fait la deuxième partie de son postulat et tout son noviciat à Tigoni. Alors qu’il était à Tigoni, il a visité Tororo (Ouganda). En 2019, il a participé à une rencontre en Allemagne. Pendant ce voyage, il a eu la chance de visiter certains de nos monastères en Allemagne et dans les pays voisins. Le frère Bruno a récemment (octobre-décembre) eu la chance de visiter les abbayes de Saint-Ottilien, Muensterschwarzach, Schweiglberg et Georgenberg. Toutes ces expériences sont une richesse pour notre fondation.
Conclusion
Pour conclure, nous tenons à remercier tous ceux qui nous ont soutenus et nous ont aidés à être là où nous en sommes. Nous apprécions chacun d’entre vous pour sa contribution qui est unique. Sans votre précieux soutien, les choses auraient été bien différentes.
Chiusura dell’abbazia Sainte-Marie-du-Désert (Francia)
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Notizie
Chiusura dell’abbazia
Sainte-Marie-du-Désert (Francia)
e apertura del primo Village de François
Estratto dal sito internet: «Le village de François»
(https://abbayedudesert.fr/ouverture-premier-village-francois/)
Il 4 ottobre 2020 si è aperto il primo Village de François all’abbazia Sainte-Marie-du-Desert. Alla vigilia, circa cinquecento persone, di cui centocinquanta monaci e monache, erano venute per farsi presenti agli otto monaci della comunità per la loro partenza e il passaggio di consegne al Village de François. Nel corso della messa di ringraziamento presieduta dall’arcivescovo, Mons. Le Gall, ha avuto luogo il passaggio di consegne.
Emozionato, il Padre Abate ha deposto il suo pastorale ai piedi dell’altare, poi ha consegnato le chiavi dell’abbazia al Village de François. «Vi affido l’abbazia, prendetevene cura», attraverso queste parole, il Padre Abate ha definitivamente realizzato il passaggio di consegne. Una pagina di storia dell’abbazia si chiude dopo centosessantotto anni di vita monastica a Sainte-Marie-du-Desert. Una partenza non senza tristezza evidentemente, ma piena di speranza poiché è stato ricordato nel corso della messa che «se il chicco di grano caduto in terra muore, porta molto frutto». E i monaci sono in questa speranza che domani nascerà un bel Village de François che porterà frutto.
Fedele alla vocazione dei monaci di portare il mondo e gli uomini nella loro preghiera, il Village de François si augura di accogliere i più fragili al fine di risollevarli, offrendo loro di vivere delle relazioni fraterne e benevole. Il padre abate Pierre-André Burton ha ben ragione: il Village de François è «un bel progetto ambizioso: alcune famiglie forniranno un quadro solido a coloro che sono nella miseria». Dal punto di vista economico, l’insieme delle attività dei monaci prosegue, i posti di lavoro saranno preservati, i monaci partono rassicurati.
L’équipe del Village de François è rimasta sorpresa per l’affluenza numerosa di candidature spontanee di famiglie eccezionali che si vogliono impegnare volontariamente nell’avventura. La famiglia Content è la prima ad essere arrivata in settembre. Olivier e Marthe con la figlia piccola, sono arrivati il 20 ottobre. Nel mese di novembre Aynard, Gabrielle e i loro due figli si sono aggiunti all’avventura. Aynard si occupa dello sviluppo economico del Villaggio. Vincent e Yuna, una giovane coppia, è attesa nei prossimi giorni. Ci saranno anche Pierre-Henri e Sègolène, Ferréol e Ombeline, François e Jeanne… Numerose famiglie vogliono raggiungere prossimamente il Village de François per vivere questa fraternità con i più fragili. L’arrivo dei celibatari si fa progressivamente… Le persone fragili accompagnate da alcune associazioni arriveranno a partire dal gennaio 2021 in funzione dei lavori. Ognuno sarà ricevuto e accolto grazie ad associazioni sperimentate, come l’associazione «Magdalena» per le donne sottratte alla prostituzione. Una collocazione per le persone anziane si prepara con la struttura «Cette Famille» (Questa Famiglia). Alcuni progetti di collocazione per persone vissute in strada o in situazioni di handicap sono in corso di studio e di formalizzazione attraverso dei partner.
Importanti lavori sono necessari per accogliere ciascuno. Il Village de François cerca centinaia di migliaia di euro per realizzare degli appartamenti. Il primo Village de François a Tolosa è dunque aperto. L’abbazia Sainte-Marie-du-Desert non muore, si trasforma e i legami di amicizia con i monaci sono intessuti per sempre.