P. Mauro-Giuseppe Lepori O.Cist.

La Regola di San Benedetto: una proposta di umanità(1)

leporiUn tesoro per tutti

La proposta di intervenire al cuore del vostro Workshop sul tema « Cosa vuol dire ‘dirigere’ », col compito di presentare l’apporto della Regola e del carisma di san Benedetto, mi ha fortemente stimolato. Da più di 24 anni vivo nell’Abbazia cistercense di Hauterive; da quasi 15 ne sono l’abate, cioè il responsabile, o il “direttore”, per restare vicino ai termini del vostro tema di lavoro e riflessione, e questo vuol dire che ho passato tutti questi anni seguendo la Regola di san Benedetto, la Regola che i monaci cistercensi del 12° secolo sono tornati ad osservare alla lettera. Ho potuto verificare in prima persona quanto questa Regola di vita monastica, redatta già all’inizio del sesto secolo, nella sua essenza rimanga attuale, attuale non per vivere una Regola, ma per vivere meglio, e vivere meglio tutto, tutta la vita umana, in tutte le sue dimensioni.

E quando si fa tale esperienza, che qualcosa ci aiuta a vivere meglio, a vivere la nostra umanità con più gusto, ma anche con maggiore responsabilità, non può non dispiacere il fatto che un tale tesoro oggi rimanga spesso rinchiuso nei monasteri, al servizio dei monaci e delle monache che seguono la Regola benedettina per vocazione religiosa.

Non fu sempre così. Tutta la cultura europea si è lasciata plasmare da questa esperienza di vita che si è comunicata, come per osmosi, dai monasteri al tessuto di tutta la società, di una società che doveva ricostruirsi sulle macerie dell’impero romano, integrando il sangue nuovo e ribollente dei popoli barbari.

San Benedetto ha permesso al Cristianesimo di diventare cultura, nel senso globale del termine, cioè di incarnarsi nella pasta della nostra umanità, rendendola più umana, più armoniosa, più unificata. Di per sé, questa umanizzazione dell’umanità fa parte della natura del Cristianesimo. Se Dio, creatore dell’uomo, si fa uomo e vive una vita umana, immancabilmente Egli offrirà in Sé l’immagine di un’umanità compiuta, vera, bella, corrispondente al disegno secondo il quale ogni essere umano esiste.

Dico questo, ben cosciente di non parlare necessariamente ad un pubblico che condivide la mia fede cristiana. Ma sarebbe impossibile parlare dell’apporto di umanità del movimento benedettino senza menzionarne la radice e la sorgente vivificante. Sarebbe disonesto anzitutto nei confronti di san Benedetto che mette al centro della sua Regola, ripetendolo a più riprese, il consiglio e il precetto di “non preferire nulla all’amore di Cristo” (RB 4,21; cfr. 72,11), di “non avere nulla di più caro che Cristo” (5,2). Perché è innegabile che san Benedetto si è preoccupato solo di questo, aveva in mente solo questo. Tutto il suo influsso sulla cultura europea è stata una fecondità della sua vita che lui non ha sicuramente previsto e progettato.

Sono convinto che se san Benedetto, come tanti altri padri della nostra civiltà, potrà aiutarci nella crisi che viviamo, ciò sarà possibile solo se avremo l’onestà e direi l’umiltà di ascoltare la sua esperienza nell’integralità delle sue dimensioni, confrontandoci con ciò che per lui era fondamentale e centrale.

Servire Dio

Il fondamento inevitabile dell’umanità nuova che san Benedetto ha favorito è che tutto nella vita del monastero benedettino è vissuto in funzione di Dio. Lo scopo della vita del monastero è quello di servire Dio, è la gloria di Dio. Alla fine del Prologo della Regola, Benedetto afferma che il suo scopo è di “costituire una scuola per il servizio del Signore” (Prol. 45). Riguardo ad ogni candidato alla vita monastica che entra in noviziato, Benedetto domanda di verificare anzitutto una cosa: “se veramente cerca Dio” (58,7).

Ora, percorrendo la Regola è evidente che questa intenzione fondamentale, questa scelta fondamentale, non si riferisce solo alla preghiera, alla liturgia, agli aspetti prettamente monastici della vita in monastero, bensì a tutti gli aspetti della vita umana, anche i più materiali, economici, fisici, terra-terra. Tutto, letteralmente tutto, c’entra con questa scuola del servizio di Dio.

Faccio un solo esempio che ben si adatta al pubblico a cui sto parlando, perché si tratta di soldi. Alla fine del capitolo della Regola sul lavoro degli artigiani del monastero, Benedetto conclude dicendo: “Se si deve vendere qualche prodotto dell’artigianato del monastero, si guardino i fratelli che hanno l’incarico di trattare la cosa dal permettersi alcuna frode. (…) Anche nel fissare i prezzi, non si insinui il peccato di avarizia: si venda sempre a un prezzo un po’ più basso di quanto non farebbero gli altri secolari, perché in tutto sia glorificato Dio.” (57,4-9)

La vita umana, di per sé, è tessuta da una molteplicità di fattori, ma tutti possono essere vissuti in unità, in armonia, se lo scopo del vivere è più grande della vita. Il segreto della fecondità di san Benedetto per la vita monastica occidentale e per tutta la cultura europea credo sia proprio nell’aver reso esperienza concreta, quotidiana, la consapevolezza che solo vivendo per qualcosa di più grande di se stesso l’uomo può vivere con pienezza e unità tutti i fattori dell’esistenza.

Quando i valori non sono più vissuti per ciò che li supera, non hanno più né fondamento né scopo; diventano sterili.

Un cuore dilatato

formationPerché questo? Perché l’opzione fondamentale per la gloria di Dio, o, se preferite, il riferimento fondamentale ad una trascendenza, all’Assoluto, è costitutivo del cuore dell’uomo. San Benedetto è semplicemente cosciente che il cuore umano è fatto così, vive così, è vivo se è così. E la vita del cuore è la felicità, il senso del compimento.

Benedetto eredita la sensibilità alla natura del cuore umano dalla Bibbia e dalla tradizione patristica, per esempio da sant’Agostino, da Cassiano, da san Basilio, ecc., ma anche, direttamente o indirettamente, dai migliori filosofi pagani dell’antichità.

La primissima frase della Regola è: “Ascolta, figlio mio, i precetti del maestro, e inclina l’orecchio del tuo cuore” (Prol. 1).

Non è possibile una novità nella vita se non si parte dall’esigenza di felicità che ogni cuore umano porta in sé. L’uomo però deve prima o poi riconoscere che non riesce a darsi lui stesso la felicità. Da qui l’invito a tendere la capacità di ascolto insita nel cuore umano ad un “maestro”, a qualcuno che ci possa guidare, e che ci possa guidare a partire da un’esperienza di verità della vita. L’essenziale per Benedetto è che il cuore dica liberamente sì ad una salvezza che non viene da lui. L’essenziale è che il cuore, cosciente della sua incapacità a salvarsi da sé, ma anche del suo inalienabile desiderio di pienezza e felicità, decida di ascoltare un Altro, e che lo ascolti con la disponibilità a lasciarsi guidare, istruire, condurre verso la vita.

Il risultato di questo lavoro è che il cuore si dilata, cioè che uno diventa più libero, più se stesso, più capace di desiderio di felicità. È quello che Benedetto promette alla fine del Prologo: “Man mano che ci si inoltra nel cammino della vita monastica e della fede, si corre sulla via dei comandamenti del Signore col cuore dilatato dalla dolcezza inesprimibile dell’amore.” (Prol. 49)

L’espressione “cuore dilatato” esprime una capacità di amore che permette alla libertà di abbracciare tutta la vita, tutta la realtà. La dilatazione del cuore vuol dire che la persona è unificata senza censurare nulla della realtà. L’amore che la abita diventa relazione gratuita con tutto e con tutti. Tutta la vita diventa viva perché diventa amore, un amore che sceglie tutto, accoglie tutto, rispetta tutto, si sacrifica per tutto, rinuncia a tutto, eppure possiede tutto. Direi che l’esito del cammino guidato dalla Regola è come una simpatia per tutta la realtà, un’affezione per tutto, che rende il soggetto capace di generare alla positività tutto quello che incontra e che fa.

Il “cuore dilatato dalla dolcezza inesprimibile dell’amore” genera anzitutto uno sguardo diverso sulle persone e le cose, e quindi una relazione diversa. E la relazione diversa cambia le cose, cambia le persone, le rende migliori, le edifica, le ripara se sono frantumate e distrutte.

È questo sguardo nuovo che ha ricostruito e edificato la civiltà europea. La decadenza dell’impero romano e le stragi barbariche avevano incupito e oscurato lo sguardo sull’uomo e sul reale. Tutto era diventato rovina, pessimismo, disfattismo. Chi osava ancora edificare qualcosa, avere iniziative, sperare in una novità?

Benedetto ha intuito, dentro questa decadenza, che era necessario guardare oltre, guardare altro, guardare un Altro. Si è persino ritirato tre anni solo in una grotta per esercitare questo sguardo su Dio. È uscito da questa esperienza con uno sguardo rinnovato. Non aveva più bisogno di cambiare previamente la realtà e la società per vedere la positività di ogni cosa. La positività la portava in lui, era nel suo sguardo, e ha capito che doveva aiutare gli altri a fissare gli occhi oltre se stessi, oltre la loro miseria e quella del mondo.

Un cammino educativo

Ma com’è che il cuore si dilata, com’è che san Benedetto educa ad un rapporto positivo e costruttivo con la realtà, anche faticosa e drammatica come quella del suo e del nostro tempo? Com’è che san Benedetto può aiutarci a ritrovare una speranza?

San Benedetto ha creato un ambito educativo alla verità della vita, una scuola di vita. Il carisma di san Benedetto è un carisma di educazione all’esperienza umana fondamentale. Educare vuol dire amare il vero destino delle persone. Educare vuol dire accompagnare le persone nella conversione della loro vita verso la pienezza. Educare vuol dire amare una persona non soltanto per quello che è ma anche per quello che è chiamata a diventare.

L’educazione è veramente umana quando è finalizzata all’uomo in quanto tale, e non solo a ciò che l’uomo deve fare o a ciò a cui l’uomo deve servire.

Quali sono allora i cardini dell’apporto educativo di san Benedetto ad una cultura umana e feconda? La Regola evidenzia essenzialmente tre fattori, che si compenetrano: la preghiera, la comunità e l’autorità.

Preghiera

Sulla preghiera non voglio dilungarmi, anche perché ne ho già spiegato sopra il significato fondamentale. Si tratta infatti di esercitare un ascolto e dei gesti che educhino la persona a vivere per Qualcuno di più grande di se stessa. Si tratta di dire “Tu” a una Presenza che ci supera e che ci vuole bene, che ci ha creati e vuole che la nostra vita si compia nell’amore e nella felicità. Tutte le ore di preghiera comunitaria e personale che prevede san Benedetto, vogliono educare a questa coscienza, e quindi liberare il cuore dalla chiusura su di sé che soffoca il respiro della vita. Pregare, per san Benedetto, vuol dire educarsi a riconoscere che la dimensione dell’eterno e dell’infinito fa parte della definizione di noi stessi, e che questa dimensione è Qualcuno, Dio, che ci parla, che ci ascolta, cioè Qualcuno in relazione con noi, dentro il tempo della giornata.

Benedetto ci chiede di interrompere il sonno, e più volte le attività del giorno, per starci all’appuntamento con Colui che ci fa, che ci crea, e che dà compimento e pienezza alla nostra vita, non solo dopo la morte, ma ora, oggi, in quello che stiamo vivendo oggi. La preghiera benedettina è quasi tutta vissuta nella Parola di Dio, nell’ascolto e nell’espressione della Bibbia, in particolare dei Salmi, queste 150 composizioni poetiche in cui il popolo ebraico esprime nella relazione con Dio tutto quello che il cuore umano può sentire e vivere, di positivo e di negativo.

La pratica regolare della preghiera, come domanda e lode, crea una coscienza di sé e della realtà che poi penetra in tutto il tessuto della vita, nelle relazioni e nel lavoro. Tutto per san Benedetto deve diventare liturgia, tutto è per la gloria di Dio, per cui ogni dettagli pratico e materiale diventa espressione di un anelito che va al di là dell’apparenza e della contingenza.

Praticamente è come se Benedetto ci dicesse che se il cuore dell’uomo vive la relazione con Dio, tutto quello che fa e che tocca diventa espressione e memoria di questa relazione.

butlinNeytStabilità nella comunità

La preghiera, il rapporto con Dio, il riconoscere che Dio è Dio, diventano allora come la linfa che scorre nell’albero. L’albero nella Regola di san Benedetto è la vita comunitaria che si esprime nella fraternità e nel lavoro.

La comunità per san Benedetto è un corpo a cui ogni monaco appartiene liberamente, accettando di vivere la vita monastica secondo la Regola. È un gruppo di persone che, vivendo sotto un’unica paternità (quella di Cristo rappresentata dall’abate) ha come legge la fraternità, l’essere fratelli, rispettivamente sorelle, gli uni degli altri. Nella comunità monastica tutti sono uguali perché chiamati in monastero da un unico Signore. San Benedetto sottolinea, in un’epoca in cui vigeva ancora la schiavitù: “Servi e liberi, in Cristo siamo tutti una cosa sola e, avendo un unico Signore, prestiamo tutti un uguale servizio” (2,20).

Questa uguaglianza non censura le diversità. San Benedetto non si fa problemi a mettere in evidenza i meriti o le qualità particolari di ciascun monaco, purché questo non diventi occasione di orgoglio, perché allora il merito e la qualità personale, invece di essere una ricchezza per la comunità, diventano causa di divisione.

Ogni membro ha bisogno infatti della comunità affinché tutti i valori e le virtù possano essere reali e non immaginari. La comunità verifica tutto, rende vero e reale tutto. Uno è quello che è in comunità, non quello che appare fuori di essa o nell’idea che si fa di se stesso. Ed è nell’unità umile e armonica col resto del corpo che ogni membro può trovare ed esprimere la sua vera fecondità di vita.

L’inserzione comunitaria è così importante per la verità del cammino di ogni monaco, che san Benedetto domanda a chi si decide veramente di seguire questo cammino di fare voto di stabilità nella comunità. La stabilità è un po’ il quarto voto benedettino. Si tratta di decidere di rimanere per sempre, fino alla morte, in una determinata comunità. È una scelta che san Benedetto vuole sia ben meditata, verificandola nello studio della Regola e provando a vivere in comunità, perché possa essere presa in totale libertà, ma per sempre (cfr. Cap. 58).

Qual è il significato di questo voto, di questo impegno, che è forse quello che oggi si fa più fatica ad accettare? Lo scopo è di rendere reale ed efficace il cammino di conversione che il monaco intraprende. Solo se si decide una stabilità in una comunità, cioè in un ambito relazionale determinato, si cambia realmente.

Decidendo la stabilità, è come se uno si dicesse: Capiti quel che capiti, sono d’accordo di cambiare io prima di cambiare il luogo e le persone a cui appartengo. Perché di problemi e difficoltà ce ne saranno sempre sul cammino intrapreso. La tentazione sarà sempre di illudersi che altrove e con altre persone andrà meglio, sarà più facile. Questa è quasi sempre un’illusione. Chi se ne va, chi cambia, troverà sempre gli stessi problemi, perché il vero problema è di accettare di cambiare se stessi, di progredire, di convertirsi sempre di più ad una vita più donata, più libera da sé.

Questo impegno di vita prettamente benedettino è forse quello che sarebbe più necessario nella società odierna, in tutti gli ambiti: famigliari, professionali, ecc. Normalmente oggi se ci sono difficoltà si cerca di cambiare, o per lo meno di evitare le persone con cui si fa fatica. Spesso le persone sono “spostate” dagli altri, da coloro che fanno fatica con loro. Il risultato è che le persone non sono mai aiutate a cambiare, a progredire. Non si ha fiducia nella possibilità che ognuno avrebbe di diventare migliore.

Il voto di stabilità in monastero è in fondo un atto di estrema fiducia non solo in Dio, ma anche nell’uomo. Il singolo e la comunità si accordano vicendevolmente una fiducia senza limiti di tempo, per sempre, che è una fiducia nella possibilità indelebile di ogni persona di aprirsi alla grazia di un cambiamento, di una verità di vita sempre più grande, malgrado tutti i difetti, le lentezze, le cadute.

Il fatto di educarsi in comunità a riconoscere una relazione con l’altro generata dal riconoscimento di Dio, cioè che l’altro mi è fratello, o sorella, perché abbiamo in Dio un unico Padre, conduce ad avere con tutti un rapporto che non si ferma alle apparenze a all’istintività. In ogni ospite, soprattutto se povero, Benedetto domanda di riconoscere e adorare Cristo (53,1-7). E in generale, la regola domanda di “onorare tutti gli uomini”, senza distinzione (4,8). È come se ci dicesse che più si onora Dio, e più si può onorare l’uomo, qualsiasi uomo.
Questa umanità di sguardo e di accoglienza ha senz’altro contribuito non poco ad umanizzare la società europea in un epoca in cui la diversità delle culture e l’inimicizia dilaniavano tutti e tutto.

Cosa significa “dirigere”

Arrivo a trattare più direttamente il tema del vostro seminario: Cosa significa “dirigere”.

Tutta l’esperienza di vita che la Regola di san Benedetto descrive è di fatto un’esperienza “diretta”, cioè guidata. Guidata fondamentalmente dalla Regola, e tramite essa dalla Bibbia, in particolare dal Vangelo, e anche dalla tradizione monastica che risale fino ai padri del deserto dei primi secoli. Ma la Regola non è un codice che funziona da solo. La Regola è un vademecum per chi è chiamato a dirigere il monastero e per ogni monaco che vuole seguire questo cammino. La comunità che la Regola descrive e ispira è una comunità guidata, guidata essenzialmente da un abate, e da altre figure di responsabili delegati che partecipano alla responsabilità dell’abate per meglio condurre la comunità.

Una comunità, per essere veramente un luogo educativo alla vita, non può guidarsi da se stessa, ha bisogno di una guida. Una guida che, normalmente, è scelta “democraticamente” dalla comunità stessa: “Sia nominato colui che risulterà eletto da tutta la comunità concorde nel timor di Dio (…). Deve essere scelto in base al merito della sua vita e alla saggezza del suo insegnamento, fosse pure l’ultimo nell’ordine della comunità.” (64,1-2)

L’abate per san Benedetto rappresenta in mezzo ai suoi fratelli la paternità di Gesù Cristo, del buon Pastore che dà la vita per le pecore (cfr. Gv 10).

La figura dell’abate è menzionata in quasi tutti i 73 capitoli della Regola. In fondo, il ruolo dell’abate è un po’ quello di moderatore fra la lettera della Regola e la vita della comunità. La Regola è fissata; la vita della comunità invece, come quella di ogni organismo umano, varia continuamente. L’abate deve allora esercitare il carisma della “discrezione”, del discernimento, della moderazione.

Come è chiamato a dirigere la comunità?

San Benedetto dà parecchi consigli. Cerco di sottolineare i quattro più importanti e magari i più utili oggi, anche a voi.

1. L’abate deve essere “dottore” (cfr. 64,9), nel senso che deve saper offrire alla comunità un insegnamento costante, una “dottrina di saggezza” (64,2) che lui stesso attinge dalla sapienza divina. “L’abate, scrive san Benedetto, non deve insegnare, stabilire o comandare nulla che sia estraneo al comandamento del Signore; piuttosto la sue disposizioni e il suo insegnamento devono cadere nell’animo dei discepoli come un fermento di giustizia divina.” (2,4-5).

Questo per me è un aspetto essenziale, perché implica un esercizio dell’autorità che non fa appello ad un’obbedienza automatica, servile, infantile, ma che fa appello alla libertà e al giudizio delle persone. Esercitare una responsabilità tramite la comunicazione di una “dottrina di saggezza”, vuol dire lasciare agli altri la possibilità di appropriarsi le ragioni di ciò che è loro chiesto, del cammino che devono fare. Vuol dire condurre le persone ad obbedire alla verità facendola propria, assimilandola, piuttosto che ad obbedire ad un ordine esteriore. La dottrina di sapienza fa sì che la guida che il responsabile esercita è assimilata dalla libertà e dalla ragione di chi è guidato, e questo fermento interiore genera una reale responsabilità, una maturità responsabile, per cui si impara a stare in piedi e a camminare da soli, ad essere soggetti e non pecoroni del cammino che percorre la comunità.

Questo è un punto che penso sia molto dolente in tutte le conduzioni in atto nella società odierna. Quanti responsabili nell’ambito politico o professionale sono veramente capaci di esprimere “una dottrina di sapienza” in quello che chiedono a chi dipende da loro? Cioè, quanti responsabili sanno veramente dare le ragioni del cammino da fare, del compito da svolgere, delle scelte da prendere, affinché sia veramente la libertà delle persone ad essere interpellata e mossa, e non, per esempio, la paura di ritorsioni, o il calcolo meschino del proprio interesse?

2. Un altro aspetto importante della “direzione” dell’abate è la disponibilità a lasciarsi consigliare, cioè di promuovere e suscitare un giudizio comune sul cammino da percorrere. Il terzo capitolo della Regola è dedicato a questo tema, che si ritrova altrove.

“Ogni volta che in monastero si deve trattare qualcosa di importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’argomento in questione. Ascolti prima il consiglio dei fratelli e dopo aver riflettuto dentro di sé, faccia quanto riterrà più opportuno. Abbiamo detto di convocare tutti a consiglio, perché spesso il Signore rivela al più giovane la decisione migliore. (…)

Se si tratta di cose di importanza secondaria per l’andamento del monastero, ricorra soltanto al consiglio degli anziani, come sta scritto: Fa tutto consigliandoti, e a fatti compiuti non te ne pentirai. (Sir 32,24)” (3,1-3.12-13)

Penso sia importante notare che una dinamica di consiglio è anzitutto una dinamica di ascolto reciproco e comune. L’idea fondamentale è che c’è una verità più grande di tutti i “consiglieri” che bisogna ascoltare insieme ascoltandosi reciprocamente. È la verità stessa che deve manifestarsi e imporsi, e per questo non c’è da stupirsi che essa si serva come strumento anche di chi sembra meno esperto o adeguato.

Questa pratica però non livella i ruoli e le responsabilità. L’abate, per esempio, deve ascoltare, meditare quello che gli altri dicono, ma è lui ultimamente che deve decidere. La responsabilità resta sua, e non potrà nascondersi dietro il paravento dell’opinione comune. Deve rimanere libero di prendere una decisone controcorrente se, dopo aver ascoltato tutti, intuisce che la decisione da prendere non è quella della maggioranza.

3. Un altro aspetto importante della responsabilità dell’abate è la delega. L’abate non deve fare tutto da solo. San Benedetto stabilisce, per esempio, che “se la comunità è numerosa, si scelgano al suo interno dei fratelli che hanno la fiducia degli altri e di vita santa, e siano costituiti decani (…). Tali decani devono essere scelti in modo che l’abate possa condividere fidatamene con loro i propri pesi: non si scelgano in base all’ordine di anzianità, ma tendendo conto del merito della loro vita e della loro dottrina di sapienza.” (21,1-4)

Si vede che i decani devono in fondo avere le stesse qualità dell’abate, il merito della vita e la dottrina di sapienza, il che vuol dire che non devono solo eseguire degli ordini, ma esercitare una reale responsabilità personale nei confronti dei fratelli. L’unica condizione è che lo facciano in unità con l’abate, che l’abate possa fidarsi di loro.

Lo stesso vale per il priore del monastero (cap. 65), l’economo (31), il maestro dei novizi (58), l’infermiere (36), il responsabile dell’accoglienza (53 e 66), ecc. Ogni delega di responsabilità deve essere sempre come pacificata e alimentata da un legame più esplicito di fedeltà e obbedienza all’abate, di trasparenza nell’esercizio della propria responsabilità.

San Benedetto è cosciente che il rischio che corre un responsabile è quello di non più fidarsi degli altri, di prendere possesso della sua carica, ciò che porta ad esercitare il suo potere in modo, direi, paranoico. Per questo invita l’abate a cercare “di essere più amato che temuto. L’abate non deve essere agitato e inquieto, non eccessivo ed ostinato, non geloso e troppo sospettoso perché non avrà mai pace.” (64,15-16)

San Benedetto non ama i superiori nevrotici, così preoccupati della loro carica da perdere il sonno e l’appetito. L’abate non deve dimenticare che è anche lui figlio e fratello come ognuno dei suoi confratelli. Per questo deve delegare, ma soprattutto confidare in Dio. Anche lui deve esercitare il suo compito più nella preghiera che nel dire e nel fare.

4. Un quarto aspetto dell’esercizio dell’autorità secondo san Benedetto è la capacità di correggere. Il materiale umano di qualsiasi comunità è sempre un materiale fragile, fallibile, che ha bisogno costantemente di essere corretto, risollevato dalle cadute, ripreso dai sentieri falsi e rovinosi in cui si immette, per evitare o riparare le regressioni, le cadute, le fughe. Allora l’abate è chiamato dalla Regola a diventare medico: deve curare pazientemente, rispettando la libertà dei fratelli, affinché capiscano loro stessi  la menzogna e la negatività di certe scelte. L’abate è richiamato anzitutto ad essere cosciente della sua propria fragilità. Spesso può correggere e aiutare adeguatamente i fratelli perduti perché anche a lui è successo e succede di “perdersi”, di cadere, di far esperienza di quanto siamo capaci di menzogna e di ipocrisia. E se la Regola prevede anche delle punizioni, queste hanno sempre un ruolo educativo, devono solo aiutare i fratelli che sbagliano a diventare coscienti del loro errore e a riconoscerlo come tale. Quando un monaco riconosce subito il proprio errore, non ha bisogno di essere punito.

Essenzialmente Benedetto domanda all’abate di essere misericordioso, perché il fine della vita in monastero non è che tutto funzioni bene, ma che ognuno sia amato e diventi capace di amore.

L’abate, prescrive san Benedetto al capitolo 64, “faccia sempre prevalere la misericordia sulla giustizia, perché possa ottenere altrettanto anche per sé. Che odi i vizi, ma ami i fratelli. Anche nel fare le correzioni, agisca con discrezione, senza eccedere, perché nel voler raschiare troppo la ruggine non si spezzi il vaso; non perda mai di vista la propria fragilità, e si ricordi che la canna incrinata non la si deve spezzare.” (64,10-13)

L’attenzione all’umanità

Potrei continuare delle ore a fare esempi e citazioni su cosa significa “dirigere” secondo san Benedetto, ma ho l’impressione che coi punti che ho toccato, e direi soprattutto con l’ultimo, l’essenziale sia detto. E l’essenziale è che il miglior modo di dirigere, di governare, di essere responsabili, di ben condurre una comunità, un gruppo di lavoro, un’impresa, una banca, insomma tutti gli ambiti umani, è il senso dell’umanità, la consapevolezza che si tratta sempre di essere umani, e che è sull’umanità che si deve “lavorare”, anche se lo scopo del gruppo, dell’impresa, della banca, sembra un altro.

Il miglior modo per raggiungere la fecondità nello scopo di ogni gruppo umano è l’attenzione all’umanità, alla nostra e altrui umanità, il senso dell’umanità, di cosa è l’uomo, di qual è il senso della sua vita, il desiderio ultimo del suo cuore, di qual è la sua fragilità e, nello stesso tempo, la sua altissima vocazione.

Perdere il senso dell’umano, così acuto in san Benedetto, è ciò che sta condannando l’Occidente alla rovina, alla rovina di tutto: delle famiglie, delle imprese, della scuola, del lavoro, della politica, di tutto.

La vera crisi della nostra società, a mio parere, consiste proprio nel fatto che è come se non si avesse più a che fare con l’uomo. Si fa tutto, si organizza tutto, si dirige tutto, come se l’uomo non c’entrasse, come se si trattasse di macchine, di computer, non di esseri umani, di uomini e donne umani.

Che contrasto con la sensibilità della Regola per ogni aspetto della nostra umanità! Uno, leggendo la Regola, si sente come abbracciato in tutta la sua umanità, nei suoi molteplici aspetti, in quelli miseri e meschini, come in quelli elevati e sublimi. Benedetto non censura nulla della nostra umanità, è attento a tutto. Figuratevi che mentre sta parlando della preghiera delle Vigilie notturne e delle Lodi del mattino, non dimentica di far notare che bisogna lasciare “un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possano uscire per i bisogni naturali (ad necessaria naturae)” (8,4). Quando si considera l’uomo nella sua totalità, e la totalità dell’uomo va dalle “necessaria naturae” al desiderio dell’infinito, di Dio, non si censura più nulla, si vive tutto, e tutto ha un significato, un gusto, una bellezza.

Nel capitolo sull’accoglienza degli ospiti, Benedetto utilizza un’espressione bellissima, e difficile da tradurre: chiede che all’ospite “omnis (…) exhibeatur humanitas”, che gli si dimostri tutta l’umanità possibile (53,9). Certo, in questo contesto ciò vuol dire che bisogna aver cura di tutti i suoi bisogni in quel momento. Ma si potrebbe anche comprendere l’espressione nel senso che questa cura, questa attenzione, riveli all’ospite, all’uomo forestiero e sconosciuto che si presenta, in cosa consiste essere totalmente e veramente umani, qual è la natura e la vocazione integrale dell’uomo. Perché è questo il vero bisogno dell’uomo, di quello di 15 secoli fa, come di quello di oggi: il bisogno di diventare cosciente di chi egli è veramente, di qual è la sua natura e il suo destino. Affinché l’uomo possa amare un po’ di più se stesso, e la sua vita, tutto quello che fa, e amare gli altri come se stesso.

Credo che questa rivelazione dell’uomo all’uomo, questa rivelazione all’uomo di tutta la sua umanità, alla luce di un’esperienza della ricerca di Dio, sia l’apporto sempre attuale che l’esperienza di san Benedetto può fornire alla società d’oggi, sia l’attualità più preziosa del carisma benedettino per l’uomo d’oggi, e anche l’attualità più urgente.

(1) Workshop Credito Svizzero, 21 aprile 2009.