La vita e la morte nell’ideale monastico
(Estratto del Bollettino dell'AIM)
Dom Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Questo numero del Bollettino dell’AIM tratta del tema della vita e della morte nell’ideale monastico. Ciò fa riferimento al mistero pasquale di Cristo in generale e a tutte le consuetudini che lo rendono presente nel quotidiano.
Morte e vita nella Regola di san Benedetto
Nel libro del Deuteronomio, Mosè parla al popolo di Dio e lo fa in maniera assai decisa proprio nel momento in cui è in procinto di morire senza avere nemmeno visto la Terra Promessa: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte… scegli dunque la vita» (Dt 30,19). La vita monastica ha preso sul serio questo pressante invito. Fin dall’inizio del testo della Regola, san Benedetto riprendere l’appello del Signore:
«E di nuovo il Signore, cercando tra la moltitudine cui lancia questo appello il suo operaio, dice: “C’è un uomo che vuole la vita, che desidera vedere giorni felici?”. Se tu al sentire questo rispondi: “Io”, Dio ti dice: “Se vuoi avere la vita, vera ed eterna, trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra non preferiscano menzogna”» (Pr 14-16).
Così pure alla fine del Prologo:
«E così senza allontanarci mai dal suo insegnamento, e vivendo nel monastero saldi nella sua dottrina fino alla morte, parteciperemo, mediante la pazienza, alla passione di Cristo, per arrivare ad avere parte con lui nel suo Regno» (Pr 50).
Nel capitolo quarto sugli strumenti delle buone opere, san Benedetto insiste sulla dimensione della morte e della vita nell’esistenza del monaco: «Avere ogni giorno presente davanti agli occhi l’imminenza della morte» (RB 4,47). Questo modo di parlare non è certo tenero, ma è semplicemente la maniera per sottolineare che la vita su questa terra, per quanto sia così importante, è comunque un momento di passaggio tanto che bloccarsi su di esso non dà certo la chiave per comprendere il mistero della nostra esistenza. Si tratta di una questione di orientamento del desiderio che anela verso la vera vita come pure di necessaria vigilanza sulle parole e gli atti quotidiani.
Concretamente tutto questo si traduce attraverso un’attenzione che si invera in un ascolto obbediente, affinché l’amore possa circolare liberamente tra noi. Così, nel suo capitolo sull’umiltà, san Benedetto precisa che: «Il terzo gradino dell’umiltà consiste nel sottomettersi per amore di Dio a chi è superiore, obbedendogli sempre, a imitazione del Signore di cui l’Apostolo dice: “Fatto obbediente fino alla morte”» (RB 7,34). Ancora una volta siamo messi di fronte al mistero pasquale. Il quarto grado dell’umiltà completa il precedente evidenziando quanto si esiga in termini di pazienza e di perseveranza. La sfida si presenta in questi termini: «Senza cedere o indietreggiare», fino in fondo, fino alla fine per poter gustare così la vita vera.
Tutto ciò viene vissuto nel quadro della vita liturgica in cui l’alternanza regolare tra il giorno e la notte riattualizzano nella nostra vita il mistero pasquale di Cristo: al tramonto quando si celebrano i Vespri è il momento della morte in croce, nella notte oscura delle Vigilie attraverso il combattimento che si vive al cuore stesso della salmodia, all’alba con le Lodi in cui si rinnova l’aurora della risurrezione; così pure, seguendo il corso del sole e i momenti della passione del Figlio dell’uomo, nelle altre Ore della giornata.
Ritroviamo questa stessa preoccupazione quando si tratta dei malati. I fratelli malati ricordano a tutti la fragilità dell’esistenza e il fatto che tutti siamo in cammino verso l’ultimo passaggio. San Benedetto ricorda che si riconoscerà in loro il Cristo, sofferente e morente, che continua a essere, al tempo stesso, testimone della vita che si trova in Dio.
Allo stesso modo, san Benedetto richiede una particolare attenzione verso i bambini, gli ospiti, i pellegrini, i poveri; anche in costoro bisogna riconoscere il Cristo bisognoso e alle prese con la fragilità dell’esistenza.
Per indicare questo rapporto con il Cristo nel suo mistero pasquale, la Regola prevede in varie circostanze il rito della lavanda dei piedi. Questo avviene nel momento dell’accoglienza degli ospiti, ma anche, ogni settimana, quando i monaci cominciano il loro servizio in refettorio e in cucina, anche se questo rito non è praticato attualmente. Proprio questa dimensione del servizio diventa segno della partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Il rito della lavanda dei piedi trova il suo senso più pieno in legame con la cena eucaristica così come Gesù la inaugura alla vigilia della sua passione.
Lo stesso monaco rinuncia a ogni possesso personale. Nel giorno della sua professione dà in dono tutto quello che possiede; soprattutto fa dono di se stesso in quanto «da quel giorno non è più padrone nemmeno del proprio corpo» (RB 53,25). È questa la ragione per cui, in alcuni momenti storici, la liturgia della professione simboleggiava la morte spirituale del candidato mediante una prostrazione durante la quale veniva ricoperto da un velo nero. Oppure, il professo continuava a tenere coperta la testa dal cappuccio per tre e perfino otto giorni prima di scoprire di nuovo il capo e mostrarsi così come testimone della risurrezione secondo il modello della liturgia battesimale. Viene anche da ricordare quella sorta di “incoraggiamento” che in passato i monaci trappisti si rivolgevano reciprocamente quando si incrociavano in monastero: «Fratello, ricordati che bisogna morire»; oppure il caso di quei monaci che, ogni giorno, scavavano un po’ di più la loro tomba per rammentarsi delle cose che passano. Certamente questi usi non sono più d’attualità poiché il polo centrale della vita e della risurrezione ha ritrovato il suo giusto posto. In ogni modo la vita monastica deve vigilare sull’equilibrio tra le due dimensioni del mistero pasquale che restano sempre inseparabili.
Alla fine della sua Regola, san Benedetto riassume la vita dei monaci in questi termini:
«Assolutamente nulla antepongano a Cristo: egli ci guidi tutti insieme alla vita eterna!» (RB 72,11-12).
Morte e vita non si possono comprendere adeguatamente nella vita monastica se non alla luce del mistero pasquale di Cristo.