Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani
(Estratto del Bollettino dell’AIM)
2019 - N° 117
Padre Jean-Pierre Longeat, osb
Presidente dell’AIM
Uno degli elementi più distintivi della vita di una comunità monastica è il fatto che generazioni diverse vivano le une a fianco delle altre. Questa esperienza di prossimità intra-generazionale si è certamente accentuata, soprattutto in Occidente, a causa dell’allungamento della vita. La società moderna ha optato piuttosto per separare tra loro le generazioni, mentre le comunità monastiche mantengono ancora, nella misura del possibile, l’abitudine di una vita comune inter-generazionale. Molto spesso ci si trova di fronte a comunità formate da quattro e persino cinque generazioni.
Questo numero del Bollettino dell’AIM, facendo eco all’ultimo Sinodo su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», presenta qualche aspetto di questa tematica in relazione alla vita monastica. Abbiamo raccolto alcune testimonianze provenienti da vari continenti per cogliere quello che è il sentire comune dei giovani monaci e delle giovani monache in quello che è il loro impegno monastico nel tempo attuale. Ciascuno ha interpretato a suo modo la domanda di fondo che verteva sulla visione che un giovane può avere della vita monastica nel contesto del paese e della cultura nelle quali è immerso. Siamo così messi di fronte a una grande diversità di approcci!
Diverse rubriche e un po’ di notizie confluiscono nella parte restante di questo numero.
Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani
RB 4,70-71; 63,10
Prima di tutto ascoltiamo ciò che ci viene detto da san Benedetto sul nostro tema. San Benedetto è attento soprattutto al buon equilibrio che deve regnare all’interno della comunità a partire dall’apporto dei giovani unitamente a quello dei fratelli e delle sorelle più anziani. Nel capitolo quarto in cui si tratta degli strumenti dell’arte spirituale troviamo questa ingiunzione: «Avere rispetto per gli anziani, amare i giovani» (4,70-71). Si tratta di modulare le reazioni degli uni e degli altri in una reciproca attenzione.
Fin dall’inizio della Regola di san Benedetto, il monaco viene presentato come un figlio in ascolto di suo Padre. Com’è noto si tratta di una citazione del libro dei Proverbi (1,8), ma soprattutto è una disposizione evangelica. Gesù stesso mantiene un rapporto filiale con suo Padre che è pure nostro Padre e, proprio a partire da questo, invita anche ciascuno di noi a vivere come figli amati di questo Padre che ci ama. Non importa quale sia l’età di un monaco, di una monaca, di un discepolo di Cristo, che resta sempre come un figlio, una figlia in ascolto di Colui da cui riceve ogni cosa.
Il capitolo settimo sull’umiltà ritorna su questo punto. Il monaco viene definito come un figlio che riposa serenamente in seno alla propria madre, come il discepolo in continuo ascolto del suo Dio (cf. Sal 130). A ben pensarsi si tratta di una sorprendente definizione del monaco. Non bisogna fare altro se non riposare in Dio come un bambino, come un neonato attaccato al seno di sua madre senza avere il cuore orgoglioso né lo sguardo ambizioso. Così pure non bisogna coltivare progetti autonomi contando sulle proprie forze. Con questo atteggiamento di fiducia e di fede si acquisisce progressivamente una certa maturità tanto che, come recita il dodicesimo grado dell’umiltà, «il monaco raggiungerà quell’amore di Dio che, giunto a pienezza, dissipa ogni timore» (RB 7,67). In questo consiste il cammino di ogni vita monastica.
La scuola che san Benedetto vuole fondare, per tutti coloro che si mettono in questa disposizione, permette di intravedere una corsa sulla via dei comandamenti: «Man mano che ci si inoltra nel cammino della vita monastica e della fede, si corre sulla via dei comandamenti del Signore col cuore dilatato [sempre più giovane…] dalla dolcezza inesprimibile dell’amore» (RB Prol. 49). Non è certo garantito che questo si verifichi sempre e per tutti, ma comunque è l’orizzonte che Benedetto prospetta… Resta il fatto che nessuno può valutare dall’esterno ciò che avviene nell’intimo del cuore di ciascuno: solo Dio lo sa!
Portando avanti il suo proposito, san Benedetto presenta i monaci cenobiti come dei principianti (RB 1 e RB 73) che combattono nei ranghi di una milizia fraterna. Progressivamente costoro vanno oltre il semplice fervore degli inizi per entrare in una lotta contro le prove interiori fino a diventare, con l’età, più autonomi. Alcuni possono persino aspirare alla vita eremitica. Si può constatare d’altronde, nei nostri monasteri, che la maggior parte degli anziani finiscono i loro giorni in una certa forma di solitudine che viene vissuta sia nel quadro particolare dell’infermeria, sia nella normalità della vita corrente. I fratelli anziani, anche quando rimangono inseriti nella vita comunitaria, acquisiscono una certa distanza riguardo a tutto ciò che avviene e tocca la comunità nel suo insieme e soprattutto i più giovani, fino a prendere le distanze da tutte le liti, gli scontri e tutte quelle discussioni necessarie della vita quotidiana che, in realtà, sono sempre molto relative. Questa libertà molto spesso permette agli anziani di coltivare una bella complicità con i più giovani e questo perché, in fondo, i primi non hanno più niente da perdere e i secondi non hanno ancora tanto da perdere.
San Benedetto è ben consapevole dell’apporto specifico degli uni e degli altri alla vita della comunità ed è per questo che ci tiene al fatto che tutti siano consultati nel caso si debba discutere di un problema importante che riguardi la vita del monastero (RB 3,1). Per questo precisa: «Abbiamo detto di convocare tutti a consiglio, perché spesso il Signore rivela al più giovane la decisione migliore» (3,3). È veramente bello sentirsi dire qualcosa del genere da un uomo sperimentato come Benedetto! Lungi dal pensare il fatto di riconoscersi figli di Dio come una condizione di dipendenza irresponsabile, l’autore della Regola precisa, al contrario, che il fatto di essere giovane in una comunità è anche un appello ad assumere pienamente il proprio ruolo con questa caratteristica propria. Come siamo lontani dal funzionamento infantilizzante che vediamo innescarsi così spesso nelle nostre sante istituzioni! Nelle nostre comunità succede – soprattutto nell’emisfero Nord – che anche quando si è ormai passata la cinquantina si considerino i fratelli ancora come dei giovanetti che non hanno il diritto di esprimere un parere divergente. Questo non è altro che una forma di infantilismo ed è bene combatterlo vigorosamente. Questo vale soprattutto se consideriamo che i “giovani” che entrano nelle nostre comunità possono essere degli adulti di trenta, quarant’anni e persino di più che hanno alle spalle diverse esperienze già vissute.
Dopo aver tratteggiato il suo ideale spirituale nei primi capitoli della Regola, san Benedetto tratta di questioni pratiche che gli danno l’occasione di declinare praticamente i grandi orientamenti presentati all’inizio.
È il caso del capitolo ventiduesimo dove san Benedetto sottolinea l’importanza di mescolare tra loro le generazioni e lo fa parlando nientemeno che del sonno dei monaci: «I fratelli più giovani non abbiano i letti tutti vicini, ma frammisti agli anziani» (RB 22,7). Siamo in un’epoca in cui c’era ancora il dormitorio comune. Si tratta concretamente di evitare le ambiguità delle relazioni tra giovani e approfittare inoltre dell’incoraggiamento che può venire da quanti sono più agguerriti di quanto lo possano essere i principianti, come pure di sostenere i più anziani per non far perdere a questi ultimi lo slancio della giovinezza. Questo tipo di scelta è certamente molto distante dalla mentalità del nostro tempo in cui temiamo di più gli abusi da parte di persone adulte nei confronti dei più giovani! Bisogna misurare tutto a partire da questo timore? Il reciproco incoraggiamento tra generazioni deve trovare delle mediazioni relazionali che non sono mai del tutto esenti dal pericolo di abusi. Nel quadro della vita dei monasteri, mettendo da parte quelli che hanno delle strutture educative, l’abuso potrebbe per lo più consistere in qualche deriva omosessuale. La vigilanza e la correzione sono assolutamente necessarie, nondimeno ciò non deve impedire lo scambio di ricchezze all’interno della comunità.
Nei monasteri di san Benedetto c’erano anche dei bambini che venivano affidati ai monaci da parte delle loro famiglie perché ricevessero una buona istruzione (cf. RB 59). I ragazzi venivano trattati nello stesso modo dei monaci quando commettevano errori più o meno gravi. Anche per loro si applicava la punizione di essere separati dal resto della comunità per un certo tempo e, nel caso in cui non erano in grado di comprendere la gravità di questa pena, si riservava loro un trattamento più rude. San Benedetto crede alla capacità di percezione spirituale di tutta questa giovinezza che popola il monastero e di cui non era certo facile prendersi cura (RB 20).
Il capitolo cinquantottesimo sull’accoglienza dei nuovi membri della comunità è indubbiamente quello in cui possiamo comprendere meglio ciò che san Benedetto pensa circa i giovani monaci. Prima di tutto, l’ingresso in comunità non si permette con facilità: «Mettete alla prova gli spiriti per vedere se sono da Dio» (RB 58,2). Questa nota si oppone all’attitudine che riscontriamo troppo spesso con l’eccessiva facilità con cui si ricevono i candidati alla vita monastica. È un’esperienza esigente che ha bisogno di essere messa alla prova per prendere coscienza di ciò che c’è veramente in gioco.
Ai tempi di san Benedetto, prima di tutto è previsto un tempo di accoglienza in foresteria per quanti bussano alla porta del monastero e, in caso perseverino, li si introduce nella parte del monastero in cui vivono i novizi; questi vivono veramente a parte poiché dormono, mangiano e si dedicano alle pratiche spirituali in un luogo a parte.
Un fratello anziano e sperimentato che «sappia guadagnare le anime» sarà designato per l’accompagnamento dei novizi. Per questo accompagnamento vengono offerti tre criteri: esaminare se il giovane cerca veramente Dio, se si dedica con fervore alla Liturgia, se vive l’obbedienza ed è capace di affrontare le contrarietà che non mancano mai.
Si può così prendere atto da una parte che in monastero i giovani non sono dei principini, ma dall’altra che si tiene ben conto dei loro particolari bisogni: ecco perché vengono formati a parte sotto la guida di un anziano. Si entra gradualmente nella comunità con una particolare attenzione al cammino interiore. Questo contrasta con la nostra sensibilità che cerca di integrare il più possibile i nuovi nella vita di tutta la comunità valorizzandone l’apporto specifico. Indubbiamente bisogna trovare un buon equilibrio tra queste due posizioni e questo rappresenta una sfida importante per la vita monastica dei nostri giorni. Non si misura adeguatamente il divario di mentalità tra generazioni nel mondo contemporaneo; un divario che si approfondisce in modo accelerato e richiede per questo delle tappe di avvicinamento reciproco che permettano un dialogo sano tra persone di diverse età e talora di culture diverse, chiamati a confrontarsi con la mediazione della stessa Regola.
Queste progressiva integrazione diventa ancora più importante a motivo del fatto che il valore dell’impegno come quello espresso dai voti monastici è attualmente assai relativizzato. Non è raro vedere dei fratelli o delle sorelle rimettere in causa il loro impegno senza troppi scrupoli e questo dopo aver fatto professione solennemente. Alcuni arrivano persino a lasciare il monastero senza nessun preavviso dando prova di un comportamento che sarebbe impensabile in qualunque ambito professionale. Questo perché l’impegno nella vita monastica viene sempre più percepito come parte della vita privata nello stesso modo in cui si vivono i legami familiari che si possono oggigiorno fare e disfare sempre più facilmente.
San Benedetto evoca anche il posto di ciascuno nell’ordine della comunità (RB 63) e stabilisce che questo sia legato all’anzianità rispetto all’ingresso in monastero e non all’età anagrafica e meno ancora a quelle che possono essere le differenze sociali. Così «per esempio, uno che è entrato in monastero alla seconda ora del giorno si deve ritenere più giovane di chi è entrato alla prima ora del giorno» (63,8). Benedetto ricorda anche che: «L’età non deve in nessun luogo assolutamente essere un criterio determinante o comunque condizionante l’ordine dei posti, perché Samuele e Daniele, ancora fanciulli, giudicarono gli anziani» (63,5-6). In questo stesso capitolo, in aggiunta a quanto già detto nel capitolo quarto, san Benedetto ripete che i giovani devono onorare gli anziani e che gli anziani saranno pieni di affetto nei confronti dei giovani. In questo senso rammenta delle regole da osservare nella vita fraterna che non sono certo irrilevanti per la vita ordinaria: il fatto per esempio di chiamare i giovani con l’appellativo di “fratello” o “sorella” mentre agli anziani ci si rivolge chiamandoli “nonno e nonna” che, in italiano, è diventato di uso consueto nelle famiglie. Il primo termine indica da parte degli anziani un riconoscimento di fraternità in Cristo e non certo una superiorità paterna o materna. Il secondo manifesta al contempo il rispetto senza che venga a mancare una certa familiarità. Si potrebbe interpretare infatti come “papino, mammina”. Probabilmente non è certo questa la maniera più adeguata per esprimersi nei nostri monasteri oggigiorno, ma forse dovremmo essere in grado di trovare delle espressioni equivalenti.
San Benedetto ricorda pure alcune semplici modalità come, ad esempio, il modo di salutarsi quando ci si incrocia. In tal caso il fratello più giovane deve prendere l’iniziativa. Nella Regola questo si traduce chiedendo la benedizione di Dio attraverso la mediazione dell’anziano. Così pure san Benedetto ricorda che un giovane si alzerà al passaggio di un anziano e gli cederà il posto perché si sieda. Tutti questi gesti quotidiani sono il segno di un atteggiamento generale di rispetto in modo da prevenirsi continuamente nell’onorarsi reciprocamente.
Nella società occidentale dove gli anziani sono spesso messi insieme in case dedicate a loro, l’esempio dei monasteri, dove diverse generazioni vivono le une accanto alle altre, può diventare una testimonianza. Questo a condizione che gli anziani, talora maggioritari in certe comunità del mondo occidentale, resistano alla tentazione di pensare che i giovani, sempre meno numerosi e talora persino ridotti a uno solo, siano a loro servizio! Talora sono dei giovani monaci e monache che si fanno venire dall’estero per questa ragione inconfessata!
San Benedetto, d’altronde, è molto attento al fatto che due membri della stessa famiglia (di cui spesso uno è più giovane) non prendano le difese l’uno dell’altro per evitare lo scandalo di uno squilibrio che si può così creare nel gruppo. Benedetto chiede pure che i giovani e gli anziani – a motivo della loro più grande fragilità – non vengano ripresi continuamente in modo disordinato quasi per sfogarsi.
Si può dunque dire che la regola benedettina, secondo il suo autore, è stata scritta per dei principianti come si è ricordato sopra. Per quanto in monastero tutti dovrebbero cercare di conservare un cuore da “piccolo”, animato dal desiderio di progredire sulla via del comandamento dell’amore, attraverso il reciproco incoraggiamento, il cuore di ciascuno può dilatarsi e così tutti possono correre con gioia verso lo stesso fine che è l’unione a Dio. Questa finalità mantiene in tutti quel dinamismo proprio di quanti vivono la novità e la creatività di Dio. Per una cosa del genere l’età non ha poi così tanta importanza.